Punti di vista da un altro pianeta

sabato 24 dicembre 2011

Il (non)senso degli auguri

Ma qual è il tuo bisogno di fare (o di ricevere) gli auguri, spesso a/da degli sconosciuti che non sai nemmeno che faccia hanno? Addirittura oggigiorno gli auguri ti arrivano da entità incorporee tipo società o negozi. "Tanti auguri da Feltrinelli.it!" Ma che cazzo te ne può fregare degli auguri di Feltrinelli.it? (Mentre gliene frega molto a Feltrinelli.it che in questo modo cerca di entrare in familiarità con te). Lasciando da parte questi casi per certi versi estremi e restando negli auguri di natura "personale", a parte la buona creanza e il fatto che non costa niente - cose che in verità hanno un ruolo niente affatto trascurabile -, qual è lo scopo sociale degli "auguri di Natale"? O anche solo di augurare "buone feste"?

Orbene, non si può negare che già solo per il fatto di essere feste, sono buone (comunque meglio di quando non lo sono). Il fatto poi che un'eventuale sfiga possa essere percepita come peggiore in questo periodo dell'anno, piuttosto che in un altro, è un semplice sintomo di autoreferenzialità dovuta alla stessa (pretesa) "straordinarietà" dei giorni in questione. In altre parole, il fatto che siano considerati giorni speciali, implica la necessità di una sorta di illusoria assicurazione, stipulabile esclusivamente tramite una qualche scaramanzia augurale.

Discorso diverso per gli auguri di Buon Anno, maggiormente concepibili, nonostante la loro palese inefficienza, un po' perché hanno un senso in termini ontologici, ovvero di speranze positive rispetto al ruolo che il destino avrà nelle vite dei protagonisti durante l'arco dell'anno a venire. Ma anche perché il ricevere quel tipo di augurio è semplicemente la testimonianza (vera o ipocritamente presunta) di qualcuno che spera che ti accadano delle cose positive.

Entrambi i casi però hanno qualcosa in comune, ovvero che l'augurio (sincero) trova la sua ragione d'essere più che altro dal rapporto tra il mittente e il destinatario degli auguri, ovvero dalla presenza di qualcuno che in qualche modo ti è vicino o ci tiene a te, al tuo bene e al fatto che tu sia (davvero) felice. Gli auguri sensati restano pertanto solo quelli alle/dalle persone che ottemperano a queste caratteristiche. Tutti gli altri sono solo figli illegittimi di buona educazione.

Per quanto mi riguarda, dunque, rispetto alla misura in cui tengo a voi, cari lettori, ovvero perché siete la ragione per cui questo blog prova ad esistere giorno dopo giorno, auguro a tutti voi di trascorrere le feste in serenità. Vi invito altresì a non illudervi che questo non dipenda affatto da voi.

venerdì 23 dicembre 2011

Crisi, la dittatura della percezione

Alcune sere fa il TG2 manda in onda un servizio della serie "gli italiani al tempo della crisi" - magari l'avete visto anche voi - presentandolo come una (evidente) cartina al tornasole della difficoltà dei tempi. La casa è bella, grande, ordinata. Attraverso le finestre luminose si vede che fuori c'è aria e natura, non smog, né cemento. Si scoprirà dopo qualche manciata di secondi che c'è anche un bel giardino. Davanti al microfono c'è una donna sui quaranta, in un soggiorno chiaro. Alle sue spalle un albero di Natale enorme come una specie di guardia del corpo XXL.

La tipa dice che naturalmente la crisi ha colpito anche loro e che, per esempio, ormai non possono più mandare i figli (se non ricordo male in numero di tre, ma potrei sbagliarmi) alla scuola privata. Ora, con questa maledetta crisi, sono costretti a mandarli alla scuola pubblica! Poi saltella un po' sui soliti luoghi comuni (occhio alla spesa, le uscite al ristorante ecc.), finché la telecamera ci porta in un (bel) giardino e il marito ci mostra l'orto e le galline che contribuiscono a dare un bel risparmio.

Poi il servizio continua mostrando altre famiglie di altri paesi europei. Ne ricordo una di Dublino. Anche qui, siamo nei dintorni della cosiddetta "middle class", bella casa, spaziosa, bei mobili. Il tizio ci spiega più o meno le stesse cose, tranne la faccenda della scuola privata, ma ci sono sempre la spesa, il ristorante, le vacanze. Poi ci aggiunge il mutuo della casa, che adesso fa fatica a pagarlo, ma almeno lui è fortunato che non ha perso il lavoro mentre altri suoi colleghi sì.

