Punti di vista da un altro pianeta

venerdì 23 ottobre 2015

Ritorno al futuro e noi, 30 anni dopo

È bello avere un'occasione come il Back to the Future Day, per organizzarsi una serata un po' nerd, insomma alla Big Bang Theory, per chi sa di cosa parlo, mangiare sul divano e farsi una maratona di film, di fronte a una birra per chi piace la birra, o di fronte a un chinotto per chi piace il chinotto. Ed è bello rivedere, ogni tanto (ma non troppo spesso), film che in qualche modo hanno segnato la nostra adolescenza. Nel mio sentirmi figlio degli anni '80, non perché sono nato in quel decennio, ma perché in quel decennio sono passato dagli undici ai vent'anni, e nel mio essere da sempre appassionato di cinema, Ritorno al futuro occupa un posto particolare, come lo occupano la trilogia di Indiana Jones (non scherzate, non esiste un Indiana Jones 4), i vari Alien, Terminator e, ovviamente, la prima trilogia di Star Wars. Ed è senza dubbio qualcosa che ormai ha (molto) a che fare con la nostalgia.

Per noi, nati a cavallo tra gli anni '60 e i '70, questi film irripetibili, appassionanti ed emozionanti sono le nostre madeleine proustiane e non si può escludere di inciamparsi per sbaglio in una lacrima quando ci si ritrova (di nuovo) al Ballo Incanto Sotto Il Mare e si sente Marvin Berry intonare Earth Angel. Perché se per puro caso a me capitò di vedere Ritorno al futuro al cinema (giuro) proprio il 26 ottobre 1985, all'epoca tutti noi avevamo più o meno l'età di Marty McFly, quell'età in cui il futuro era ancora tutto lì, davanti a noi. Quello era un momento in cui stavamo imparando a guidarla, la DeLorean, a partire dalle manovre più semplici s'intende, il resto ce lo avrebbe insegnato l'esperienza, la strada, i chilometri sotto le ruote, le gomme bucate, gli incidenti e i traguardi tagliati. Era un momento in cui avevamo la consapevolezza di approssimarci all'incerto confine a partire dal quale si cominciava a fare sul serio, o almeno a intravedere che ci sarebbe stato un momento, da lì a poco, in cui la vita avrebbe lasciato quel volante completamente nelle nostre mani. Ma, grande Giove, all'epoca tutte le strade erano nostre!

Così rivedere Ritorno al futuro a trent'anni di distanza ci fa ritornare a come, nel passato, guardavamo al nostro futuro, con il mistero e la curiosità di scoprirlo, con la passione e forse anche con un po' di paura, ma anche con la voglia pazza di entrarci dentro con tutti i capelli, le scarpe e magari un giubbotto di salvataggio, bruciare le tappe, inzupparci di possibilità, e a come adesso guardiamo invece il nostro passato, alle generazioni che si susseguono, a quello che siamo diventati noi, un giorno alla volta, una piccola decisione dietro l'altra, senza quasi accorgercene, senza salti temporali, senza almanacchi, senza fughe a 88 miglia all'ora, e a quello che abbiamo lasciato per strada, alle occasioni perdute, ai pugni che avremmo dovuto dare e non abbiamo dato, ai fulmini che abbiamo schivato e a quelli che invece ci hanno preso in pieno, alle cose che abbiamo rimandato troppo a lungo, ai volti che non vediamo più e la colpa è solo nostra, ai baci che avremmo dovuto dare e invece non abbiamo dato, alle canzoni che avremmo dovuto suonare e a quelle che abbiamo effettivamente suonato.

Ritorno al futuro non è solo un film perfetto come può esserlo un film, ma come purtroppo sempre più di rado lo sono i film. Un film con una sceneggiatura da manuale, piena di gag (per dire, quella dello zio Joey è fantastica), rimandi, trovate, ritmo e naturalezza, una colonna sonora eccezionale (lunga vita ad Alan Silvestri!) e un casting impeccabile. Ritorno al futuro ci dice anche (o soprattutto) che tutte le possibilità ci sono aperte, ma che dobbiamo fare le scelte giuste fin dall'inizio, che dobbiamo avere coraggio, che dobbiamo mettere da parte il nostro orgoglio, che non possiamo barare e che non tutti i bivi sono uguali. Sta a noi capire quelli che sono veramente cruciali per determinare quello che saremo o, meglio, quello che vorremo essere. Ma la sua bellezza assurda è che lo si può guardare con soddisfazione da tutte le prospettive, ovvero a seconda di come ci posizioniamo sull'ascissa temporale della nostra vita. Solo l'effetto-madaleine cambierà. Il divertimento e la sorpresa lasceranno un po' di spazio alla nostalgia e (forse) a qualche rimpianto, ma quello che resterà fermo, inossidabile, sarà che per quanto futuro ci resterà davanti, quello sarà sempre e comunque il nostro futuro e dovremo essere noi a farci in quattro per fare in modo che sia come noi vogliamo che sia.

