Punti di vista da un altro pianeta

venerdì 31 dicembre 2010

Cartoline da un pianeta immaginato (2 di 3)

Il pianeta illusionista
Poi giunse il telescopio, e le cose - per voi - furono destinate a cambiare ancora, sebbene molto lentamente. Nel frattempo, Marte e il paradigma della mitologia non rinunciavano a mettere in scacco l'immaginazione dell'uomo. Anzi, le prime osservazioni telescopiche, nonostante non potessero in alcun modo permettere di fare ipotesi realistiche sulla natura o la composizione del Pianeta Rosso, pur qualcosa evidenziavano. E quel qualcosa era sufficiente per... immaginare. Si trattava di vaghe zone d'ombra per lo più, ma non impiegaste molto - né vi si può biasimare per questo - ad applicare la vostra visione terrestre del mondo per dire che si trattava di “mari”, mentre le zone chiare erano, manco a dirlo, “terre”. Se poi ci aggiungiamo il fatto che nel XVIII secolo già si erano osservate delle calotte polari (proprio come la Terra) che cambiavano ampiezza con le stagioni, che la rotazione intorno al proprio asse era poco più di ventiquattro ore (proprio come la Terra...), e che l'inclinazione dell'asse era di circa 25° (proprio come la Terra!), tutto concorse, insieme con una buona dose di presunzione, a far ritenere che vi trovaste di fronte a un mondo del tutto simile al vostro. E in un mondo così apparentemente simile alla Terra, era così stravagante immaginare che ci fosse la vita? Quando poi vi accorgeste che i contorni delle ombre scure sulla superficie non sembravano avere confini fissi, ma parevano modificarsi nel corso dell'anno marziano (forse in accordo con le stagioni?), l'interpretazione che si trattasse di distese marine, fu sostituita dall'ipotesi che si trattasse di ampi continenti ricoperti da vegetazione, favorita dallo scioglimento delle calotte polari (e quindi si espandeva) o, viceversa, inibita dalle rigidità del lungo inverno marziano (e quindi si riduceva). Si era intorno alle metà del XIX secolo e la tecnologia ottica cominciava a fornire prestazioni di tutto rispetto, permettendo la costruzione di telescopi rifrattori e riflettori di grandi dimensioni, in grado di spingere più vicino lo sguardo degli osservatori. Questo significava senza dubbio poter vedere meglio, ma anche stuzzicare ancora meglio sempre lei: l'immaginazione. Successe così che nel 1877, anno di una Grande Opposizione particolarmente favorevole (posizione di massimo avvicinamento di due pianeti), un italiano si mise seduto dietro l'oculare del suo nuovo bellissimo rifrattore alla Specola di Milano e, così, tanto per provarlo, intraprese la serie di osservazioni più scientifica e sistematica del Pianeta Rosso che mai fosse stata compiuta fino ad allora. L'uomo era Giovanni Virgilio Schiaparelli e il risultato dei suoi studi, che peraltro proseguirono per molti anni a venire, furono le carta geografiche di Marte più dettagliate dell'epoca, con la relativa nomenclatura, che viene tutt'oggi da voi utilizzata. Ma quello che rese indimenticabile quella stagione, fu la nascita della mitologia dei "canali". In realtà Schiaparelli aveva solo timidamente osservato che sembravano esistere delle strutture simili a canali (tenete presente che, con gli strumenti disponibili all'epoca, un canale sulla superficie di Marte, per essere visibile dalla Terra avrebbe dovuto essere largo almeno 20 km) che sembravano anche modificare struttura, ovvero raddoppiare nel giro di qualche giorno, secondo quel fenomeno che l'astronomo italiano aveva chiamato geminazione. Complice, sembra, anche un errore di traduzione o di interpretazione degli scritti di Schiaparelli per cui "canale" fu tradotto in inglese con "canal" (di origine artificiale) invece che con "channel" (di origine naturale), moltissimi cominciarono a vedere canali sulla superficie di Marte, essendone convinti dell'artificialità e, di conseguenza, della presenza di esseri intelligenti in grado di costruirli.

Il pianeta fanfarone
Tra questi il più acceso sostenitore della teoria marziana fu Percival Lowell, ex-diplomatico e abbastanza facoltoso da potersi costruire un osservatorio personale in Arizona, solo per soddisfare il capriccio di osservare Marte. Sebbene ci fossero scienziati che, anche all'epoca, avessero un atteggiamento molto più scettico riguardo la faccenda dei canali e dei marziani, e lo stesso Schiaparelli fosse molto cauto a riguardo, grazie a Lowell, Flammarion e a una pletora di divulgatori tanto popolari, quanto un po' troppo inclini alla suggestione, l'immaginario popolare fu così invaso dalla mitologia di un Marte abitato e tecnologicamente avanzato. Con tutte le conseguenze del caso. Durante i primi esperimenti radio, Tesla interpretò segnali che Marconi diceva di aver ricevuto dallo spazio, come senz'alcun dubbio provenienti da Marte. Ma chi può dire che in quel caso alla base non ci sia stata di mezzo qualche questione personale tra i due? A fine secolo, poi, una ricca vedova francese, tale Clara Gouguet-Guzman, pare mise in palio 100.000 franchi dell'epoca al primo che fosse riuscito a contattare una civiltà extraterrestre, ricevendone risposta. Manco a dirlo, però, il regolamento della contesa prevedeva l'esclusione di Marte perché ritenuto un obiettivo troppo facile! Medium affermavano che in sedute spiritiche potevano incontrare su Marte le anime dei trapassati e lo stesso Carl Jung scrive di un paziente che in trance ipnotico si ritrova su Marte e vede i marziani a bordo di grandi macchine volanti, un'esperienza molto simile a quella raccontata dall'eminente dottor Theodore Flournoy che nei suoi appunti riporta il caso di Helen Smith, una medium svizzera che sotto ipnosi afferma di visitare Marte e dice di parlare con i marziani descrivendoli come "simili ai francesi"! Non è un caso che la stessa fantascienza, a partire proprio dalla fine del XIX secolo, vide il fiorire di decine e decine di romanzi ambientati su Marte, tra cui il più celebre La guerra dei mondi. E forse fu proprio grazie a questo terreno fertile per l'immaginazione che, suo malgrado, Orson Welles scatenò il famoso panico extraterrestre con la celebre invasione radiofonica dell'ottobre 1938. E da dove provenivano gli invasori atterrati a Grover's Mill? Da Marte naturalmente. Almeno fosse stato vero! Se l'avessimo saputo, ci saremmo attrezzati per non deludervi.

[Nota: la seconda immagine risulta essere un disegno autografo di H.G. Wells in cui lo scrittore esprime la sua personale visione dei marziani. Devo proprio dirvi cosa ne penso?]

/continua

mercoledì 29 dicembre 2010

Cartoline da un pianeta immaginato (1 di 3)

Le mitologie nascono di notte. Le mitologie nascono dal mistero. Le mitologie nascono quando la luce delle stelle suggestiona la mente, la libera dalle catene della ragione e la porta a spasso, in giro dove più le piace. Ma le mitologie nascono anche dall'impossibilità di verificare e dalla possibilità di fantasticare, dalla capacità di rendere vero quello che non è, e di applicare alle categorie del reale, pensieri che di reale non hanno un accidente, ma che funzionano perché spiegano, perché mettono divisioni e paletti, perché aiutano a capire e impongono regole, perché aggiungono informazioni dove le informazioni scarseggiano. Da tutti questi punti di vista, Marte - il mio Marte - può essere considerato il principe delle (vostre) mitologie, perché pochissimi concetti nella storia dell'uomo hanno avuto gli stessi effetti dirompenti che ha avuto Marte e del resto è forse proprio questa la ragione per cui io mi trovo qui adesso. Forse soltanto il mare, con i suoi abissi oscuri, i suoi pericoli ignoti, le sue nebbie filacciose, le sue creature nascoste, le sue tempeste improvvise e i suoi baluginii occulti ha saputo sollecitare in maniera comparabile l'immaginazione dell'uomo. Tuttavia il mare l'uomo lo ha sempre potuto toccare, ammirare, assaggiare, tentare di domare persino. E queste sono state cose che ne hanno sempre limitato in qualche misura la mitologia. Marte invece no. Marte se n'è sempre stato lassù fin dagli albori dell'umanità. Distante. Irraggiungibile. Intoccabile. Un semplice punto di luce che, ciclicamente, ogni 15-17 anni, si ingrossava in maniera preoccupante dopodiché tornava a farsi piccolo. Un punto di luce che aveva il colore del fuoco e del sangue, e l'unica parentela che fuoco e sangue avevano con le categorie del reale, l'avevano con la guerra. Fuoco e sangue. Distruzione e morte. Non sorprende dunque che Marte sia stato uno dei miti più forti della vostra antichità, proprio perché legato, a causa del suo colore, alle categorie mentali più drammatiche dell'esperienza umana. Può invece sorprendere di più che, anche in epoche ormai non pagane, ovvero più illuminate dalla ragione e dalla scienza moderna, Marte si sia preso innumerevoli volte gioco della capacità dell'uomo di immaginare.

