Punti di vista da un altro pianeta

venerdì 28 settembre 2012

Un'inaspettata esperienza antropologico-sessual-cinematografica

Tutto inizia quando mi ritrovo per le mani, quasi per caso, due biglietti omaggio per andare a vedere Magic Mike, il film di Steven Soderbergh sul mondo dello spogliarello maschile. Ammetto che, benché apprezzi abbastanza Soderbergh, non era nelle mie priorità andare a vedere questo film, ma già che ci sono due biglietti, perché rinunciarvi? Dunque l'altro ieri andiamo, io e la mia marzianina del cuore, senza ovviamente poter prevedere che sarebbe stata un'esperienza unica, oltremodo surreale e proprio per questi stessi motivi (per certi versi) imperdibile!

Per chi non sapesse un accidente di questo film, la storia è presto detta [un po' di spoiler da qui in avanti]. A Tampa c'è questo locale di spogliarellisti gestito da Dallas, un Matthew McConaughey ormai non più di primo pelo (e invero anche un bel po' viscidino, ancorché dal fisicaccio ostentato), che ha al soldo un gruppo di ragazzi belli e capaci che arrotondano gli stipendi delle loro fatiche diurne ballando e spogliandosi di notte per branchi di ragazze assatanate. Tra costoro, Mike (Channing Tatum, quello la cui storia ha ispirato il film), il migliore, la star, l'amico e braccio destro di Dallas, quasi per caso un giorno porta allo spettacolo Adam, un suo giovanissimo collega del cantiere, il quale per una necessità improvvisa, viene spinto sul palco e malgrado la timidezza e i calzini (o forse proprio per questo) è subito successone.

Attraverso una sapiente (e bellissima) fotografia slavata e consumata degli esterni soprattutto, ma anche di tutto ciò che non è lo spettacolo, e invece vivace e satura di colori negli interni del club, Soderbergh ci racconta così le meschinità e le vacuità di un mondo, quello dello strip maschile, per taluni aspetti non molto dissimile da quello femminile, dove l'arte di arrangiarsi viene supportata da un mucchio di soldi facili, donne da scopare a go-go e un bel po' di divertimento, ma che alla lunga lascia con uno sbiadito pugno di mosche. Tuttavia cosa potrebbe volere di più un ragazzo di 19 anni come Adam? Inutile dire che la sua scelta di buttarsi a capofitto in questa vita non porterà solo rose e fiori e se da un lato, nonostante il dolore e gli errori, il giovane Adam prenderà il posto di braccio destro nel cuore di Dallas, dall'altro Mike deciderà di lasciare perdere tutto e di ricominciare daccapo in un qualunque altro modo, purché più autentico, capace di dargli almeno la soddisfazione di costruire qualcosa, anche soltanto un mobile. [fine degli spoiler]

Naturalmente gli appassionati di cinema avrebbero dovuto intuire che da uno come Soderbergh era difficile aspettarsi una commediola leggera che esaltasse chiappe e pacchi patinati solo per il gusto di farlo. Difatti il tono del film, soprattutto proprio nelle sequenze di strip maschile, finisce per sconfinare dentro il trash quel tanto che basta per spostare la narrazione da una cronaca piccante e voyeuristica buona per strizzare l’occhio al pubblico femminile, a una vera e propria satira, che graffia con stile per denunciare la miseria di quel piccolo spaccato di mondo illusorio e arido, al quale non sono immuni né gli artefici depilati in perizoma, né le consumatrici pronte a farsi spupazzare sul palco in maniera assai più che soft.

Ora il punto è (e qui veniamo all'esperienza unica e surreale di cui dicevo all'inizio) che a mano a mano che entrava gente in sala, nell'attesa che iniziasse il film, mi sono reso conto che stavano prendendo posto sempre e solo gruppi di ragazze. E così è stato fino allo spegnimento delle luci per cui, alla fine, tra la settantina di posti occupati, mi sono ritrovato a essere l'unico maschio (giuro, l'unico) in mezzo a una nutrita platea di sole donne, evidentemente attratte dalla promessa degli addominali scultorei di McConaughey e soci, con chiappe al vento, pacchi gonfi, movimenti pelvici e tutto quanto il campionario in bella mostra (no, per dire, cazzi non se ne vedevano, per lo meno non in maniera esplicita - e chi ha visto il film sa a cosa alludo…), come in una specie di doppiamente squallido addio al nubilato trasmesso in video conferenza o una festa della donna fuori stagione.