Premesso che non è certo un servizio giornalistico che possa essere in grado di fotografare una realtà senza dubbio eterogenea e variegata, la questione va comunque letta sotto un duplice aspetto. Innanzitutto quello che ci dicono le situazioni mostrate e in secondo luogo qual era il messaggio che il TG ha fatto passare. Alla prima istanza, bisognerebbe rispondere che in effetti costoro forse non volano più così in alto come prima, ma da qui a dire che sono davvero "in crisi" (manineicapelli), obiettivamente ce ne passa. Oppure basta ritrovarsi nella necessità di dover rinunciare a una cosa qualsiasi per potersi dire "in crisi"? Alla seconda l'impressione è che il TG abbia fatto passare per crisi qualcosa che crisi non è, in modo da poter far passare il messaggio che poi le cose in fondo non vanno così male.

Di sicuro il concetto di "crisi" non può prescindere dalla percezione soggettiva rispetto all'importanza che ciascuno dà alle "cose" cui eventualmente deve rinunciare ma anche da come i media ce la presentano e ci portano a considerarla, inducendoci a pensare alla crisi come a qualcosa che, di fatto, tocca davvero tutti, non solo chi già viveva vicino alle difficoltà, quelle vere, e che adesso si trova davvero nella merda. Se per la signora è crisi dover mandare i figli alla scuola pubblica, forse per un altro la crisi potrebbe essere dover rinunciare all'abbonamento a Sky Calcio? Ma è vera crisi quella?

mercoledì 21 dicembre 2011

lunedì 19 dicembre 2011

L'ultima conferenza stampa del Prof. Itnom

Entra nel salone con uno sguardo severo, la faccia scolpita nel granito. Si sistema al tavolo dietro ai microfoni con l'espressione di una bistecca che sta per essere messa su una griglia, mentre uno stuolo d'uomini in occhiali da sole e auricolare prendono posizione intorno a lui senza troppa discrezione. Nella platea i giornalisti fremono come un branco di coccodrilli a digiuno. Poi si ode una voce che si schiarisce e un timido: «Okay, possiamo cominciare». Pausa. Frustate di flash. I coccodrilli tengono in caldo le mandibole, mentre dalle finestre proviene il sordo mormorio del moto ondoso della folla in peggioramento. Il Prof. Itnom solleva il bicchiere di carta, illudendosi di farsi un sorso di coraggio.

«Buongiorno a tutti e grazie di essere intervenuti con così poco preavviso.» Già un'altra pausa sorso. Occhi acquosi, vaganti. Non c'è niente di abbastanza consolatorio in giro cui aggrappare lo sguardo. O niente di sufficientemente amichevole cui aver voglia di dare confidenza. «I dati dell'ESCO li avete già sentiti tutti e sono stati confermati stamane. Dunque, nonostante la manovra appena approvata dal Parlamento, per l'anno a venire è previsto un aumento del LIP del 14,4%, che corrisponde a un incremento dei posti di lavoro di almeno 1.800.000 unità nell'arco dell'intero anno.» Brusio. L'eco della voce rimbalza dagli altoparlanti del megaschermo in piazza che segue in diretta la conferenza stampa e fa precipitare le condizioni meteo.

«Posso confermare che, date le circostanze, il governo ha messo in atto tutte le misure possibili e plausibili, compatibilmente con le forze politiche presenti in Parlamento (NdA la maggioranza assoluta di estrema sinistra), che il nostro paese poteva ragionevolmente affrontare. Forse in passato sono stati compiuti degli errori, ma solo chi non agisce, non sbaglia. D'altro canto è anche sotto gli occhi di tutti che la crisi ha una natura globale, basti vedere cosa sta succedendo agli altri paesi dell'unione e agli ASU. Dunque, quello che posso dirvi, oggi, qui, ora, è che la cosa migliore è ammettere di trovarsi in una situazione di (tono funebre) crisi, crisi davvero molto grave.» Pausa sorso. Poi il Prof. Itnom si aggiusta gli occhiali e riprende la ripidissima salita col fiato di uno del tutto fuori allenamento.