mercoledì 21 ottobre 2015

Se il futuro non ritorna mai

Non è la prima volta in cui ci troviamo faccia a faccia con un futuro immaginato dal cinema e dalla televisione. La prima data che, ricordo, scatenò l'immaginario fu il 13 settembre 1999, che ventisei anni prima, era il 1973, venne posta da Gerry e Sylvia Anderson come momento fatidico per l'uscita dall'orbita della Luna che scandiva l'inizio della celeberrima serie Spazio 1999. Dal 13 settembre 1999 sono trascorsi più di sedici anni e sulla Luna non c'è ancora nessuno. Poi giunse il 2001 e noi non potemmo fare a meno di pensare all'Odissea nello Spazio. Nel 1968, in pieno programma Apollo, Stanley Kubrick e Arthur C. Clarke avevano immaginato che trent'anni sarebbero bastati all'umanità per impiantare colonie stabili sul nostro satellite e voli regolari da e verso di esso, senza contare una stazione spaziale orbitante che, sebbene nel film figuri ancora in parte in costruzione, fa impallidire per grandezza, e complessità la nostra ISS. Comunque sia, varcata la soglia del XXI secolo, nessuna base lunare, nessun monolito, nessuna missione umana oltre la Luna. Tutto quello che abbiamo è Samantha Cristoforetti, che è già una gran cosa, certo, ma rispetto a quel futuro lì...

Invero il 2002 è trascorso senza che ci dessimo troppo la pena di confrontarlo rispetto all'apocrifo seguito di 2001 di Douglas Trumbull, 2002: la seconda odissea, passato senza lasciare molto il segno nel nostro immaginario. Anche il 2010 di 2010: l'anno del contatto, autentico seguito di 2001, è trascorso senza nessun accidente di contatto. Mentre il 2012 dell'ultima trasposizione di Io sono leggenda, quella con Will Smith per intendersi, era troppo cupo per poter essere credibile a distanza di così pochi anni dalla sua realizzazione (il film è del 2007). Non ricordo poi nessun'altro riferimento cinematografico fino a oggi, 21 ottobre 2015, giorno in cui Marty McFly va nel futuro nel secondo film della serie di Ritorno al futuro. Anche in questo caso, il futuro immaginato dal duo Zemeckis/Gale è molto diverso da quello che vediamo oggi intorno a noi. Niente automobili volanti, niente skateboard senza rotelle, niente macchine del tempo. Okay, pare che la Nike abbia in effetti realizzato le scarpe autoallaccianti proprio in tributo del film, ma non sono certo che oltrepasseranno lo stadio di prototipo.
Va detto che probabilmente, trattandosi di film (di fantascienza), non interessa mai granché l'aderenza della proiezione a quelli che potranno essere gli scenari reali di qualche decina d'anni più avanti, quanto piuttosto tutta la serie di idee e trovate sceniche che funzionano al meglio narrativamente e cinematograficamente. Eppure non riusciamo a esimerci dal fare i confronti tra la realtà e i film e, soprattutto nel caso di film positivi, quasi rimanerci male per tutti questi futuri che non si sono avverati in nessuno degli aspetti immaginati, come se nel frattempo avessimo sbagliato qualcosa o avessimo mancato un appuntamento fatidico. Evidentemente il libero arbitrio globale, ovvero l'imprevedibilità di ciascun essere umano moltiplicata per tutti gli abitanti del pianeta, è più forte di qualsiasi previsione. La realtà finisce così per essere più prosaica e banale (e lenta a modificarsi) di quello che i registi e gli sceneggiatori immaginano e hanno bisogno per le spettacolari mitologie visive che cercano di costruire. Ma in fondo questa non è poi una gran disdetta. Al cinema i prossimi appuntamenti che mi sovvengono sono Blade Runner (Novembre 2019) e 2022: I sopravvissuti. Nel frattempo sono abbastanza certo che saremo capaci di trovare da soli nuovi e imprevedibili modi di farci del male. L'unica speranza è che non siano abbastanza spettacolari da valere la pena di farci un film (storico).