Il pianeta giocoliere
Provate dunque a chiudere gli occhi e a immaginare che non esista niente di tutto quello che siete abituati a conoscere. Niente frigoriferi e lavatrici. Niente automobili o lampioni per strada. Niente computer, né radio, né televisioni, né Internet. Niente elettricità insomma. Anzi, niente scienza e tecnologia. Niente Piero Angela o Margherita Hack. Neppure Galileo Galilei, naturalmente. Senza dubbio non saprete un accidente di cosa sono le stelle e i pianeti. Sono solo luci, alcune fisse, alcune mobili. Alcune bianche, alcune colorate. Alcune puntiformi, alcune capaci di ingrandirsi e rimpicciolirsi. Ma è difficile che vi possa passare per la testa che siano enormi sfere incandescenti o piccole palle di roccia. E' altresì possibile che, se siete un pensatore particolarmente acuto, versatile e ambizioso, tentiate di cercare di capirne i movimenti e, da questo, cercare di disegnare un modello dell'universo. Ebbene, da questo punto di vista di sicuro Marte vi farà impazzire perché ogni tanto avrete notato che il suo moto lineare e regolare nel cielo notturno subisce un'inversione di marcia. Questo è assai facile da verificare a occhio nudo e non c'è alcun dubbio che questo fenomeno sia stato osservato anche nell'antichità. Si chiama moto retrogrado e si tratta di un semplice effetto di combinazione tra i moti orbitali della Terra e di Marte per cui, da un osservatore posto sul vostro pianeta, quando la Terra (che si muove più velocemente di Marte essendo più interna) si avvicina all'opposizione, cioè al punto in cui Sole, Terra e Marte sono allineati tutti dalla stessa parte, Marte disegna con il suo cammino nel cielo una sorta di cappio o di ricciolo, tornando indietro per qualche giorno e poi riprendendo il suo percorso "normale". In realtà questo curioso fenomeno puramente prospettico è presente nell'osservazione di tutti i pianeti esterni, ma in Marte è molto più evidente, ed è stato proprio nel tentativo di spiegare questo moto, che sono nati tutti i modelli dell'universo dei pensatori del passato, da Ipparco ad Aristarco, a Tolomeo, a Copernico, a Brahe, fino a Keplero, quello che a cavallo tra XVI e XVII secolo ci ha finalmente azzeccato, stravolgendo l'intera visione del (vostro) mondo. E il tutto grazie a Marte. Come avreste fatto dunque senza di noi?

/continua

venerdì 24 dicembre 2010

Stille Nacht

Aspetto i rintocchi. Poi sull'eco del dodicesimo - non prima - esco e sollevo lo sguardo. Se il cielo è sereno e limpido, ovviamente è meglio, altrimenti mi accontento di socchiudere gli occhi nella condensa del mio respiro e di pensare alle stelle nascoste dalla coltre di latte. Perché un cielo notturno, nero come il sedere del diavolo, sia esso visto dalla Terra o da Marte, da dove in realtà non importa, è tutto quello che mi serve. Niente abeti truccati come modelle in tiro, niente neonati adagiati sulla paglietta artificiale delle cassette delle bottiglie, a sua volta sistemata in accordo alle specifiche aziendali dentro mangiatoie ultralight al carbonio con GPS integrato touchscreen a forma di croce e biberon tridimensionali autoriscaldanti con la faccia del bue e dell'asinello in 3D. E nemmeno greggi di credenti occasionali come amanti di una notte dal palinsesto dozzinale, convinti di inseguire il percorso tracciato da una cometa, e invece è l'insegna di Saturn.

La casuale infinità di quei punti luminosi mi bagna di riferimenti incommensurabili e di vertigini metafisiche, e mi racconta di quel poetico paradosso della causalità (o è un ricordo?), per cui la catena degli scopi di ogni cosa sembra fermare la caduta delle tessere del domino proprio a me. Subito prima di me. Che strano! Non è strano? Eppure a saperlo sintonizzare, il cuore, non il cervello, il cuore capta il messaggio che questa è come pioggia sulla Luna. Che quella natura che mi ha sciabolato questo mistero davanti agli occhi, in widescreen, in HD e senza smartcard, quasi come la presa in giro definitiva o come la sagoma del corpo tracciata col gesso, senza però avermi mai fatto vedere la vittima, non può essere stata così spiritosa. Non solo con me. Non proprio per me. Non sono così presuntuoso. Non sono neanche al centro dell'universo.

Così è in quel momento che mi accorgo che tutta la fede che mi serve è qui. Dentro questo cielo. E non ho più paura.

La mia messa di mezzanotte.

Tutto quello che posso augurarvi, è di avere anche voi la vostra, qualunque essa sia, non necessariamente stasera.

[Credits: la foto della Nebulosa di Orione (M42) è di Andrea Tamanti; la foto della cometa West2 è tratta dal sito Space Quest)]

giovedì 23 dicembre 2010

Il cinema ai tempi dell'iPad

Non credo sia il caso di spingersi troppo indietro, prendendo ad esempio - che so - Via col vento. Mi basta fermarmi al 1977 (che siano esattamente 100 anni dopo l'invenzione del fonografo di ieri è solo un caso, o forse no?), ma solo perché è un periodo che ho vissuto in un'età che già consente di avere dei ricordi precisi e che quindi mi è familiare. Ma senza dubbio il concetto è applicabile a maggior ragione andando più a ritroso. Insomma, nel 1977 il VHS era ai suoi albori (ci sarebbe voluto ancora qualche anno per vederne la diffusione capillare a livello domestico) e la TV era da poco uscita dal purgatorio del b/n. Dunque, come succedeva già dai tempi dei Fratelli Lumière, i film si potevano vedere solo al cinema, per cui c'erano tutte le categorie, dalla poltroncina di velluto, alla seggiolina di legno: Prima Visione, Seconda Visione, delegazioni, cinema parrocchiali eccetera. Dal vivo, insomma, se il proiezionista era assimilabile a un direttore e un proiettore a un'orchestra, esattamente come la faccenda della musica di ieri. Così, anche in questo caso, una volta uscito dalla sala, tutto ciò che ti poteva rimanere erano l'eco delle immagini e il riverbero della musica, nella rappresentazione onirica dello schermo della memoria. Per questo ho maturato la convinzione che il non poter rivedere una pellicola a proprio piacimento, se non dopo molti anni, sia stato un ingrediente determinante nella creazione della mitologia cinematografica di molte pellicole.

Una leggenda infatti si sviluppa per accrescimento successivo di fantasie e immaginazioni intorno a un nucleo originario reale, gran parte del quale è però protetto da una fitta cortina di mistero. In altre parole, intorno a un mito, di qualsiasi natura esso sia, c'è sempre una grande mancanza di informazioni. È il fascino dell'ignoto che stuzzica la fantasia ed è l'esercizio della fantasia che conduce alla leggenda. Il 1977 per esempio, fu l'anno di Guerre stellari, e in quegli anni, quelli della prima trilogia, tra il 1977 e il 1983, il merchandising intorno a quell'universo era irrilevante se confrontato a quello che c'è stato a vent'anni di distanza, in occasione della seconda trilogia. I ragazzini facevano Darth Fener (all'epoca era ancora Fener, mica Vader) con una torcia elettrica e la scatola del pandoro in testa. Non c'erano siti Internet che ti facevano vedere il dietro-le-quinte in real time. E nemmeno esistevano pupazzetti, collane di libri e videogiochi 3D in cui immergersi. La primissima versione in VHS uscì negli USA nel 1982, ovvero cinque anni dopo il primo film (ora ci impiegano anche meno di due mesi a finire in Home Video), senza naturalmente neanche un grammo di quegli extra di cui oggi sono farciti i DVD e i Blue-Ray, come ketch-up negli hamburger di McDondald's. E la prima apparizione televisiva di Episodio IV avvenne parecchio tempo dopo la prima uscita cinematografica del film, non dico una decina d'anni dopo la sua apparizione al cinema, ma almeno sette. In pratica di Guerre stellari (come pure di Incontri ravvicinati del terzo tipo, di Via col vento, di Casablanca, di Ben Hur o di Blade Runner) si sapeva praticamente solo quello che si era visto sullo schermo e ci si ricordava. Il resto (ed era molto) lo faceva la fantasia.