«Per questo motivo, il Governo sarà costretto a far approvare una manovra aggiuntiva per aumentare i livello dei consumi obbligatori di beni materiali. In tal senso è allo studio l'introduzione di una diminuzione consistente dell'AVI. È altresì evidente che, nostro malgrado, non potremo sottrarci a un incremento degli orari di lavoro per sopperire all'aumento di richiesta di manodopera industriale. Capisco che per i cittadini un passaggio da venti ore obbligatorie alla settimana, a quaranta, può risultare molto oneroso anche sotto il profilo della qualità della vita, e che questo rischierà di far aumentare gli stipendi medi fino al 150%, ma posso assicurare che il Governo ascolterà le parti sociali e farà ogni sforzo possibile per mantenere la manovra equa. In tal senso il Ministro del Lavoro sta già studiando l'incremento degli stipendi e delle indennità di tutti i dipendenti pubblici, Parlamentari inclusi, come pure un sostanziale abbassamento dell'età pensionabile, nella speranza di invertire la pericolosa e disgraziata tendenza che si profila all'orizzonte del nostro immediato futuro. Grazie.»

Dato il difficile momento, il Prof. Itnom non concede domande. Si alza mentre i coccodrilli stridono protendendo le loro fauci e lui scompare dietro il simbolo dell'Ailati. Il suo braccio destro gli consiglia di aspettare prima di uscire, che la gente digerisca la notizia, che le onde si plachino almeno un po', ma lui scuote la testa, dice di no, dice che vuole metterci la faccia, affrontare la tempesta che si è scatenata fuori dell'edificio. Se vedranno che avrà il coraggio lui, se lo vedranno uscire a testa alta, lo rispetteranno e si faranno coraggio anche loro. Ma le condizioni, fuori, sono davvero difficili, troppo difficili e gli uomini con gli occhiali da sole lo perdono quasi subito di vista. Il Prof. Itnom scompare tra i cavalloni di carne, mani tese, urla, insulti e striscioni. Nessuno lo vedrà più. Molte cose possono essere in qualche modo fatte digerire al popolo, magari anche grazie a un'oculata politica di (dis)informazione, ma la Crescita, oddio, quella proprio no.

[Credits: il Monti in versione Ultimatum alla Terra è di Lameduck.]

venerdì 16 dicembre 2011

Il libro ai tempi dell'e-book

Sono certo che voi, amanti del libro tradizionale, dei suoi seducenti fruscii cartacei e dei suoi inebrianti profumi polverosi, voi che non avete paura di montare sempre nuove mensole in casa (a quote sempre più alte!), voi professionisti dello slalom speciale tra le pile in soggiorno, potete dormire sonni tranquilli: il libro non sparirà! Non tanto facilmente, almeno. Il libro non farà la fine dell'LP, praticamente estinto in meno di un anno gioviano, e oggi tenuto in vita ormai solo da rarissime edizioni a beneficio di una ristretta cerchia di inguaribili nostalgici oltranzisti.

Il libro è un albero dalle radici che vanno fino al centro della Terra. Il libro ha una storia che si spinge molto più indietro della rivoluzione rinascimentale di Gutenberg. Il libro, quello con le tavolette di argilla e cera, quello in rotoli o con le pagine, di papiro o pergamena, fa parte integrante della Storia dell'Uomo al pari della scrittura. Dunque il libro, nelle sue varie forme materiali, di secoli sulle spalle ne ha più di venti e non è certo l'età a logorarlo, piuttosto gli sciagurati derelitti che non ne fanno uso. È quindi più che ragionevole pensare che il suo abbandono non potrà avvenire in maniera così semplice o sommaria come accadde per l'LP in vinile o, prima ancora, in gommalacca, che aveva solo poco più di un secolo di vita quando venne sfrattato dal CD. Ma forse non avverrà affatto.

Di certo però un cambiamento ci sarà. Anzi, in realtà il cambiamento è già in atto. Perché la produzione del libro ha dei costi di materiali, di stampa, di immagazzinamento, di distribuzione che in un'impresa commerciale qual è quella dell'editoria non possono essere trascurabili e che, sommati alle caratteristiche innovative del libro elettronico, rendono questa nuova forma di diffusione della parola scritta quanto mai appetibile anche dal mercato. E se il mercato approva un oggetto o un sistema, potete giurare che in qualche modo quell'oggetto o quel sistema si diffonderanno.