martedì 20 ottobre 2015

Su stelle misteriose, alieni e sfere di Dyson

Su KIC 8462852 s'è già detto abbastanza: che presenta anomalie nell'emissione della sua luce; che tali anomalie non sembrano essere riconducibili a fenomeni noti o comunque immediatamente ipotizzabili; che gli astronomi, nel loro studio, non hanno avanzato alcuna ipotesi aliena, che evidentemente è stata fatta uscire sui media per altre vie, forse anche per cercare di attirare l'attenzione su un fenomeno che ha bisogno di ulteriori fondi per essere investigato (a partire dal progetto SETI che dovrebbe puntare le sue antenne verso quella stella entro qualche mese); che l'ipotesi aliena è, appunto, solo un'ipotesi, ma decisamente bizzarra, in quanto la semplice applicazione del Rasoio di Occam (quel principio logico che afferma che, a parità di fattori, tra due spiegazioni è da preferire quella più semplice) ci impone di optare per un fenomeno naturale, ancorché insolito. A tale riguardo va detto che, anche solo nella vastità della nostra galassia - e dunque senza contare gli altri milioni di galassie - e considerando che noi possiamo esplorare in maniera molto approssimativa una limitatissima porzione di spazio, il concetto di "insolito" nell'esperienza umana potrebbe applicarsi con una frequenza decisamente più alta del necessario.

Quello su cui vorrei soffermarmi, invece, è quello che è venuto subito dopo, ovvero l'ipotesi della costruzione aliena, nella fattispecie la cosiddetta Sfera di Dyson, che è stata sventolata un po' ovunque. Da dove nasce questa storia? È piuttosto semplice. Nel 1959, un fisico e matematico britannico, Freeman Dyson, nell'ambito di un articolo pubblicato sulla rivista Science e intitolato Search for Artificial Stellar Sources of Infrared Radiation ("Ricerca di sorgenti stellari artificiali di radiazione infrarossa"), ipotizzò che una civiltà tecnologicamente molto avanzata, avrebbe avuto un fabbisogno di energia talmente elevato da dover utilizzare tutta l'energia emessa dalla propria stella. A tale proposito, Dyson scrisse che tale ipotetica civiltà avrebbe potuto costruire intorno alla stella una sfera artificiale di raggio pari a quello di un'orbita planetaria, con una quantità enorme di collettori solari in grado di immagazzinare l'energia emanata dalla stella. In realtà non si deve pensare che Dyson avesse in mente un guscio continuo, cioè una sfera solida, bensì una serie di strutture orbitali indipendenti in quantità nell'ordine delle decine di migliaia.

In realtà all'epoca Dyson non aveva avuto un'idea totalmente originale, in quanto già nel 1937, lo scrittore e filosofo britannico Olaf Stapledon nel suo romanzo Il costruttore di stelle (Star Maker) aveva già avanzato la possibilità che una civiltà molto avanzata potesse costruire qualcosa di simile. E a sua volta Stapledon potrebbe aver preso ispirazione da The World, the Flesh and The Devil di J.D. Bernal del 1929 dove vengono descritte delle colonie spaziali sferiche. E qui sta il punto. L'ipotesi di Dyson, ancorché pubblicata su Science, non ha maggior peso, né basi scientifiche di quella espressa nel suo romanzo di fantascienza da Stapledon. Non c'è niente che possa fare pensare che una tecnologia sufficientemente avanzata possa trovarsi a costruire qualcosa di simile. Insomma, la Sfera di Dyson è un'emerita, ancorché molto suggestiva, fantasia, che deriva da una serie di assunti tutti quanti assolutamente arbitrari. Ovvero, (come minimo) i seguenti:

1) Che esista nella galassia almeno una civiltà tecnologicamente molto avanzata (oltre alla nostra);

2) Che una civiltà tecnologicamente molto avanzata non abbia altro modo di produrre l'energia che le serve se non attraverso l'impiego di migliaia e migliaia di collettori solari;

3) Che una civiltà tecnologicamente molto avanzata abbia le risorse politiche, sociali ed economiche per costruire un'opera così mastodontica, al cui confronto le piramidi sono castelli di sabbia costruiti da un paio di bambini in un ozioso pomeriggio d'estate.