Così è questo meccanismo che, catalizzato dalla visionarietà delle immagini, più d'ogni altro ha contribuito in larga misura a creare mitologie di celluloide per intere generazioni di spettatori, ed è la mancanza di questo che, allo stesso modo, rende anche i film più potenzialmente cult di oggi (Pulp Fiction? Titanic? Matrix?) solo dei prodotti cinematografici molto riusciti, emozionanti, spesso anche originali, ma comunque solo prodotti di largo, anzi larghissimo, consumo, ovvero senza quell'aura di autentico mito popolare che ha contraddistinto tante pellicole del passato.

Insomma, film cult rip. Amen.

mercoledì 22 dicembre 2010

La musica ai tempi dell'iPod

Immaginate di ascoltare per la prima volta la Marcia Trionfale dell'Aida con la sua gloriosità, il Va' pensiero del Nabucco con i suoi brividi o la Quinta Sinfonia di Beethoven in tutto il suo possente dramma interiore e di essere consapevoli che molto probabilmente quella sarà l'unica volta della vostra vita. Quando l'orchestra avrà fatto vibrare nell'aria l'ultima nota, il direttore abbasserà la bacchetta e l'eco nel teatro si sarà smorzata del tutto, quella melodia potrà vivere solo nell'immaginazione del vostro ricordo. Niente grammofoni con i tromboni dorati, nessun magnetofono Geloso dal nastro delicato come il petalo d'un fiore, nessun mangiadischi dalla digestione lenta e nemmeno un walkman plasticoso succhiapile da gita scolastica. Figuriamoci diavolerie acronimiche come CD, mp3, winamp o iPod. In tal caso è naturale che sarete propensi ad attribuire a un'esperienza come questa una valenza molto diversa, sia partecipativa che soprattutto emotiva.

Del resto è altrettanto prevedibile che in un mondo completamente archiviabile, riproducibile e auricolarizzato com'è quello di oggi, si sia perso del tutto il sapore dell'esecuzione unica con tutte le sue conseguenze. Con i supporti a disposizione si possono ascoltare canzoni un numero di volte virtualmente infinito, avendo superato per sempre anche i problemi di cagionevolezza del vinile o di stress del nastro (fatto salvo l'annosa questione della persistenza nel tempo dei vari formati digitali). Ma fino al 1877, anno dell'invenzione del fonografo, non esisteva niente del genere sulla faccia della Terra e, tranne coi carillon più o meno sofisticati, che peraltro non avevano niente a che vedere con un'orchestra, l'unico modo che i vostri antenati avevano per ascoltare della musica era di farlo dal vivo. Così, anche avendo la possibilità di andare a teatro ad assistere alla rappresentazione di un'opera o all'esecuzione di una sinfonia (cosa peraltro preclusa a molti), quando il sipario si apriva lo spettatore sapeva che quello che stava per ascoltare difficilmente avrebbe avuto repliche in tutta la sua esistenza. Pensate a che razza di effetto amplificante per l'esperienza questa consapevolezza poteva rappresentare... Insomma, è più quello che abbiamo guadagnato o quello che abbiamo perso?

Ma non finisce qui.

/continua (domani)

venerdì 17 dicembre 2010

Idea regalo rivoluzionaria per il vostro Natale!

Non crediate che non siano giunte fino a me notizie su ciò che è successo dalle vostre parti martedì scorso e delle relative conseguenze (e premesse). Quella faccenda dei 3 miseri e sciagurati voti, delle minacce, della rissa sfiorata (dentro) e delle botte - invece - date e prese sonoramente (fuori). In genere di queste cose tendo a non parlare perché c'è già una tale sovraesposizione di argomenti del genere, che si finisce per forza di cose a fungere solo da cassa di risonanza per i soliti discorsi, senza aggiungere qualcosa di nuovo. Se dunque mi decido a farne un cenno, è solo perché sapendovi indaffarati nella ricerca di qualche regalo da fare ai vostri cari per la maggior gloria del consumismo, per far girare l'economia come chiedono i leader della sinistra e per contribuire alla crescitacrescitacrescita del vostro Prodotto Interno (molto) Lordo, mi sono imbattuto in un'idea che, date le circostanze, potrebbe fare al caso vostro, unendo - come nella migliore tradizione - l'utile, al dilettevole. Del resto ci sono momenti nella storia di un popolo in cui un cambiamento più o meno radicale di uno status quo divenuto oramai insostenibile per una nutrita fetta di popolazione (in questi casi il numero è fondamentale), raggiunge il livello critico di necessità. E ho maturato l'opinione che quel momento sia giunto. Così, perché non approfittare del Natale?

Tuttavia, malgrado quello che si sente dire in giro sul qualunquismo, sulla disaffezione alla politica, sulle colpe del popolo e su quelle dei media, sulle percentuali degli astensionisti eccetera, oggi, nell'epoca di Facebook e dell'Ikea, le cose sono parecchio evolute rispetto al passato e non funzionano più come prima. La sollecitazione delle motivazioni e lo sprone alle coscienze vanno dunque fatti adeguatamente rispetto ai nuovi tempi. Quindi innanzitutto bisogna partire dal prezzo, che non può non essere concorrenziale, perché anche quando si parla di situazioni come queste, si deve poter avere sempre il massimo della qualità al minimo prezzo, meglio ancora se low-cost. Certo, anche in questo caso magari si deve essere disposti ad accettare un po' di globalizzazione, ma di fronte a un'Offerta (davvero) Speciale come questa si può chiudere un occhio, o anche due. In secondo luogo la comodità: perché oramai chi ha più voglia di portarsi in piazza la cassetta degli attrezzi, con la sega, il metro, i chiodi e il martello? Niente paura: trovate tutto già incluso nel kit. In realtà va precisato che Altroconsumo ha già denunciato l'ingannevolezza della presentazione del prodotto, in quanto una volta aperta la confezione si scopre che manca la cesta. Ebbene, almeno fintanto che il produttore non verrà costretto a includerla (o a eliminarla dall'immagine sulla scatola), il mio consiglio spassionato è di comprarla a parte col Commercio Equo e Solidale (e mi raccomando che abbia il coperchio). Non solo il figurone è assicurato, ma vi sentirete più buoni per aver fatto del bene a voi stessi e al mondo intero. Aggiungo infine, per i veri geek, che se volete dare al vostro regalo il tocco di classe finale, qualcuno consiglia di completare l'allestimento con due web cam wireless, una puntata verso il basso da fissare alla lama, l'altra agganciata al bordo della cesta, con l'obiettivo rivolto all'insù. La trasmissione dell'azione live on-line in streaming, pare assicuri un sacco di clic con Google AdSense.



mercoledì 15 dicembre 2010

Il nuovo re del giallo

Se già doversi sorbire Giorgio Faletti che presenta il suo nuovo libro in zona Babbo Natale, può essere considerata un'attività che prevede di aver raggiunto un certo livello di pratica zen; e sapere che anche Enrico Ruggeri, glabro giudice della quarta stagione di X-Factor e ormai consolidato presentatore di misteri mistificati, sta per uscirsene fuori con la sua prima prova da romanziere (titolo ancora top secret), può far vacillare anche le menti più equilibrate, sapere che a gennaio 2011 gli scaffali delle librerie saranno invasi dall'attesissimo giallo Chi ha ucciso Norma Jean?, per la prestigiosa firma di Fabrizio Corona, mi scatena una domanda insidiosa: ma il ghost writer si sarà premurato di spiegare a Corona chi era Norma Jean?

lunedì 13 dicembre 2010

Quelli che le risoluzioni dell'ONU

A volte la politica e la diplomazia proprio non riesco a capirle. Insomma, che bisogno c'era? Potevano evitare di fare tutte quelle capriole e quei tira e molla e dirlo subito che Saddam Hussein in garage teneva parcheggiata una Ferrari Testarossa rosa.