Quindi se da un lato potete stare tranquilli che il libro fisico non sparirà tanto in fretta, dall'altro potere stare certi, che l'e-book è destinato a prendere sempre più campo. Ma se sulla didattica e la saggistica abbiamo già detto, cosa succederà alla narrativa? I più sostengono che sarà proprio la narrativa l'ultimo baluardo dentro cui si arroccherà il libro cartaceo, per ripararsi dall'assedio della sua versione elettronica. Ed è anche assai ragionevole pensare, come suggerito da abo nel suo commento al mio post precedente, che tenderanno a sopravvivere in forma cartacea le edizioni di pregio, mentre i tascabili, le edizioni economiche, la letteratura di consumo, quella del mass-market, tenderà a essere direttamente uploadata dentro gli e-reader, con buona pace delle edicole e degli scaffali dei supermercati.

Sono d'accordo su questo. Ma penso (anzi, spero) che si possa andare oltre e che il processo possa anche fungere all'inverso. Ovvero che l'inerzia del mercato e degli utenti a voler mantenere in vita le suggestioni dei fruscii e dei profumi del libro cartaceo, tenderà a influire sulle edizioni, non solo su quelle di pregio, ma anche sui tascabili, magari non tutti, magari non Moccia e Fabio Volo (dio-mio-ti-prego-no!), e si adopererà per migliorarle, per spingere la creatività nella direzione di renderle ancora più belle, più accattivanti, in una parola più deliziose, anche a costo di farle costare un po' di più. Un po' come dicevo nel caso del libro di Dubus, che può essere considerato di fatto un vero e proprio tascabile di gran pregio. Le librerie dunque saranno destinate a tenere forse un po' meno libri, ma decisamente ancora più belli di oggi, forse addirittura solo quelli belli. E per chi ama la materialità del libro non è mica un brutto futuro, no?

lunedì 12 dicembre 2011

La crema elettronica e l'inchiostro chantilly

Se ne dicono di cose sugli e-book. Ne ho già scritte alcune anch'io, magari cadendo pure in contraddizione. Perché gli argomenti a riguardo sono controversi e dovrebbero essere affrontati con oggettività, senza romanticismi o emotività, spogliandosi il più possibile dalle rigide programmazioni delle nostre abitudini. Ci sono quelli, ovvi, sul risparmio di milioni di tonnellate di carta. E ci sono quelli, abbastanza inoppugnabili, che vedono un futuro degli e-book legato soprattutto alla didattica. Nessuno potrà negare il passo avanti (non solo osteoarticolare) nell'evitare una gioventù di zaini piombati da libri e dizionari. Lo stesso vale per la fredda manualistica e l'editoria tecnica. Nessuno rimpiangerà l'odore della carta nel leggere un manuale di Visual Basic o di Python su un e-reader, ma nemmeno un articolo di psicoterapia transculturale. Le cose però si fanno più complicate quando ci si trova a parlare di e-book e narrativa, ovvero quando nell'atto del leggere ci sono di mezzo le suggestioni dell'immaginazione.

Questa considerazione mi è sorta mentre leggevo Voci dalla luna, di cui ho parlato nel mio precedente post, romanzo breve di Andre Dubus edito da Mattioli 1885 in un'edizione davvero deliziosa. Ebbene, quando ho preso in mano questo libro, non ho potuto fare a meno dal provare un piacere fisico per quell'oggetto. Per la scelta della copertina in cartone opaco martellato che coccola i polpastrelli, per l'ossimoro degli angoli arrotondati delle pagine che ti vien voglia di accarezzarli, per la tonalità dolce della carta come una crema chantilly, per la sorpresa del carattere tipografico come un panorama inedito dietro una curva, per l'impaginazione che ti fa respirare. Piaceri che di certo non avrei provato se l'avessi avuto in formato e-book.

Aggiungo che queste considerazioni provengono da un feticista del libro, da uno che i libri li legge ma li rimette a posto che non sembrano neanche stati aperti, da uno che i libri non li presta neanche sotto tortura. Così mi sono chiesto se la mia lettura del libro di Dubus e la mia assai elevata considerazione di esso si siano giovate di una sorta di super additivo dovuto alla materialità del libro. In fondo la storia è la storia, no? I concetti sono sempre i concetti, no? Le emozioni che trasmettono le parole sono le stesse, perché le parole sono le stesse anche lette mediante uno schermo e-ink, no? No. E sì. Cioè, ci sono a mio avviso due considerazioni da fare. La prima è una metafora. Perché mai quando consideriamo i piaceri del gusto ci pare ovvio che "anche l'occhio vuole la sua parte", mentre per i piaceri della mente dovremmo sbattercene? Dell'occhio, come pure di tutti gli altri sensi (ovvero appiattirli sui sensi sempre uguali restituiti dall'e-reader)? La seconda è legata a quella che potrebbe essere un'associazione implicita e istintiva tipica del lettore. Nel suo essere fisico, il libro esiste, e se il libro ci parla di vita, tutta la vita di cui parla esiste un po' di più se possiamo toccarla.