La cosa curiosa è che dal tono degli articoli che ho letto in questi giorni su KIC 8462852, la Sfera di Dyson ipotizzata per spiegare il fenomeno osservato viene trattata quasi alla stregua di ipotesi fisiche teoriche tipo la Fascia di Kuiper o il bosone di Higgs che, teorizzate all'inizio degli anni '50 la prima, verso la metà degli anni '60 il secondo, sono state poi confermate dalle osservazioni e dagli esperimenti a distanza di molti anni. Al contrario, la Sfera di Dyson non può essere annoverata nello stesso tipo di ipotesi scientifica. La Sfera di Dyson è un'altra cosa. La Sfera di Dyson è un'ipotesi, certo, ma definirla scientifica è essere decisamente di manica larga. Insomma, vi piaccia o no, la Sfera di Dyson è fantascienza pura.

A tale riguardo, se vi intriga l'idea della Sfera di Dyson e volete leggere qualcosa, è dunque proprio alla fantascienza che vi dovete rivolgere. Ecco allora alcuni suggerimenti: La civiltà degli eccelsi (Across a Billion Years, 1969) di Robert Silverberg, La sfera di Dyson (The Starless World, 1978) di Gordon Eklund, La sfera spezzata (Shattered Sphere, 1994) di Roger MacBride Allen, seguito de L'anello di Caronte (The Ring of Charon, 1990), o l'eccellente Il Sole dei soli di Karl Schroeder (Sun of Suns, 2006) edito da Zona 42 e appartenente al Ciclo di Virga di cui è appena uscito il seguito Regina del Sole (Queen of Candesce, 2007) e di cui sono in via di pubblicazione gli altri volumi sempre a cura di Zona 42.

venerdì 16 ottobre 2015

The Martian, ovvero perché il film è (molto) migliore del libro

L'avete già capito dal titolo. A Sopravvissuto - The Martian riesce il raro miracolo di essere un film decisamente migliore del libro da cui è tratto. Così su due piedi mi vengono in mente solo alcuni film che riescono a tenere testa al libro ispiratore (quasi tutti di Kubrick), ma nessuno che lo stacchi in maniera così prepotente. Del libro ne ho già parlato diffusamente qui e l'impressione che ho avuto guardando il film è che Drew Goddard, lo sceneggiatore, abbia prima di ogni altra cosa pulito la storia di Andy Weir da quelle caratteristiche che la rendono di fatto mediocre.

Non crediate che si nasca geni della scrittura. Weir è un esordiente che ha trovato per terra un cappello a cilindro e, infilandoci la mano, se l'è trovata intorno a due pelose orecchie da coniglio. Ma è pur sempre un esordiente dunque con poca esperienza e nel suo libro a mio avviso questo si vede. Goddard no. Goddard è uno che si è fatto le ossa su alcune serie TV, che ha scritto la sceneggiatura di Cloverfield (2008) e di Quella casa nel bosco (2011) di cui è stato anche regista, e che nel 2013 è stato lo show-runner di una della prima stagione di una delle serie più acclamate di Netflix: Daredevil. Insomma è un professionista in ascesa. E anche in The Martian ha fatto un egregio lavoro spogliando la narrazione originale di Weir dagli elementi posticci. In primis il tono. Insopportabilmente brillante quello di Weir, misurato e realistico quello di Goddard. Okay, mi direte, ma in qualche punto del film Watney si lascia comunque andare alla commedia, come con il tormentone della disco music o la gag di Fonzie. Certo, avete ragione. Però, diamine, è un film, non un documentario e qualche licenza al divertimento bisogna pur concederglielo. Inoltre, attenzione, non è una storia vera. Non siamo nei territori di Apollo 13, per intenderci. Dunque non bisogna lasciarsi andare alla tentazione di paragonarlo al film di Ron Howard. Quella era una ricostruzione cinematografica di eventi realmente accaduti. The Martian no. E questa differenza non è trascurabile. D'altro canto quei momenti leggeri alleviano la tensione, sono simpatici, tutto sommato equilibrati e, soprattutto, sono inseriti dallo sceneggiatore nei momenti giusti, ovvero per lo più quando a Watney le cose vanno bene e dunque è giustificato che lui faccia un po' il guascone. Mentre nel libro Watney è eccessivamente brillante anche quando le cose gli vanno di merda e questo proprio io non l'ho digerito.