Per lo meno Colin Powell, Condoleezza Rice e quell'altro bel tipino di Donald Rumsfeld si sarebbero potuti risparmiare tutto lo sbattimento di doversi inventare quella faccenda sulle armi di distruzione di massa.

venerdì 10 dicembre 2010

Costumi catodici

Leggendo un post dell'amico Ubi Minor, mi è venuto da riflettere su quella sconsiderata e ricorrente abitudine che ho notato in voi terrestri, di tenere la TV accesa, ma col volume a zero, o tipo bisbiglio devozionale, o mentre siete intenti a fare altro, o quando vi trovate addirittura in un'altra stanza, per cui non c'è modo che stiate seguendo sul serio quello che stanno blaterando lì dentro. Dunque la prima cosa che m'è venuto da domandarmi, la più banale, è come diavolo fate a essere così atterriti dalle grinfie della solitudine (o del silenzio, per coloro cui piace comunque tenere il volume alto) da prediligere questi surrogati di luce di cui - è evidente - non vi importa alcunché, tranne dell'animazione delle vostre pareti con bagliori di pseudoumanità.

Del resto, il fatto che, in un modo o nell'altro, voi non seguiate i suoi discorsi, è indice di quanto in realtà quello che si dice lì dentro abbia una qualche reale importanza per voi. E questo, andando in parte a vostro merito, forse dice qualcosa anche sulla qualità media di ciò che accende gli schermi. Poi non si può negare che ci sia di mezzo anche quella triste faccenda di volervi costruire un comodo alibi all'attenzione, per evitare di dovervi confrontare con le persone, quelle reali, che gironzolano intorno a voi. Ma qui non scopriamo niente di nuovo. In ultima analisi c'è da considerarne la sua equivalenza alcolica, quella distrazione permanente del pensiero, ma senza gli effetti collaterali della cirrosi.

Forse è venuto il momento che qualcuno istituisca la "Telespettatori Anonimi".

mercoledì 8 dicembre 2010

martedì 7 dicembre 2010

lunedì 6 dicembre 2010

venerdì 3 dicembre 2010

La volpe nella cabina (elettorale)

LONDRA (dal nostro inviato) - Il comportamento innato di una mente che tenta di risolvere una dissonanza cognitiva, ovvero la reazione della volpe che, fra il desiderio dell'uva e l'incapacità di arrivarvi, giunge alla conclusione che "tanto l'uva è acerba", è un principio assai più frequente di quanto si pensi. A volte è una semplice conseguenza di una situazione più o meno innocua, ma a volte è anche cercata e strumentalizzata a fini di manipolazione del comportamento individuale. E, se fino a ieri veniva utilizzata soprattutto in ambito commerciale, adesso sembra che si applichi altrettanto bene anche alla politica.

Secondo un recente studio di alcuni ricercatori della Facoltà di Psicologia dell'Università di Norfolk, in procinto di essere pubblicato sulla prestigiosa Psychology Tomorrow, la dissonanza cognitiva sarebbe infatti un fattore fortemente condizionante anche nelle scelte politiche degli individui, in particolare in vista di una consultazione elettorale.

Sulla base dei raffronti delle risultanze statistiche e dei questionari fatti compilare a un campione di 1500 soggetti distribuiti per età, sesso, livello di istruzione e condizioni sociali ed economiche, l'elettore non radicato ideologicamente, ha dimostrato di mantenere comunque l'intenzione di votare il proprio candidato o partito anche di fronte a palesi inadeguatezze dello stesso.

«Supponiamo che un cittadino abbia dato la sua preferenza a un determinato partito» ha spiegato Julia Foster, team leader del gruppo di ricerca. «E supponiamo che dopo qualche tempo un gruppo di dirigenti di questo partito, ovvero il suo leader, vengano pubblicamente coinvolti in gravi questioni che mettano in fortissimo dubbio la moralità e i principi che hanno animato e animano l'operato pubblico di queste persone, i cui discutibili comportamenti possono essere andati anche a detrimento degli elettori stessi. Ebbene, lo studio ha confermato che una percentuale superiore al 55% di chi li ha votati in passato, tende a trovare giustificazioni che portano i soggetti a confermare la loro preferenza ai medesimi partiti o candidati anche alle elezioni successive alla scoperta degli scandali.»

«Questo è un esempio tipico di dissonanza cognitiva, ancorché applicato in un ambito ancora poco studiato, che meriterebbe maggiore attenzione» ha continuato Charles Witt, assistente e dottorando. «Il riconoscimento della palese inadeguatezza del candidato cui dovrebbe conseguire la modificazione della propria intenzione di voto, coinciderebbe con il riconoscimento dell'inadeguatezza del soggetto nella scelta del candidato stesso. E questa reazione tende a essere istintivamente rimossa alla radice per difendere l'elettore dal sentirsi vittima di un senso di ottusità nei confronti di se stesso, un sentimento autoreferenziale di stoltezza tanto più forte, quanto più gravi sono le situazioni in cui sono incorsi i politici in questione.»

Come a dire, se devi farla, tanto vale che la fai davvero grossa. Alla fine ci guadagnerai due volte. Che i politici lo facciano apposta?

giovedì 2 dicembre 2010

L'equivalente cerebrale dei 4 Salti in Padella

Ieri sera ho fatto un test. Ho provato a immedesimarmi nel cervello di un cittadino italiano medio (però animato dalle migliori intenzioni e quindi per questo forse già un filino superiore alla media) e ho provato, tramite una scorsa all'informazione nazionale, sia in ambito televisivo che della stampa, di cercare di capire perché diavolo gli studenti stanno okkupando i tetti. Ebbene, non sono riuscito a trovare un solo articolo di giornale o un solo servizio di telegiornale, che sia riuscito a spiegarmi sul serio le ragioni di questa protesta e mi abbia fatto comprendere l'importanza che queste istanze hanno per i manifestanti.

Naturalmente avendo voglia e tempo di andare a spulciare per bene, magari su Internet, sui blog, sui forum, eccetera, informazioni più dettagliate e puntuali a riguardo si troveranno. Ma la stragrande maggioranza dei cittadini questo non lo fa. La stragrande maggioranza dei cittadini rispetto all'informazione è completamente passiva e il picco del la sua attività è riuscire a farsi un bel nodo al bavaglino. Per il resto apre diligentemente la bocca e si lascia infilare il cucchiaio da Minzolini, da Rossella o da Mentana, senza neanche chiedere a che gusto è la zuppa. Figuriamoci scegliere dal menù.

Il massimo dell'informazione nazionale che sono riuscito a trovare in proposito è stato questo articolo di Repubblica.it che si presenta come - era ora! - una disamina esauriente per tutti coloro che vogliono destreggiarsi in questa sciagurata (?) riforma. Ma se si ha la pazienza di arrivare alla fine della lettura, ci si accorge di non avere aggiunto alcunché di significativo al proprio bagaglio di conoscenze, niente che consenta al lettore di formarsi un'idea. Quello che si trova, al massimo, sono opinioni preconfezionate, surgelate, liofilizzate, prêt-à-penser, e non le informazioni necessarie a cucinarsene una su misura.

Così, la mancanza di un'informazione degna di questo nome (o comunque l'estrema difficoltà nel recuperarla) non fa entrare il cittadino nel merito dei motivi che animano la rivendicazione e lo abbandona in balia della solita deriva strumentale - ovvero l'equivalente di una manipolazione - sia da destra che da sinistra, in quella digitalizzazione radicalizzata delle opinioni di cui ho parlato nel post precedente. E questo non accade solo oggi, nel caso della protesta degli studenti e dei ricercatori, ma tutte le volte in cui il cittadino si trova a confronto con un qualsiasi conflitto sociale che non sia legittimamente semplificabile a concetto digitale (divorzio sì/no, aborto sì/no, nucleare sì/no ecc.). Cioè quasi sempre.

Di certo assistere alla moltiplicazione del numero di pietanze preconfezionate nei banchi surgelati dei supermercati non mi rende particolarmente ottimista.

martedì 30 novembre 2010

Società a 1 bit

La messa in onda della trasmissione di Fazio e Saviano ha messo in luce un aspetto che già era ben visibile ed esasperato nella società italiana odierna, ma lo ha sottolineato con paradossale ironia, lo ha denudato senza pietà e lo ha svelato per la forma grottesca che ha. Parlo dell'ostinazione tutta italiana per il diritto di replica, la febbre da contraddittorio, la dipendenza da par condicio, il delirio da "voglio anch'io dire la mia, e ne ho tutto il diritto, perché la penso come lui, che ha già parlato, anzi quasi come lui, perché a differenza di lui, che porta i boxer a righe, a me piacciono gli spaghetti al sugo."