Ebbene, quelle decine di ragazze, tutte piuttosto giovani, ma non adolescenti, nel loro essere in quel momento comunità monosessuale (raramente mi sono sentito così alieno!) hanno di fatto confermato di essere andate a vedere il film con lo stesso spirito delle ragazze che - dentro il film - facevano la file per vedere lo spettacolo degli stripper (molte di loro parlavano e si distraevano quando non c'erano scene di strip...). Dunque da soggetto che vede passivamente il film, le spettatrici sono diventate contemporaneamente oggetto della satira stessa della pellicola, in una sorta di inatteso rimbalzo metacinematografico, uno specchio nello specchio, dove il significato del film, la sua stessa ragione di essere, si è estesa alle spettatrici che lo guardavano e ne sono diventate in questo modo protagoniste, accrescendo così il significato dell'opera e dell'esperienza.

Ovviamente nessuna di loro si è accorta di niente.

martedì 25 settembre 2012

giovedì 20 settembre 2012

Due o tre cose su Prometheus (sottotitolo: non sparate su Ridley Scott)

Se parto dall'osservazione, mi rendo conto del tutto opinabile, che - da quello che ho potuto vedere (e quindi attraverso un'impressione personale con nessuna valenza statistica) - pur non essendo stato considerato un capolavoro da nessuno, Prometheus è stato giudicato come passabile più da parte degli appassionati di fantascienza, che non dal pubblico generalista, c'è qualcosa che non mi torna. Perché gli appassionati di cinema di fantascienza dovrebbero, a mio avviso, essere più esigenti, rispetto a un pubblico non addicted che riesce a trangugiarsi d'un fiato (e anche con una certa soddisfazione) Transformers e The Avengers. Se dunque questa considerazione ha qualche fondamento (e ho qualche indicazione che in qualche misura lo abbia), Prometheus deve avere qualcosa che in qualche modo funziona per un appassionato di fantascienza e invece non va a genio agli altri.

Sgombriamo però subito dal campo l'idea che l'appassionato di fantascienza, pur di vedersi robot, alieni e astronavi, sia disposto a sorbirsi di tutto. Non è così. Gli appassionati di fantascienza cui mi riferisco sono platee che hanno sviluppato un gusto per il genere (assai più del pubblico generalista), lo sanno vivisezionare, ne conoscono i meccanismi, i rimandi, ne possono apprezzare le citazioni e rilevare i plagi meglio di chiunque, e sono dunque capaci di farci le pulci sopra molto più degli altri e, anzi, proprio per questo sanno essere ipercritici a riguardo. Ebbene, in linea di massima a costoro Prometheus sembra che non sia dispiaciuto. Per lo meno non hanno sparato a zero, al contrario degli altri, i quali hanno invece parlato di un film (quasi) inguardabile, quando non di una ciofeca tremenda. Ebbene, personalmente credo di avere intuito un possibile (se interessante lo lascio giudicare a voi) motivo. Ma lasciatemi fare qualche passetto indietro.


Innanzitutto non è casuale che Prometheus suoni come una specie di remake di Alien (già i titoli di testa lo richiamano esplicitamente). Di fatto il progetto è partito come un film dichiarato appartenente al franchise di Alien per poi evolvere in qualcosa di sempre più diverso lungo la strada della realizzazione, senza però mai distaccarsene del tutto. Dunque non sorprende di ritrovarvi dentro tutti gli stilemi che lo stesso Ridley Scott ha definito nel 1979 e che poi sono stati ripresi a piene mani da altri cineasti. Parlo della situazione claustrofobica in un luogo estremo e alieno, e di un equipaggio che si trova suo malgrado a confrontarsi con una forza ostile con cui non può venire a patti e che piano piano lo decima (ricordo i vari seguiti di Alien, ma anche, così su due piedi, almeno La cosa, The Abyss, Sfera, Event Horizon, Pandorum, ma ce ne sono certamente altri). Inoltre, salta agli occhi come certe scene o situazioni di Prometheus siano state quasi rifatte, riprodotte, rivolute, come in una versione 2.0 rispetto alle originali di Alien, e chi ha visto il film sa bene a quali mi riferisco. È altresì ovvio che questo non può essere considerato casuale, né frutto di una mancanza di originalità. Vi piaccia o no, è stata una scelta precisa e voluta. Perché Alien non è solo un marchio, ma è anche un modello, un paradigma, un gioco che ormai ha le sue regole stabilite e tradirle significa cambiare gioco.