Ebbene, tutte queste considerazioni sembrerebbero farci fuggire a gambe levate dall'e-book. Tuttavia non credo che sia così. Anzi, queste riflessioni mi hanno portato a una conclusione a mio avviso la più sensata e ragionevole possibile, che potrebbe mostrarci un interessante orizzonte (editoriale) per il futuro. Vediamo se qualcuno di voi ci arriva. Ne parliamo comunque nel prossimo post.

/continua

venerdì 9 dicembre 2011

Se volete comprare un libro, compratene uno (davvero) bello

Il minimalismo, quello alla Carver per capirsi, mi ha sempre dato un po’ fastidio. Nel senso che tranne in casi (pochi) particolarmente felici, l’ho sempre trovato insipido. Queste storie di provincia, di gente qualunque, vicende familiari, questioni di lavoro, di corna, di figli incasinati e genitori a quadretti, di alcool e bugie, di rinunce e mancanze, di sogni infranti, disperazioni assortite e rapporti difficili, immerse come olive in salamoia in una quotidianità prosaica di temi e di stili, quelle cose che in qualche misura presto o tardi toccano a tutti nel nostro giocare alla spietata ruota del destino, non mi hanno mai fatto impazzire. È un po' la stessa cosa che mi accade con il verismo italiano, di cui il minimalismo è (forse) la versione riveduta e corretta dalla lezione americana della modernità.

Ho il sospetto che mi succeda perché dalla letteratura mi piace ricevere qualcosa che in qualche modo mi faccia scavalcare la realtà quotidiana, giusto perché forse quella possiamo vederla letta tutti i giorni già dalla nostra pelle. Non parlo però di qualcosa che mi parli per forza di mondi alternativi o distanti, dunque non mi riferisco alla fantascienza o al fantasy, ma anche nell'ambito del cosiddetto mainstream tendo ad aver bisogno di alterità, nei temi, negli stili, nel respiro. Per dire, Franzen è uno scrittore quantomai radicato nella realtà del nostro tempo, eppure le sue storie, ancorché familiari, mostrano - per così dire - intorno a loro unorizzonte più vasto. Ecco, però... Sì, ebbene sì, c'è un però.

È il meraviglioso però di doversi ricredere, di scoprire che le nostre convinzioni possono cedere il passo a qualcosa di nuovo, che è sempre un azzardo assurdo generalizzare e che bisogna sempre avere il coraggio di aprire qualche porta nuova e vedere che cosa c'è di là. Nella fattispecie mi è successo quando mi è stato (caldamente) consigliato di dare un’occhiata a tal Andre Dubus grazie al quale, ormai l'avrete capito anche voi, la mia visione è (per fortuna) cambiata.

Autore americano, classe 1936, scomparso nel 1999 a soli 62 anni, dopo una vita molto travagliata (gli ultimi tredici anni li trascorse paralizzato dopo aver subito un investimento da un'automobile che lo travolse dopo che si era fermato a sua volta a prestare soccorso a due persone vittime di un incidente stradale), Andre Dubus è dunque scrittore contemporaneo, e riesce a esserlo con finezza e sensibilità davvero rare. Maestro in quella misura un po’ atipica della narrazione che è la novella, ovvero il romanzobreve, nello sfolgorante Voci dalla luna Dubus entra nella giornata cruciale di una famiglia che deve affrontare i risvolti di una crisi appena scoppiata, quella del padre (divorziato) che rivela al figlio maggiore (divorziato pure lui) che intende sposare la sua ex-moglie, del figlio intendo, ovvero la sua ex-nuora.