Si tratta di un aspetto fortemente sintomatico di una società artificialmente semplificata, binaria, ignorante?, arroccata senza eccezioni su posizioni tagliate con l'accetta e per questo sempre e comunque inconciliabili, in cui o uno è bianco o è nero. Milanista o interista. Comunista o fascista. Guelfo o Ghibellino. Cittadino o immigrato. Laico o cattolico. Imprenditore o sindacalista (no, ehm, questo non vale più). Posizioni che sono solo capaci di scontrarsi e mai di parlarsi (o ascoltarsi), mai di trovare un terreno comune su cui dialogare, di capire che una società può progredire e migliorare solo nell'esercizio del compromesso e del rispetto, ma godono nell'alimentare la propria presuntuosa illusione di onnipotenza fine a se stessa, perché per loro conta più della ragione stessa per cui si schierano.
E chi glielo spiega, a quelli, che invece la realtà avrebbe bisogno di almeno 256 tonalità di grigio? Sono solo 8 miseri bit, come un vecchissimo Intel 8080 del 1974. Glieli vogliamo, almeno quelli, concedere al mondo?

[NB Grazie ad Ale Cava per avermi ispirato il post]

lunedì 29 novembre 2010

venerdì 26 novembre 2010

La morale in bottiglia

La maggioranza delle volte, se non si è allenati a fare altrimenti, le cose ci transitano davanti agli occhi senza lasciare alcun segno, come piume trasportate da una brezza tiepida che solo per un istante ci sfiorano, denunciando così la loro presenza, ma l'attimo dopo sono già lontane, come se non fossero mai esistite. Cose che viene automatico dare per assodate, come frutto di un'evoluzione naturale, come le stelle, le montagne e i gatti siamesi. Cose che esistono e tanto basta. Frutto di una generazione spontanea su cui non vale neanche la pena porsi domande. Eppure si tratta di cose umane (o marziane) e questo significa che dietro ciascuna di esse c'è stato qualcuno che avrà avuto le sue buone ragioni per farle e proprio in quel modo. Ecco, a me piace spesso cercare di guardarle dal di fuori, queste cose che in qualche modo deviano rispetto a un alveo spontaneo, col mio telescopio, e domandarmi perché diavolo sono così. Il fatto che il più delle volte non sappia darmi una risposta, o almeno una convincente, rende le domande a loro modo assai inquietanti, ma per questo ancora più interessanti.

Una sensazione del genere me la suscitano molte etichette delle acque minerali. Sarà capitato anche a voi, in un ristorante particolarmente pigro nel servizio, di prendere in mano una bottiglia di plastica e leggere. Caratteri fisico-chimici. Sostanze disciolte. Fonte. Imbottigliata da. Numero verde. Da consumarsi preferibilmente entro il. Eccetera. Poi, a volte - non sempre - c'è un'altra indicazione tipica, in genere presente nelle acque oligominerali, che sostanzialmente si manifesta in due varianti. La prima è: "Il Ministero della Salute ha riconosciuto l'acqua Taldeitali ideale come base per la preparazione di alimenti per neonati". E qui siamo ancora nel campo delle informazioni tutto sommato utili. La seconda è invece questa:

L'allattamento al seno è da preferire, nei casi ove ciò non sia possibile, questa acqua minerale può essere utilizzata per la preparazione degli alimenti dei lattanti.

Ora la domanda che mi sorge spontanea come un fungo bellissimo ma velenoso è: perché mai l'etichetta di un'acqua minerale dovrebbe permettersi di dire a una madre che cosa sarebbe meglio che facesse? Non saranno affari suoi e dei suoi capezzoli? Come si può pensare che la presenza di una frase del genere su una bottiglia (di plastica per giunta!) influisca sul comportamento di una mamma nei confronti delle modalità di alimentazione di suo figlio? C'è forse qualche strategia di marketing occulto che mi sta sfuggendo? La bottiglia vuole forse esercitare un senso di colpa nei confronti della mamma che non vuole o non può allattare il suo bimbo, e dunque spingerla ad alleggerire la coscienza con l'utilizzo dell'acqua in questione? O ancora: si tratta di una questione morale? A tale proposito, in un paese come l'Italia, ci si potrebbe chiedere perché non capita (ancora) di leggere:

Scopare senza protezione è da preferire, nei casi ove ciò non sia possibile...

Indovinate un po' sopra che cosa?

mercoledì 24 novembre 2010

Il mio amico Suzuki

In una scuola americana, la maestra presenta alla classe un nuovo compagno arrivato negli USA da pochi giorni: Sakiro Suzuki, figlio di un alto dirigente della Sony. Inizia la lezione e la maestra interpella la classe.
«Adesso facciamo una prova di cultura. Vediamo se conoscete bene la storia americana. Sapete dirmi chi pronunciò la frase: "Datemi la libertà o datemi la morte"?»
La classe tace. Poi è Suzuki ad alzare timidamente la mano.
«Davvero lo sai, Suzuki? Allora su, dillo tu ai tuoi compagni.»
«Fu Patrick Henry nel 1775 a Philadelphia.»
«Molto bene, bravo Suzuki!» La maestra sorride ammirata.
«E chi disse: "Il governo è il popolo, il popolo non deve scomparire nel nulla"?»
Di nuovo silenzio e Suzuki che alza la mano.
«Suzuki?»
«Abraham Lincoln nel 1863 a Washington.»
La maestra stupita si rivolge agli altri: «Ragazzi, vi rendete conto?, Suzuki è giapponese, è appena arrivato nel nostro paese e conosce la nostra storia meglio di voi che ci siete nati. Dovreste vergognarvi!»
Allora si sente emergere una voce bassa bassa, ma non abbastanza da non farsi capire: «Vaffanculo a 'sti bastardi giapponesi!»
La maestra allora si alza indispettita. «Chi l'ha detto?!»
Suzuki alza la mano e, senza attendere alcun cenno da parte dell'insegnante, risponde: «Il generale Mac Arthur nel 1942 presso il Canale di Panama e Lee Iacocca nel 1982 durante la riunione del Consiglio di Amministrazione della General Motors a Detroit.»
La classe ammutolisce, ma subito dopo si sente un'altra voce dal fondo dire: «Mi viene da vomitare...»
«Voglio sapere chi è stato a dire questo!» urla allora la maestra.
Ancora Suzuki risponde al volo: «George Bush Senior rivolgendosi al Primo ministro Giapponese Tanaka durante il pranzo in suo onore nella residenza imperiale a Tokyo nel 1991.»
Allora si sente un altro esclamare scazzato: «Succhiamelo!»
«Adesso basta!» urla inviperita la maestra. «Chi è stato?»
Suzuki risponde imperterrito: «Bill Clinton a Monica Lewinsky nel 1997, a Washington, nello studio ovale della Casa Bianca.»
Stavolta uno studente si alza in piedi e urla: «Suzuki del cazzo!»
«Valentino Rossi rivolgendosi a Ryo al termine del Gran Premio del Giappone nell'aprile 2002.»
La classe esplode in urla di isteria, la maestra sviene.
A quel punto si spalanca la porta ed entra il preside: «Cazzo, non ho mai visto un bordello simile!»
«Silvio Berlusconi, luglio 2008, nella sua villa Certosa in Sardegna.»

[NB: Non è farina del mio sacco. E' una storiella che sta circolando in questi giorni via e-mail. Mi scuso con chi eventualmente l'avesse già letta, ma l'ho trovata divertente e per questo ho voluto condividerla con voi.]

lunedì 22 novembre 2010

E-book sì o no: dilemma vero o presunto?

Se sei tra quelli che, quando qualcuno solleva l'argomento e-book, accartocciano la bocca in una smorfia, scrollano le spalle e se ne escono fuori col solito discorso che non potranno mai fare a meno del profumo della carta, l'aroma della colla, dello scrocchiare della rilegatura, di leccarsi il polpastrello e della possibilità di fare le orecchie alle pagine come atto supremo di libertà, ebbene sappi che diffido di te. Eppure ti capisco e, anzi, ci sono volte in cui mi ritrovo a pensarla proprio come te, e quindi finisco innanzitutto per diffidare di me stesso. Perché se subito dopo ci ragiono con un po' di distacco, mi rendo conto che tutte quelle percezioni sono legate solo a nostalgie sensoriali, a radicate abitudini scambiate per affezioni, a qualcosa che non aggiunge davvero qualcosa al piacere della lettura. Quindi non può essere tutto qui. Che cosa c'è allora?