Dunque non credo che valga il discorso che ho sentito dire: Ridley Scott è alla frutta e non ha più niente (di nuovo) da dire. No, Ridley Scott ha deciso - a tavolino - di seguire le regole del suo gioco, con meticolosità, devozione e, quasi, riconoscenza. E, secondo me, in fin dei conti ha fatto bene. Perché Prometheus è, a tutti gli effetti un prequel di Alien, sebbene si piazzi rispetto alla storia originale in maniera del tutto trasversale e cerchi di dire molto di più del suo lontano predecessore, allargandone di parecchio l’orizzonte. Prometheus, infatti, proponendosi di raccontare una versione delle origini dell'umanità (Prometeo è il titano che creò l’umanità dietro incarico di Zeus secondo la mitologia greca), ci dà anche una versione (quasi esplicita) delle origini del parassita di Alien, e la sua peculiarità e nel contempo la sua pecca (quella che dicevo all'inizio, che gli appassionati apprezzano e i non appassionati denigrano) non sta tanto nelle - molte - situazioni che sanno di deja vu, quanto nella assoluta, totale, completa assenza di informazioni accessorie o spiegazioni.

[N.B. Qualche lieve spoiler da qui in avanti]
Durante il film lo spettatore viene infatti messo più d'una volta nella condizione di chiedersi la ragione di situazioni che sembrano sbagliate o messe lì a casaccio, come riempitivo, senza un senso preciso (e al cinema - va detto - poche cose sono peggio di questa), magari solo per creare una tensione narrativa, o per dare al regista la possibilità di girare una scena particolarmente suggestiva dal punto di vista cinematografico. Mi viene in mente la sequenza del sogno (che non si capisce subito che si tratta di un sogno e, benché lo spettatore attento possa capirlo, non viene spiegato, se non molto più avanti con un accenno del robot), come pure la sequenza olografica degli Ingegneri che scappano dentro la piramide (che poi si capisce essere una sorta di registrazione di qualcosa che è accaduto, ma che, anche in questo caso, non viene esplicitamente spiegato).

E se dunque è vero che il film qua e là trascende un po' la soglia della credibilità, come nella scena dell'auto-operazione della protagonista o come nel classico risveglio dell'infettato un po' troppo duro a morire (ma questo è soggettivo e poi, diamine, siamo pur sempre al cinema!), che il personaggio di Charlize Theron è del tutto inutile nell’economia della storia tranne per l’estetica, e che in qualche punto i dialoghi avrebbero potuto essere più curati, a livello di trama molti fatti restano non chiariti, ma lasciati alle congetture o alle riflessioni dello spettatore, e non parlo dei grandi Quesiti che il film pone. Per esempio, oltre a quanto già detto, non viene spiegato di preciso perché il robot infetta Charlie, cosa che non sembra avere alcunché a che fare con gli scopi del vegliardo e multimiliardario Weyland che ha finanziato l'impresa.

Non sappiamo nemmeno perché l'Ingegnere si incazza in quel modo quando il robot, ancora lui, gli parla (forse perché non voleva essere svegliato?!). D'altronde non viene fornito allo spettatore nemmeno il benché minimo indizio per sapere che cosa realmente il robot gli dice. Quello che è certo è che il ruolo del robot è cruciale, in una visione complessiva che non trascura le citazioni a Blade Runner (chi non ha pensato all'incontro di Deckard con Tyrell quando ha visto apparire Weyland in quell'ufficio olografico all'inizio?) rispetto per esempio al fatto che il robot non ha bisogno di rintracciare le coordinate della sua creazione, come invece ha bisogno l'Uomo; né le citazioni a 2001: Odissea nello spazio (l'inizio del film a bordo della Prometheus ricorda molto l'atmosfera a bordo della Discovery, il robot che a un certo momento si contrappone all'uomo per scopi non chiari è una versione corporea di Hal9000, la camera da letto del vecchio Weyland riprende nettamente la stanza finale del vecchio Bowman, senza contare tutto il tema della ricerca delle origini).