Il racconto di Dubus segue così lo svolgersi di questa giornata difficile vista a turno dalla prospettiva dei cinque familiari che si trovano a confronto con questa nuova situazione familiare rivelata, Greg (padre), Joan (madre), Larry (figlio maggiore), Brenda (ex-moglie di Larry e nuova fidanzata di Greg), Carol (figlia) e Richie (figlio minore), quest'ultimo occhio privilegiato del libro, essendo quello da cui tutto parte e quello cui tutto arriva, un dodicenne devoto che ha già deciso di farsi prete, ma che proprio in questa giornata iniziatoria scoprirà quanto i territori dell'esistenza non siano mai così piani e semplici e definiti come un ragazzino si può aspettare, e che le scelte della vita sanno essere complesse e contraddittorie, come sa esserlo forse solo l'amore.

E dentro le centoventi pagine di narrazione, Dubus mette tutta la sensibilità di un'arte letteraria precisa, cristallina, distillata che trova il suo apice di poesia e leggerezza, nel capitolo incentrato sulla madre Joan, ormai divorziata dal marito e da lui distante, la quale riceve la visita di Larry, il figlio "tradito" dal padre, che non solo si scopa la sua ex-nuora, ma se la vuole addirittura sposare. Ed è qui che il libro, dall'apparire triste affresco di una vicenda di personaggi tormentati in baliadelle inevitabili correnti dei loro sentimenti e dei contrasti e dei dolori che queste arrecano loro, assume un altro più sorprendente significato, come viene fatto osservare nella (molto) bella postfazione del volume: quello di un piccolo straordinario libro sulla filosofia e la gioia del vivere. Un libro che nella misura in cui riuscirà a farvi tremare dentro (con me c'è riuscito e si sa che noi marziani non siamo affatto facili alla commozione), difficilmente riuscirete a dimenticare.

Aggiungo (doverosamente) due parole sull'edizione Mattioli 1885, editore che ha avuto la competenza di scoprire e il coraggio di proporre al pubblico italiano questo autore altrimenti destinato a restare nell'ombra. Ebbene il libro ha un prezzo non proprio economico per 134 pagine in formato che si può considerare tascabile (17,90€), ma l'edizione è elegante e curatissima, una goduria per gli occhi e per il tatto, praticamente un inno al libro cartaceo. Insomma, li vale, fuori e dentro, grazie anche alla traduzione di prim'ordine di Nicola Manuppelli (sua anche la bella prefazione). Insomma, prima compratene una copia per voi e poi compratene un'altra e regalatela a qualcuno che volete che sia felice.

La quarta di copertina:
"Quando sono sola la notte - e mi piace esserlo - guardo fuori dalla finestra e capisco. Il nostro compito non è vivere grandi vite, il nostro compito è capire e portare avanti le vite che abbiamo. Vedo che sorridi ancora. E hai ancora gli occhi umidi. Asciugateli in fretta, prima che le mie amiche pensino che è successo qualcosa di brutto."
Voci dalla luna, Andre Dubus (Ed. Mattioli 1885)

lunedì 5 dicembre 2011

Patrimoniale del mio cuor!


Sarei stato disposto a scommetterci su che, a dispetto delle promesse e delle proposte, sindacati e sinistra radicale avrebbero detto che la Manovra non sarebbe stata "equa". Del resto non si deve dimenticare che il Parlamento è sempre quello, e questo significa che i rami dei voti che devono approvare la Manovra attingono sempre alle radici di un mese fa. Era dunque da illusi pensare che un Parlamento berlusconiano, ancorché un po' azzoppato, potesse finire per approvare qualcosa di troppo schierato a mancina. Così, dopo aver letto che non ci sarà alcuna Patrimoniale, ma solo una tassa una-tantum dell'1.5% sui capitali scudati che erano stati fatti rientrare dall'estero, penso che alla fine la cosa davvero più equa che avrebbero potuto fare (a parte la reintroduzione dell'ICI che peraltro sembra che vogliano fare), sarebbe stato fare quello che fece Amato nel luglio del 1992.

Ecco, lo sapevo. Perché fate tutti quelle smorfie? Parliamone. L'11 luglio 1992 il Governo Amato dispose il prelievo forzoso di una certa percentuale di quanto depositato in tutti i conti correnti italiani per risollevare le sorti dello Stato. Si gridò, ovviamente, allo scandalo. Ma che cosa che c'è davvero di male? Ditemelo, vi prego. Spiegatelo a questo povero marziano qui. Cos'è che vi darebbe fastidio di un provvedimento del genere?