Nel corso del tempo ho maturato la convinzione che parte della diffidenza soprattutto da parte dei lettori appassionati verso l'e-book, sia legata al fatto che questo oggetto trasmette inquietudine, laddove il libro tradizionale riesce invece a comunicare un confortevole senso di sicurezza. La spiegazione è semplice e corre su due binari paralleli. Innanzitutto il libro, con il suo peso, il suo spessore e - dunque - le sue pagine, tutte presenti in ogni momento, dalla prima all'ultima, rappresenta fisicamente l'esistenza completa di una storia che ci verrà raccontata, come una garanzia che la storia, proprio come una vita intera, è già tutta lì, certa e determinata, e sia per scelta consapevole, sia per errore imperdonabile, il lettore potrà in ogni momento capitare sull'ultima parola e vedere come va a finire, leggere il nome dell'assassino, scoprire se il protagonista ci lascerà la pelle. Questo non accade con l'e-book in cui, pur sapendo (sperando?) che l'intero file è memorizzato dentro un chip sotto forma di esotiche diavolerie atomiche, il lettore potrà sperimentare solo l'esistenza di una pagina per volta. Quello è il suo presente. E dunque con l'e-book il futuro è in ogni momento incerto, legato alla correttezza di quei miliardi di atomi che contribuiscono a creare il file, alla durata della carica della batteria del lettore, alla speranza che d'improvviso qualcosa lì dentro non si scassi. Da questo punto di vista l'e-book possiede attributi di incertezza del tutto assimilabili a quelli della vita reale, e dunque sgradevoli, rispetto al libro che dà invece qualcosa di più e di importante rispetto alla vita stessa, sgravando, almeno per la storia che vuole raccontare, di quelle inquietudini del reale che già affliggono con una pena non trascurabile.

Secondariamente ci sono senza dubbio altri fattori chiave più o meno elettivi nell'inerziale preferenza verso il libro, come la delicata questione della conservazione della cultura letteraria nel corso delle generazioni a venire, o come l'acquisto, ovvero il possesso, di un oggetto fisico, palpabile, collezionabile, o come l'indifferenza nel suo utilizzo. Provate per esempio a pensare che sia estate e vogliate andare alla spiaggia a leggere. A un certo punto, il sole che vi martella sul collo vi fa venire voglia di andare a fare un bagno. Con che leggerezza lascerete l'e-book (e quindi relativo lettore per un valore compreso tra i 150 e i 250 euro) incustodito sull'asciugamano o nella borsa? Se invece avrete un libro tradizionale, lo abbandonerete senza problemi, nella convinzione che se ve lo fregheranno, ve lo potrete sempre ricomprare senza troppi batticuori.

Risulta evidente che i suddetti discorsi, in particolare la prima parte, hanno valore solo quando si parla di narrativa e di poesia. Come la possibilità concessa dall'e-book di portarsi dietro molti libri di narrativa senza aggravio di peso non la riesco a considerare determinante nella preferenza verso il libro elettronico. È per questo che sono convinto che l'e-book sia (e senza dubbio sarà) un formidabile strumento soprattutto in ambito didattico e tecnico. Pensate solo alla possibilità per uno studente di non doversi caricare sulla schiena dieci chilogrammi di carta, tra libri e dizionari assortiti. O per un avvocato potersi portare in udienza codici, raccolte di sentenze e tutte le pubblicazioni che gli interessano. Scaffali e scaffali di carta racchiusi in duecentocinquanta grammi di roba. Stessa cosa per un ingegnere o un geometra in cantiere o in trasferta. Insomma libri di testo, enciclopedie, normative, manualistica tecnica di tutti gli argomenti, nonché la saggistica, che presuppone un coinvolgimento emozionale decisamente basso, troveranno un supporto perfetto nella fredda comodità dell'e-book. E c'è da credere che nel giro di un paio di lustri spariranno del tutto le relative nuove edizioni cartacee. Ma con la narrativa secondo me il percorso non funzionerà altrettanto bene. Al massimo potremo assistere a un affiancamento dei due supporti, come accade ancora adesso per CD ed mp3. A meno naturalmente dell'adozione da parte degli editori e dei distributori di una politica di prezzi talmente aggressiva (che adesso peraltro non si vede) da finire per far preferire comunque ai lettori l'edizione elettronica a fronte del risparmio di parecchi soldi. Quanto poi alla questione del fantomatico e insostituibile profumo di libro nuovo, potete stare certi che quello sarà l'ultimo dei vostri problemi. Hanno già pensato allo spray.

sabato 20 novembre 2010

giovedì 18 novembre 2010

La favola del Pifferaio del Paese di Chi Sta (2 di 2)

Poi c'è tutta quella politica che comprende le delibere che il cittadino non percepisce direttamente, o perché non coinvolgono la sua realtà, o perché la coinvolgono senza che lui ne abbia facoltà, oppure se ne accorge, ma hanno su di lui effetti lievi i quali, ancorché negativi, sono come odori leggermente sgradevoli che sulle prime danno fastidio, ma poi ci si abitua in velocità, fino a integrarli nella vita di tutti i giorni senza sofferenza, né difficoltà. Questo aspetto secondo la mia abilità, contribuisce ancor meno del precedente alla formazione dell'opinione dei cittadini del Paese di Chi Sta. Quindi gli attribuirei una percentuale non superiore al 10% in tutta tranquillità.

Il restante, cospicuo 70% è riservato al terzo aspetto della politica da quaqquaraqquà. Quella impastata con le parole e le questioni morali, la retorica da bar e le emozioni da Cinecittà, le dita puntate al cielo e i sofismi, i pulpiti e i palpiti, gli slogan e i talk-show, le dichiarazioni e le smentite, i telegiornali dei burattini e gli anatemi di papà. Tutta questa politica non si basa mai su fatti concreti su cui i cittadini hanno elementi per verificare e dunque giudicare con idoneità, bensì tratta elementi puramente concettuali, sterili e capziosi, in un'unica, ininterrotta singolar tenzone dialettica per lo più vuota e fine a se stessa, come un cappello di falpalà. Ebbene, per cercare di districarsi in questa complessità, l'unica possibilità per il cittadino del Paese di Chi Sta che un'opinione si vuole far, è data dall'approfondimento di quanto affermano i media, attività che può essere svolta solo attraverso un (non semplice, né leggero) continuo lavoro di confronto delle fonti, svolto con lucido disincanto e massima obiettività. Perché è altresì naturale che le fonti dell'informazione non siano mai cristalline nella loro neutralità, ma tendano sempre e comunque a vedere e vagliare i fatti attraverso il filtro della propria mentalità. Ma questo nel naturale andamento delle cose sta. Il confronto tra esse dovrebbe avere per il cittadino proprio lo scopo di vagliare i pro e i contro espressi dai diversi punti di vista per giudicare quale di questi - e in che capacità - corrisponde meglio al suo modo di vedere e sentire questo mondo qua.

Nel Paese di Chi Sta, però, la quasi totalità delle fonti è radicalizzata sugli schieramenti e non fa alcunché per dissimulare l'astrusità, anzi rappresenta in continuazione i fatti della parte che favorisce in maniera protezionistica e dunque fortemente distorta e univoca, al solo fine di confermarne la bontà. Come può dunque destreggiarsi in questo labirinto di alterità un cittadino che vuole farsi un'opinione ragionata senza oscurità? La risposta è semplice e tremenda: impossibilità! I cittadini delle prime due fette (chi sta di qua e chi di là) continueranno a utilizzare i media dei loro propri schieramenti, che li conforteranno oltremodo nei loro bei vestiti di taffetà, mentre agli altri, agli indecisi, non resterà che lasciarsi prendere dagli aspetti maggiormente emotivi delle opinioni e delle possibilità, e farsi condurre da quelli, come una zattera alla deriva verso un orizzonte di altrui arbitrarietà. Così finiranno per dare ascolto all'amplificatore più potente che ci sarà, seguendo con remissività colui che i mezzi per aumentare il volume più in alto avrà.

Insomma, nel Paese di Chi Sta, il più grande Pifferaio solo vincerà.