Ma lo spettatore nota anche delle incongruenze (vere o presunte?), come la ragione apparentemente del tutto inutile per il cui il letto operatorio automatico dovrebbe funzionare solo per i maschi (forse perché lo dovrebbe poter usare solo Weyland?), oppure perché i reperti archeologici terrestri indicherebbero quel pianeta come quello da cui l'umanità proviene, se si tratta solo di un pianeta-laboratorio degli Ingegneri (e Alien ci fa pensare che probabilmente è solo uno dei tanti) e non la culla degli Ingegneri stessi, come il finale del film conferma. Oppure, ancora, perché gli Ingegneri avrebbero lasciato il loro DNA sulla Terra (e soprattutto perché se il loro DNA è identico al nostro noi siamo così più piccoli di loro?) e crearsi così una discendenza genetica, per poi però volerla distruggere? Forse perché l'Ingegnere/Prometeo che vediamo all'inizio è un reietto dalla sua gente e si è sacrificato per la creazione dell'umanità, come un dispetto nei confronti di chi l'ha abbandonato lì? Da cui anche l'odio degli Ingegneri per l'Umanità intera?

Al di là dell'azione e dell'avventura che un film come questo istituzionalmente richiede, l'architettura narrativa del film appare dunque del tutto sospesa e se Alien non suscitava di fatto alcuna domanda, Prometheus pone in pratica solo domande, senza praticamente dare alcuna risposta (tranne forse quella meno importante, ovvero quella dell’origine del parassita di Alien). Così, giunti a questo punto, presumo che a voi venga la voglia di osservare che le risposte non ci sono perché (1) non ne avevano idea neanche gli autori, o (2) si preparano a farci uno o due sequel per spiegarci questo e quest'altro e quest'altro ancora (e spillarci un altro bel po' di quattrini). A questo riguardo chi ha un po' di dimestichezza con la narrativa e lo storytelling sa che, con lo scheletro giusto, si può sostenere quasi ogni cosa. E la mia sensazione è che Prometheus uno scheletro, ancorché forse proprio non solidissimo, ce l'abbia. Dunque, benché sono abbastanza buone le probabilità che alla fine un sequel ci sia (di fatto in giro se ne parla e lo stesso Scott non nega l'interessamento suo e della 20th Century Fox) e che almeno alcuni quesiti siano stati lasciati ad arte per tenere aperta una strada verso il seguito, credo anche che il film vada giudicato come opera a sé stante e, da questo punto di vista, una simile mancanza di informazioni e spiegazioni non dev'essere vista per forza come un vizio di forma, bensì come una scelta voluta e, in parte, anche coraggiosa. La caratteristica, in fin dei conti, che dà meno fastidio agli appassionati di fantascienza, avvezzi all'incontro con l'incomprensibile destinato a rimanere in parte tale e aperto all’ipotesi e alla speculazione, e dà invece più fastidio allo spettatore generalista che vuole dalla finzione la consolazione della verità e della conoscenza che la realtà non potrà mai dargli.

giovedì 6 settembre 2012

Grillo: quando il potere logora (chi non lo vuole?)

Non ho mai creduto a chi mi dipingeva Grillo come uno pseudo-fascista. Sebbene i suoi metodi ultrademagogici scuotessero le mie antenne alla radice, mi è anche capitato di pensare che il suo movimento avesse, almeno in linea di principio, delle radici sensate e, conseguentemente, una partecipazione sincera da parte di persone che dell'interesse per la cosa pubblica (e per nient'altro) facevano il motore del loro impegno. Il problema, semmai, dunque, alla fine è sempre stato solo lui.

Perché lui si professa leader del M5S, ma non si candida. A che titolo dunque, rispetto al Movimento, parla dal suo palco? Come semplice uomo-marketing? Come maître-à-penser? Come colui che decide cosa devono dire/fare i suoi, come tanti bei cloni di lui stesso? Questa è una sfumatura tutt'altro che trascurabile per un uomo che, a mano a mano che si avvicinano le elezioni, sembra abbia sempre più paura di ottenere una percentuale che potrebbe poterlo catapultare dall'altra parte della barricata.