La seconda cosa è la struttura dei punti di vista. Il libro, come il film, sono raccontati sostanzialmente attraverso tre prospettive. Un punto di vista in prima persona, il diario di Watney; un punto di vista in terza persona, quello che succede sulla Terra; un altro punto di vista, sempre in terza persona, quello che succede sulla Hermes. La cosa equilibrata che ha fatto Goddard è stato di montare questi piani con sapienza (ovvero senza dare troppo spazio all'uno o all'altro) fin dall'inizio del film. Weir no. Weir inizia il suo romanzo come diario e come diario prosegue per parecchi capitoli (fino a pag. 60) tanto che ci si convince che sarà un diario fino alla fine. Invece al capitolo 6 cambia tutto. Come in una sterzata brusca in cui ci si viene a trovare con la faccia schiacciata contro il finestrino freddo, ci si ritrova il diario di Watney inframmezzato agli altri racconti narrati in una terza persona e questo, nell'economia della narrazione e rispetto allo stile e alla struttura del libro, a me ha dato molto fastidio. Come uscire di casa con una scarpa e una ciabatta.

Poi c'è la faccenda dell'effetto McGyver. Una degli aspetti più deteriori del libro, a mio avviso, è l'eccessiva ripetitività dei tecnicismi e delle situazioni. Per quanto riguarda Watney è tutto un susseguirsi di problema>soluzione, problema>soluzione ecc. che alla lunga, passato l'effetto curiosità (per me intorno a pagina 100), diventa stucchevole. Il Watney cinematografico invece diluisce questo aspetto che, pur presente, non è assillante e risulta più variegato, forse anche grazie al maggior peso che hanno, nel film, le vicende che si svolgono sulla Terra e sulla Hermes. Non escludo nemmeno che le differenti modalità di fruizione possano avere un peso determinante. D'accordo, però non si può mettere tutto a posto col nastro Gaffa, avete ragione. Soprattutto un portello di telo di nylon che dovrebbe resistere a una differenza di pressione di quasi un'atmosfera. E avete ragione anche circa il fatto che difficilmente su Marte una tempesta di sabbia, per quanto violenta, possa inclinare e rischiare di far ribaltare un veicolo della massa di un modulo di ritorno. L'atmosfera è molto più rarefatta, meno di un centesimo di quella terrestre, dunque che questo possa verificarsi mi pare ipotesi davvero azzardata. Come non è affatto plausibile che la tempesta duri poche ore o si scateni senza preavviso. Le dinamiche delle tempeste di sabbia marziane sono ben diverse. E in qualche modo al cinema questo aspetto salta maggiormente all'occhio che nel libro.

La quarta cosa è la retorica. Come ho già scritto nella recensione del libro, le ultime pagine di The Martian meriterebbero un lancio contro il primo muro disponibile, intrise di un politically correct sulla solidarietà umana da carie nei denti all'ultimo stadio. Invero, il film non è del tutto immune da questo aspetto: l'intervento dei cinesi che forse avrebbero più da perderci che da guadagnarci (ma che di fatto barattano l'aiuto con la presenza dell'astronauta cinese nella missione successiva), le piazze gremite di gente entusiasta, le bandierine americane che sventolano, il "siamo troppo forti" eccetera, eccetera. Però Goddard lo diluisce un po' lungo tutta la pellicola, mentre Weir lo concentra in fondo al libro in un discorso ingenuo e buonista del tutto fuori tono. Nel film resta il peso non trascurabile dello spottone a favore della NASA e, come al solito, degli americani. Ma Hollywood è roba loro. Invece di biasimarli per questo, perché non lo facciamo anche noi italiani? Perché dovremmo ritenere credibili loro e non credibili noi? Ma questa è materia per un altro post.