/fine

mercoledì 17 novembre 2010

La favola del Pifferaio del Paese di Chi Sta (1 di 2)

C'era una volta la società del Paese di Chi Sta, come quattro fette di torta al babà: chi sta qua (e non sopporta chi sta là), chi sta là (e non sopporta chi sta qua), chi né di qua, né di là (perché il qualunquismo va), e chi un po' di qua e un po' di là (che risoluto mai sarà). Ebbene, se per le prime due categorie non c'è granché da fa', perché chi vi appartiene ha maturato una connotazione ideologica fin dal grembo di mammà e, a prescindere da quello che leggerà, vedrà e sentirà, assai difficilmente schieramento cambierà; per le altre due fette di popolazione del Paese di Chi Sta la faccenda assai più complicata e delicata sarà, perché è quella che alla fine pender l'ago della bilancia di qua o di là farà. Così, va da sé che i mezzi di informazione, per queste categorie, rappresenteranno i sistemi cruciali per la formazione dell'opinione di Chi Sta qua. Tuttavia non si intende disquisire qui tanto sull'omertà o la faziosità di un telegiornale che sta di qua, né sull'aggressività o la smaccata propensione alla difesa di uno schieramento a dispetto di ogni evidenza di un quotidiano che sta di là.

Quello che mi preme osservare, riferendomi anche al lungo discorso sulla memetica visto di recente su queste pagine qua, è l'intrinseca difficoltà che un individuo che delle ultime due categorie parte fa, trova quando decide di cercare di formarsi un'opinione personale riguardo la situazione generale del Paese di Chi Sta. Una difficoltà che sfiora l'impresa improba, se non la pura impossibilità. Infatti, nel momento in cui il cittadino medio desidera conoscere i fatti per giudicarli secondo le proprie inclinazioni e la propria sensibilità, può prendere in esame tre aspetti, peraltro non esclusivi, ma complementari, della politica attività.

Il primo è quello dei provvedimenti che il governo ha preso e che sono andati a interessare direttamente la vita del cittadino nella sua intimità. La cosa più immediata, per esempio, è l'abolizione o l'istituzione di qualche tassa da paga'. Oppure qualche condono, o qualche procedura di sgravi fiscali, o l'attuazione o la modifica (in meglio o in peggio) di qualche iter burocratico che agevola od ostacola l'affermazione di determinati diritti per cui protesta'. Ma tutto questo occupa più o meno il 10% della politica del Paese di Chi Sta e comunque - gratta-gratta - non sono esercizi così caratterizzanti, tranne in casi sporadici, l'attività della classe politica che al governo sta. Da sempre, per esempio, nel Paese di Chi Sta le tasse vanno e vengono (più la seconda che fa 'ncazza'), a prescindere di chi sta al potere, e il resto ha quel gusto stucchevole della demagogia e della pubblicità. Questo aspetto contribuisce senza dubbio alla formazione dell'opinione nel Paese di Chi Sta, ma direi in maniera non determinante, azzardo un 20% per sola pietà.

/domani continuerà.

lunedì 15 novembre 2010

Un mondo formato Zelig

«Ãˆ quella manifestazione di pensiero talora di altissimo livello che nei tempi si è addossata il compito di castigare ridendo mores, ovvero di indicare alla pubblica opinione aspetti criticabili o esecrabili di persone, al fine di ottenere, mediante il riso suscitato, un esito finale di carattere etico, correttivo cioè verso il bene.» Questa è l'espressione ufficiale con cui la Prima sezione penale della Corte di Cassazione, nella sentenza n. 9246/2006 ha definito giurisprudenzialmente il concetto di satira. Ma non c'è bisogno di scomodare la legge per sapere che fin dai tempi di Aristofane la satira ha rappresentato uno strumento forte e cruciale nella critica al potere, nel metterlo alla berlina, nello spogliarlo degli sfarzosi abiti della propaganda e metterlo a nudo per quello che è. E questo vale ancora oggi. Eppure in un'epoca in cui, nonostante tutto, la satira è sempre più presente nei media, televisione in primis, e soprattutto in cui in essa si mescola - e dunque si mimetizza - con la pura comicità, andando dunque ad assumere un più prosaico significato di intrattenimento puro, non riesco a fare a meno di chiedermi: la satira politica fa ancora male?

A giudicare dalla solerzia dei vari tentativi, alcuni riusciti, altri meno, di censurarla, verrebbe da rispondere «sì» senza riserva alcuna. Anzi sembrerebbe forse l'unica attività della libertà di espressione che riesce a dare ancora davvero fastidio al potere. D'altro canto, quando sempre più spesso si assiste alla barzellettizzazione della realtà, ovvero quando così sovente i potenti tentano di imbellettare i loro vizi sorridendo dietro alla simpatia di una pretesa "battuta di spirito", sempre salace, non di rado villana, e quindi usano la comicità (e perciò uno strumento assai vicino alla satira) a loro vantaggio, la questione non mi pare tanto più peregrina. Perché l'assuefazione all'ironia e alla comicità, che tutto sdrammatizza e riduce i fatti a quisquilie, faccende su cui poterci - appunto - ridere sopra, induce a fare questo anche quando si tratta di satira. Dunque è un'assurda stravaganza marziana pensare che l'inflazione (invasione?) di programmi comici, che spesso contengono anche una qualche forma anche blanda di satira, possano costituire una sorta di antidoto omeopatico che viene somministrato goccia a goccia a una popolazione intera, non solo per non farla pensare e addormentarne le capacità intellettuali, ma anche per abituarla al fatto che si può ridere di tutto, anche delle cose per cui in realtà ci si dovrebbe indignare?

sabato 13 novembre 2010

giovedì 11 novembre 2010

Quel fragrante profumo di notizia appena sfornata

È curioso notare alcune analogie tra edicole e panetterie, ovvero tra sfilatini e quotidiani. Si preparano entrambi quando il sole non è ancora spuntato. Il giorno dopo sono già stantii e dunque c'è bisogno di rinnovare quotidianamente il prodotto da mettere in vendita. Si vendono per lo più al mattino. Entrambi (per lo meno certe tipologie) possono creare allergie con conseguenze gastro-intestinali che non è il caso di approfondire. Ed entrambi, senza quel buon profumo che si spande per l'aria sopra il marciapiede dirimpetto al loro punto vendita, probabilmente venderebbero la metà. Ma se nelle panetterie, l'esalazione del tipico profumo che scatena l'acquolina è un fatto per lo più di fisica - magari agevolata da qualche opportuno ventilatore -, nel caso dei quotidiani, non c'è dubbio che i diffusori di fragranze informative siano da ricercarsi nell'equivalente moderno degli strilloni, ovvero le loro versioni a bassissimo costo, ancorché statiche e mute, le locandine.

Ebbene, qualche giorno fa mi è capitato di vederne una, in verità non molto dissimile da tantissime altre che spuntano nel corso dell'anno, che però questa volta mi ha portato a riflettere. Recitava così:

[Incidente in moto,
muore commercialista]

Così ho notato che tutte le volte in cui è consentito dalle circostanze, secondo le locandine non è mai un uomo o una donna a morire. Non un essere umano, insomma. Bensì un dentista, un idraulico, uno studente, un cuoco ecc. In altre parole la vittima (ma solo quando è italiana) è quasi sempre descritta al pubblico attraverso la sua professione, come se all'atto della sua morte il lavoro svolto durante la vita diventasse più importante agli occhi del mondo di quanto non fosse durante la sua stessa vita. Perché? Perché non scrivono: Incidente nella notte / muore Mario Rossi (e mi scuso con tutti gli eventuali Mario Rossi, i quali sono autorizzati a toccarsi i gingilli) e amen? La ragione è banale, anche se il meccanismo su cui agisce è lievemente subdolo. Il punto è che ci sono moltissime probabilità che tu - che ti lasci rapire l'attenzione dalla locandina - conosca di persona almeno un commercialista/avvocato/idraulico/medico/dentista ecc. (in questo caso i dentisti vanno per la maggiore, ma anche i commercialisti non scherzano), e facendoti così focalizzare un obiettivo assai ampio e facile da centrare, il tuo istinto finisce per solleticarti con la tentazione di andare a vedere se per caso la vittima è proprio quella che conosci tu.