Perché se l'Opposizione di fatto non ha regole e può essere svolta (spesso con un discreto successo) coi rutti e le scoregge, il Governo è (dovrebbe essere) fatto di tovaglioli bianchi e parole misurate. Perché se l'Opposizione può tirare mazzate senza dover rendere conto a nessuno, il Governo deve prendere decisioni su una base collegiale e, dunque, sempre compromissoria. Perché se l'Opposizione può andare in piazza a tirare dei vaffanculo a Destra e a Sinistra (letteralmente), il Governo deve poter andare a Bruxelles con un bagaglio linguistico e culturale di mediazione e credibilità.

E adesso, che Grillo alza il tiro (lui ha sempre bisogno di alzare il tiro), paventando chissà quali minacce alla sua persona, estremizza ulteriormente (e pericolosamente) lo scontro, allontanandosi ancora di più dalla possibilità di diventare un interlocutore politico credibile. Ma se lui non si candida, ripeto, come fa a essere un qualsivoglia interlocutore politico? E che senso ha che attragga lo scontro su di sé? Insomma, se non si candida, perché ci dovrebbe importare di lui? A nome di Chi, parla, giacché anche il suo "popolo" professa con orgoglio (più o meno sempre) una inopinata indipendenza - vera o presunta - dal suo leader? È solo questo dunque, al di là di qualsiasi altra considerazione sui "buffoni" al potere che piacciono alle folle, la vera Anomalia di Grillo, ed è solo questo che, alla fine, di Grillo (mi) fa paura.

Non sapere Chi ho davanti.

martedì 4 settembre 2012

Eva, ovvero all'anima del robot!

Nella settimana de Il Cavaliere Oscuro, rifuggo dai cinema chirotterici dove l'odore di blockbuster (e di action-movie) diventa troppo pungente e mi rifugio in una sala defilata ad assistere alla proiezione di un film minore, una piccola (ancorché ricca nel suo genere) produzione indipendente, all'inseguimento del non sempre vero, ma spesso verificabile paradigma del meno-è-meglio. Così, insomma, vado a vedere Eva.

Film spagnolo del 2011 ma giunto nelle sale italiane solo ora, opera prima del regista Kike Maíllo, Eva racconta la storia di Alex, giovane, geniale e solitario ingegnere cibernetico, che dopo dieci anni torna nell'Istituto dove si è formato ed è diventato celebrità, per portare a termine un lavoro su un androide che aveva lasciato incompiuto. Il suo compito dovrebbe consistere nel conferire al nuovo prototipo di bambino-robot la sua "anima emozionale" e per fare questo ha bisogno di un modello reale, che ben presto trova in Eva. Naturalmente le cose sono destinate a complicarsi parecchio e - ovviamente - non vi dico di più.

Ciò che invece posso dirvi senza rovinarvi alcunché, è che sono stato contento di non aver visto Il Cavaliere Oscuro. Eva forse non sarà ricordato come un capolavoro (forse per colpa della sua provenienza non sarà ricordato affatto), ma è di sicuro un ottimo film, che trova la sua massima espressione nell'equilibrio della narrazione, ovvero nell'amalgama sapiente tra gli aspetti filosofici da sempre connaturati al tema del robot e dell'intelligenza artificiale, rispetto alla nascita della coscienza, al concetto di "essere vivente" e, in ultima analisi, al senso della vita e della morte, con le complesse relazioni dei personaggi della vicenda e i risvolti ultimi delle loro scelte, dei loro sentimenti e delle loro reazioni a essi. Tutto ciò incorniciato da una location imprecisata, ma che trova la sua perfetta cifra stilistica in un paesaggio invernale e gelato, freddo e distaccato, proprio come la tecnologia cibernetica che funge da catalizzatore della storia dovrebbe essere, ma che cerca, attraverso la tormentata vicenda del protagonista, di trovare espressività al suo calore emozionale. Impossibile infine non restare soggiogati dalla liquida e quasi frattale, delicata e affascinante, rappresentazione della programmazione quasi divina del cervello artificiale scelta da Maíllo, esempio di uso sublime degli effetti speciali.