Insomma, tirando le somme a mio avviso il film funziona egregiamente, molto meglio di quanto mi ero aspettato. Non è un capolavoro, non siamo dunque dalle parti di Alien o Blade Runner per intenderci, tanto per restare nelle pertinenze di Mr. Ridley Scott, ma il suo sporco lavoro lo fa, a differenza del libro. Al punto che, la mia impressione è che questo film sia addirittura di almeno una spanna superiore a Gravity, nel quale forse era lo straordinario aspetto visuale a predominare, ma che complessivamente, a livello di storia lasciava alquanto a desiderare.

venerdì 9 ottobre 2015

Sinodo Mon Amour

«Il Sinodo non è un senato», ha dichiarato il Papa qualche giorno fa riferendosi al fatto che il Sinodo non è un posto da compromessi. E ha ragione. Il Sinodo non è nemmeno un consiglio di amministrazione e neppure un'assemblea condominiale, se è per questo, perché il Sinodo non è espressione di democrazia. Il Sinodo è un luogo dove delle persone si arrogano il diritto di dire come altre persone dovrebbero vivere, senza che le altre persone siano state interpellate a riguardo, naturalmente, né che abbiano attribuito loro alcun mandato a decidere. Il Sinodo è l'equivalente (moderno?) dello sciamano che puntava il dito al cielo, si dimenava nella polvere davanti al fuoco, tirava indietro la testa e poi strabuzzava le pupille dilatate lanciando i suoi anatemi sullo sfondo dei tamburi. Quale maggior autorità ci può essere se non quella che proviene dal Grande Spirito? Quale maggior legittimazione a dire che cosa si deve fare e come ci si deve comportare, che cosa è lecito e che cosa non lo è? Qualcuno, particolarmente ottimista, potrebbe sostenere che il Sinodo è semplicemente un esercizio di ordine. "Mettere ordine" è ciò che in qualche modo agevola, o dovrebbe agevolare, la convivenza civile tra gli individui e fa in modo che la società esista e sopravviva a se stessa in "pace e armonia", ovvero contribuisce a minimizzare i conflitti all'interno di essa. In realtà il Sinodo è (solo) un esercizio di potere e di controllo sulle coscienze delle persone e, dunque, sulle loro esistenze.

Insomma, di cosa stiamo parlando? Stiamo parlando di un nutrito gruppo di personaggi col vestito nero lungo e il berrettino fucsia che, per esempio, stabiliscono se una coppia di divorziati può o no prendere la Comunione. A parte il fatto che il marziano è noto per il suo agnosticismo e quindi non ci vuole nemmeno entrare nel merito della transustanziazione, vi rendete conto di quello che fanno? Cioè, questi discutono (e si prendono dannatamente sul serio) se una persona che non sta più con un'altra persona può fare la Comunione, solo perché sono stati uniti da un legame sancito dalla divinità (ritenuto dunque indissolubile). Pensano dunque costoro che la minaccia di vietare l'Eucaristia sia un deterrente alle coppie a restare insieme, ancorché a bagno nell'infelicità? Oppure è una punizione? Visto che ti eri sposato davanti alla divinità, adesso che divorzi, tiè, la Comunione non te la do più. Ma cosa pensate che gliene possa fregare alla divinità di tutto questo? Voi, che ci credete, alla divinità, me lo volete spiegare?

E vogliamo parlare (ancora) delle coppie omosessuali? Dicono che ci vuole misericordia. Misericordia? La misericordia è una concessione, un favore, un'elemosina! Dicono che ci vuole tolleranza. Tolleranza?! Ma sapete qual è il primo significato di "tollerare"? Significa "sopportare cose spiacevoli". Dunque tollerare implica un giudizio (negativo). Pensate sia una cosa che va bene, tollerare? Ok, allora se proprio voi omosessuali volete stare insieme, almeno fatelo nella castità. Ah! Quindi, insomma, costoro, col vestito nero lungo e il berrettino fucsia, si arrogano il diritto di dire alle persone come essere felici, qui sulla Terra, nella libertà della loro vita, anche se le loro libere scelte in questi ambiti non implicherebbero abusi, dolori, violenze o ripercussioni di alcun genere verso qualcuno che non siano solo e soltanto loro stessi. E magari li minacciano pure medievalmente con lo spettro del peccato mortale e del castigo eterno! Ma le cose non si fermano qui. Perché non solo questo è rivolto a coloro che credono, persone che quindi si sentono chiamate in causa direttamente da una dottrina che può contraddire il loro modo di sentire la vita, ma per la quale sentono l'affinità suscitata dalla loro Fede, ma anche a coloro che non credono. Che è quello che sta tentando (disperatamente) di fare in tutti i modi la politica di matrice conservatrice all'interno della società civile: imporre un modello arbitrario a chi non crede in quel modello arbitrario, imporre una morale arbitraria a chi non condivide quella morale arbitraria. Come se voi vi batteste affinché sia negata la torta a tutti, soltanto perché voi avete deciso di stare a dieta (celebre e perfetto esempio). Ma perché lo fate? Perché vi arrogate questo diritto di dire agli altri come devono vivere, gettando in questo modo benzina sul fuoco del conflitto sociale e negando così di fatto le basi stesse della vostra Fede (Gv 13, 34-35)? Ma cosa pensate che gliene possa fregare alla divinità di tutto questo? Voi, che ci credete, alla divinità, me lo volete spiegare?