Provo a usare il cervello. Fatelo anche voi. Dunque, così a occhio direi che: o ritenete che non sarebbe abbastanza equo, oppure pensate che sarebbe troppo oneroso e rischierebbe di mandarvi in crisi l'esistenza, oppure entrambe le cose. Oppure, ancora, più semplicemente vi dà fastidio il modo, ovvero il fatto che verrebbero a prenderveli nel vostro conto corrente senza dirvelo prima, anzi addirittura retroattivamente!, come se avessero fatto irruzione in casa vostra come ladri e avessero messo le mani direttamente dentro al vostro portafoglio lasciato incustodito sul comodino, senza dunque suonare il campanello e chiedere prima «È permesso?» e poi «Per favore».

A tale proposito credo che valga la pena fare qualche semplice calcolo. Dunque, all'epoca di Amato il prelievo fu del 6 x 1000. Il 6 x 1000 significa che se sul conto avevate 5.000.000 di lire, vi prendevano 30.000 lire. Allo stesso modo, se lo facessero oggi negli stessi termini, e voi sul conto aveste, mettiamo, 10.000 €, vi preleverebbero 60 €. Ma di certo andrebbero a mettere le mani anche dentro i conti correnti delle società e dei ricchi, dei ricconi e dei riccastri.

Sapete dunque che vi dico? Che non credo che una tassa come questa vi possa stare sulle palle per la sua arbitrarietà (tutte le tasse lo sono), o per il fastidio del suo contraccolpo economico (tutte le tasse lo hanno). E se invece una tassa come questa vi stesse sulle palle solo perché è troppo equa e democratica e non vi dà la possibilità di sentirvi buoni cittadini perché non potete decidere di non evaderla?

giovedì 1 dicembre 2011

Pensioni: l'ufficio come casa di riposo

Innanzitutto potete scommetterci che, prima di arrivare a settant'anni, chi oggi ne ha quaranta si ritroverà allontanato il traguardo-pensione ancora di un bel po’. Così è sempre più probabile che chi oggi ha quarant'anni dovrà lavorare più o meno fino al 2050, ovvero fino a quasi allo spegnimento delle ottanta candeline. D'altro canto c'è di mezzo la faccenda dell'aspettativa di vita, ovvero al fatto che se statisticamente si vive (sempre) più a lungo, pare conseguenza più che logica - almeno ai coccodrilli del capitalismo - che si debba in proporzione lavorare (sempre) più a lungo. Quindi se lavori più a lungo, significa che vivi più a lungo. E non sei contento di vivere più a lungo?!

Nel contempo questo però significa anche una tra due cose possibili: o l'azienda per cui lavori-lavori-lavori riuscirà a incrementare con successo la sua produttività, ovvero a crescere (pertanto riuscendo anche a stare sul mercato con tutto quello che questo significa) al punto da avere necessità, o almeno la possibilità, di assumere dei giovani e quindi - nell'ipotesi in cui ogni dipendente over 60 abbia in media un figlio in età lavorativa - riuscire a espandersi raddoppiando più o meno i suoi impiegati (= 1 nuovo junior x 1 vecchio senior), oppure non ci riuscirà e con questi accorgimenti va da sé che le difficoltà per le nuove generazioni di costruirsi in qualche modo una vita dignitosa saranno destinate a scavalcare i disperati steccati dell'utopia.

Poi può anche darsi che abbia fatto qualche errore di ragionamento, o non abbia tenuto conto di qualche fattore determinante (in entrambi i casi vi prego di segnalarmelo). Ma se così non è, mi pare evidente che l'annosa faccenda delle pensioni da riformare inevitabilmente sempre al rialzo, come un'asta arbitraria in cui sono messe in vendita le vite di milioni di persone, sia un'altra, l'ennesima cartina al tornasole della palese insostenibilità del sistema nel medio/lungo periodo. E non crogiolatevi nell'illusione che sia un problema (tutto) italiano, per la faccenda della casta, degli sprechi, della disonestà eccetera eccetera. Tutti questi aspetti senza dubbio accentuano le carenze e peggiorano la situazione, ma il problema sussiste anche per gli altri paesi europei certo più virtuosi dell'Italia, e per questo assume la fisionomia di un'epidemia intrinseca, propria dunque del sistema.

Quindi fatevene una ragione: la coperta è molto corta, ma la soluzione è molto semplice. Dovete solo scegliere che cosa lasciare scoperto.
E amputarlo.

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