Ma il film funziona ottimamente anche grazie agli attori protagonisti, su tutti Daniel Brühl/Alex, già visto sebbene non nelle parti da protagonista, anche in produzioni internazionali come Inglourious Basterds e The Bourne Ultimatum, e soprattutto la giovane e bravissima Claudia Vega/Eva (scelta, pare, dopo sei mesi di casting tra ben 3000 candidati) al suo debutto davanti alla macchina da presa, la quale fornisce una performance convincente e spontanea per un personaggio non semplice, né banale. Mentre una menzione speciale non può non andare al fantastico Lluís Homar, che riesce nell'arduo compito di dare al maggiordomo-robot sfumature cibernetiche al di fuori dei luoghi comuni cui la cinematografia di genere ci ha abituato.

Nel complesso dunque a mio avviso Eva è un gioiellino che vale la pena vedere prima che sparisca dalle sale (e c'è da giurare che non ci resterà molto), un film che nasce dalla creatività e dal talento, prima che dal budget (ancorché non proprio risicato: si parla di 7.000.000€) e dagli effetti, e che per questo rientra a buon diritto in quel filone della cinematografia fantastica (purtroppo non molto affollato) che mantiene salda la credibilità dello spettatore e nel contempo suscita riflessioni ed emozioni, restando ben alla larga dai roboanti stilemi hollywoodiani (mi viene in mente giusto Gattaca di Andrew Niccol), e che, con una storia tutto sommato semplice ma ben raccontata, prova a mostrarci quanto mai è difficile rispondere alla (fatidica) domanda: «Che cosa vedi quando chiudi gli occhi?».

E adesso, se ancora non vi ho convinto, beccatevi il trailer.



[Nella foto in basso, il regista Kike Maíllo e Claudia Vega alla Mostra del Cinema di Venezia].

lunedì 3 settembre 2012

Profumi e balocchi (e duty free)

Gli aeroporti sono tra i luoghi più surreali del (vostro) pianeta. Perché in realtà sono dei non-luoghi, come bolle al di fuori dello spazio normale, dove non sei né qui, né là. Sei in un limbo, sei "in transito". Stormi di passaporti con corpi allegati come marche da bollo, branchi di trolley che si trascinano davanti individui sconvolti, carte d'imbarco che tengono per mano viaggiatori stralunati a caccia dell'ennesimo gate o dell'ennesimo bagno o dell'ennesimo Starbucks.

Ma tra tutto ciò che di surreale si può sperimentare negli aeroporti, ciò che più mi colpisce (e sorprende) ogni volta, è quello che mi si para davanti nel momento in cui varco quel confine - anche lui invero molto surreale - tra i due mondi, quello di qua e quello di là, quello delimitato dalla cortina berlinese della sicurezza (e togliti le cintura e togliti le scarpe e tira fuori il laptop e butta nel cesto chiavi e spiccioli e metti lo shampoo nella busta trasparente e butta via il tagliaunghie e le forbicine e beviti tutta l'acqua che hai ORA, altrimenti lascia qui la bottiglia ecc.), per cui finalmente passi dall'altra parte e, puf, il mondo cambia e tutto quello che conta, quello che agli umani importa di più, ciò che dà un senso alla loro vita sono cognac e whisky, cioccolata e sigarette e - più d'ogni altra cosa - profumi profumi profumi profumi.

E se posso anche concedere che le sigarette, ancorché (gravemente) nocive, possano sottendere un consumo importante, dunque degno di siffatte pantagrueliche esposizioni, e tanto più non ho alcuna difficoltà a immaginare che gli individui possano frantumarsi gli organi interni con un uso smodato di cioccolata e (soprattutto) alcolici, al punto da giustificare un simile luccicante mercimonio, non riesco proprio a capire come possa essere così mostruosamente rigoglioso il mercato dei profumi.

Di sicuro c'entrano le capacità seduttive che la gradevole sensazione olfattiva è in grado di esercitare sui recettori del piacere altrui, per cui da sempre il profumo funge (o illude di fungere) da relativo surrogato e/o da integratore a favore di un'autostima estetica (più bella/o), professionale (più brava/o), relazionale (più sicura/o). Eppure, anche così, da alieno quale sono, continuo a chiedermi perplesso come sia possibile che consumiate Tutto Questo (cazzo di) Profumo. A meno che non vi serva per coprire il tanfo, ovviamente.

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