Così, senza nemmeno accorgertene, ti ritrovi per le mani un chilo di rosette ancora fumanti. E dire che non avevi neanche fame.

martedì 9 novembre 2010

Mollare la tua fidanzata con un SMS dal tuo migliore amico

A esprimere certe considerazioni (chiamarli giudizi è troppo) a volte si può correre qualche rischio. In questo caso alla peggio potrò essere additato come un illuso o un idealista, oppure come uno vecchio stampo, legato a schemi desueti che ormai il modello sociale imperante ha ormai ridotto in cenere. Ma credo di avere le antenne abbastanza robuste per poter correre un simile rischio. E dunque il fatto che ha scatenato in me la considerazione, l'avrete capito dall'immagine, è stato l'improvviso e imprevisto esonero - ieri - di Gian Piero Gasperini dalla panchina del Genoa.

Ebbene, personalmente credo che la maggioranza della volte (sempre?) i modi valgano almeno tanto quanto i fatti, se non di più. Nella fattispecie, per quanto è stato concesso di sapere al pubblico, sono stato subito colto dalla consapevolezza di essermi trovato di fronte a una decisione improvvisa, senza dubbio giunta non solo al termine di una brutta partita, ma probabilmente maturata a fronte di un percorso di dubbi e incertezze cominciato molto tempo prima. D'accordo. Ci sta. Senza contare che un presidente (di una squadra di calcio, come di una qualsiasi società) ha tutto il diritto a fare tutto quello che più gli garba, non fosse altro che i soldi sono i suoi. Quindi non mi voglio occupare dell'eventuale bontà o meno della decisione in sé.

Entro invece nel merito del modo in cui è stata compiuta l'azione. Con l'esonero diretto di un allenatore a quanto ne so molto, molto amato dal suo pubblico e almeno da una gran parte della squadra, di cui era alla guida da un lustro, che nel calcio vale tanto quanto un'era geologica, e che aveva portato la squadra a fare un gioco spesso invidiato in tutta Italia, traguardi unici per una squadra come il Genoa. A fronte di questi trascorsi senza dubbio molto importanti, nessun colloquio chiarificatore. Nessuna richiesta di spiegazioni. Nessun: «Ti do ancora due settimane per risollevarti, in fondo hai l'infermeria che sembra un campo della Croce Rossa alla periferia di Hanoi». Niente. Solo una telefonata liquidatoria, come un fulmine nel deserto, e nemmeno del presidente - che forse non ha avuto il coraggio? - bensì del Direttore Sportivo. Ecco, sottolineando il fatto che il mio giudizio può essere formulato esclusivamente rispetto a quello che i media hanno riportato, interviste ai protagonisti incluse (e quindi potrebbe non corrispondere alla realtà della cose che solo i diretti interessati conoscono), a me sembra un comportamento per cui la società dovrebbe arrossire di vergogna. Ma la faccenda non si ferma qui.

Occhieggiando per forum, Facebook, blog eccetera, ho notato infatti che la stragrande maggioranza dei tifosi (perché immagino che lo siano) ci sono rimasti male, si sono rattristati, sono rimasti choccati, questo sì, ma in pochissimi hanno avuto la sensibilità di stigmatizzare le odiose modalità pubbliche con cui Gasperini è stato silurato. Dei media, naturalmente, nessuno. È naturale, dunque, che mi sia venuto da chiedermi se sono davvero un illuso o un idealista, oppure uno vecchio stampo, o ancora un pazzo moralista. Se il mondo del calcio può fungere (?) da specchio della società, allora l'impressione è che questa abbia davvero consumato del tutto il valore dei gesti e la sensibilità per essi, a beneficio solo dei fatti e dei risultati. Nel caso non credo proprio di essere io a scoprirlo. Però almeno dovrebbe smetterla di vantarsene.

lunedì 8 novembre 2010

L'amore, la carne, l'inferno

Questo non è un libro. E non è nemmeno un romanzo. Dunque non è il racconto di una storia, vera, verosimile o presunta tale.
Questa è un'esperienza.
E se questo è quello che si vorrebbe da ogni lettura degna di questo nome, il lettore abituale sa che all'atto pratico questo non si verifica poi così sovente. Così, quando capita di imbattersi nel libro che fa vibrare le corde giuste, è piacevole lasciarsi andare a una specie di sensazione estatica, come di avere avuto il privilegio di aver assistito a un piccolo, inaspettato miracolo dell'arte letteraria. Ebbene, nel caso di quest'opera ciò è evidente fin da subito, perché Sangue di cane di Veronica Tomassini, primo titolo del neonato Laurana Editore, è qualcosa di potente come raramente accade di pescare in giro per gli scaffali, anzi, oserei dire di prepotente, perché per quanto tu tenti di opporre resistenza, lui ti prende (e non per mano, bensì per la gola, lo stomaco e il cuore) e ti trascina giù nei suoi abissi oscuri e ti costringe a viverli fino in fondo con la stessa disperazione dei suoi protagonisti.

Due persone. Un uomo e una donna. Due popoli. Italiani e polacchi. Una città. Siracusa. E un Amore. Il loro. Anzi il suo. Quello di lei. Talmente incondizionato, supremo, sconfinato, essenziale e indispensabile da sopravvivere allo sgomento di un viaggio negli inferi della vodka, della prostituzione, del vagabondaggio, del disadattamento alla vita, come una malattia cronica - o addirittura genetica - di un essere umano, ma forse anche di un intero popolo, che nelle quotidiane difficoltà di un'immigrazione più subìta che scelta, è incapace di percorrere la strada della normalità per più di qualche giorno.

Ma quello che più d'ogni altra cosa colpisce dell'esordio nella narrativa della Tomassini e rende questo libro un piccolo gioiello letterario, è lo stile: forte e intenso, a tratti lirico, in altri momenti crudo e selvaggio, sempre assolutamente in sintonia con la vicenda che racconta, come una canzone hard-rock che non abbassa mai il volume e ti stordisce e ti trascina con sé, col suo ritmo forsennato, i suoi bassi che ti fanno rimbombare il cuore, il suo timbro sporco e le sue parole che ti succhiano via il sangue. Tra imprevisti squarci di luce e rovinose cadute nella melma, la Tomassini ci parla di una donna che insegue eroicamente (follemente?), per lei e il suo amore senza fine, una vita normale nella ricorrente metafora della casa, unico rifugio possibile per i corpi, ma anche per le anime, cercando di sfuggire alla persecuzione di un presente errante dai denti aguzzi e avvelenati, che sanno di vodka e sembrano non voler dare loro scampo alcuno. E per questo è disposta ad affrontare tutto, compresa la disperazione più totale, e a sfidare tutti, compresi i radicati pregiudizi di una terra intera e gli autorevoli biasimi di una famiglia per bene.

A rendere ancora più forte l'impatto emotivo sul lettore, è il punto di vista della narrazione, proprio quello della protagonista, perfetto per dipingere tutta l'intensità dell'esperienza soggettiva, come una memoria vivida, e dunque con le stesse modalità del ricordo che non sempre segue la linearità del tempo, ma che ha presente in ogni istante (e per questo a ogni parola lo restituisce) la furia e la vivacità dell'intero quadro d'insieme. Questo - va detto - a volte penalizza un po' la comprensione alla prima lettura, soprattutto nelle prime pagine, ma queste sono solo le sue mani che vi stanno prendendo per il bavero e stanno portandovi là sotto con lei. Quindi lasciateglielo fare, non ve ne pentirete.

L'incipit:
Marcin era morto. Io avevo i pidocchi. Cioè successe nello stesso momento, Marcin cagava sangue, stava morendo, beveva e cagava sangue. Io invece avevo prurito ovunque, dietro la nuca soprattutto. "C'hai la rogna", mi diceva Tano, il pescatore, l'amico di Ivona. Ma Ivona stava con Marcin e Marcin stava morendo perché cagava sangue.
Io stavo con Slawek, Slawek Raczinski di Radom, Polonia. Mi ci portò Slawek in quel posto di merda, una casa a due piani, zona residenziale, bordello con mignotte dell'est, cuscini a forma di cuore, camere personalizzate, condom personalizzati, fellatio personalizzate. I pidocchi li presi prima comunque.
Ero una ragazzina nei modi, e forse anche una donna. Perché avevo ventidue anni. Statura media, carina, sguardo acquoso, gambe fragilina, magre troppo magre, taglia seconda di reggiseno. Capelli lunghi. Scuri. Graziosi. Italiana. Di Siracusa.
Stavo con un polacco di nome Slawek, professione: semaforista.
Per saperne di più:
>Breve storia sulla "travagliata" pubblicazione del libro, su Vibrisse di Giulio Mozzi.
>Bellissima recensione di Francesca Matteoni con un altro estratto del libro, su Nazione Indiana.

Sangue di cane, di Veronica Tomassini (Laurana Editore)

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