mercoledì 7 ottobre 2015

Ci vediamo a Stranimondi?

Non c’è dubbio che Marte sia uno strano mondo, forse il più strano di tutti. Re dell'immaginario, principe di fantasie, catalizzatore di terrori e fascinazioni fin dal secolo scorso, uno dei tòpos letterari e cinematografici per eccellenza, Marte è il luogo in cui l'immaginazione prende forma. È dunque con molto piacere, e una certa emozione, che vi segnalo questa splendida iniziativa.

STRANIMONDI è il Festival del libro fantastico che si terrà a Milano il prossimo weekend, ovvero il 10 e 11 ottobre, presso la Università Europea Sport della Mente (UESM) Casa dei Giochi - via Sant'Uguzzone 8 – Milano. Due giorni per incontrare autori e editori, vedere, ascoltare, discutere di libri (strani) e letteratura. Sarà presente una nutrita schiera di editori specializzati nel settore come Delos Books, Zona 42, Hypnos e alcuni ospiti davvero d'eccezione, in primis il mitico Bruce Sterling, fondatore del movimento cyberpunk, ma anche – in ordine sparso – Aliette De Bodard, Leonardo Patrignani, Alessandro Manzetti, Laird Barron e Paolo di Orazio.

Si apre sabato alle 10:30 e si chiude domenica sera alle 19:00. Il programma è troppo lungo, ricco e variegato per essere elencato qui. Per dettagli e curiosità vi rimando dunque al sito ufficiale. Io ci sarò sabato, mi riconoscerete dal marziano.

lunedì 5 ottobre 2015

Dalla Polonia con amore

Ci sono due importanti aspetti da considerare nella vicenda di monsignor Krzysztof Charamsa, il prelato polacco che ha confessato di essere omosessuale e di avere una relazione (con un uomo), che sembra stiano passando un po' sotto traccia e che mi pare necessario sottolineare.

Il primo è quello della castità e del celibato previsto dal sacerdozio della Chiesa Cattolica romana. Secondo i voti che ha preso quando è stato ordinato sacerdote, Monsignor Charamsa avrebbe dovuto tenere una condotta casta e celibe, quindi non avere relazioni "sentimentali" con chiunque, uomini o donne. Quindi, da questo punto di vista, il suo comportamento è assolutamente assimilabile a quello di un sacerdote con una relazione eterosessuale. Pertanto non ha alcun senso che il medesimo monsignore abbia dichiarato, come hanno riportato l'edizione polacca di Newsweek, che "l'amore omosessuale è un amore familiare, che ha bisogno di una famiglia". Questo è vero in linea di principio, d'accordo, ma è un diritto che egli non può rivendicare per se stesso in qualità di sacerdote, perché non può rivendicare nemmeno quello eterosessuale.

Il secondo, naturalmente legato al primo, è il seguente. Se monsignor Krzysztof Charamsa avesse fatto le stesse rivelazioni e dichiarazioni pubbliche, ma nell'ambito di una relazione eterosessuale, la reazione del Vaticano sarebbe stata la stessa? Certamente no. Come non sarebbe stata la stessa la reazione dei media.

Infine va detto anche che le dichiarazioni di monsignor Krzysztof Charamsa devono essere inserite in un contesto ben più ampio, essendo state rese pubbliche a ridosso dell'inizio del Sinodo sulla Famiglia e quindi vanno intese come qualcosa che va ben oltre la sua situazione personale, e che hanno - come lui stesso ha dichiarato - l'intento di "scuotere un po' la coscienza di questa mia Chiesa". Quel che è certo, purtroppo, è che non serviranno a nulla. Probabilmente la Chiesa sarebbe maggiormente disposta a concedere la rinuncia al celibato e alla castità dei preti, che ad ammettere la possibilità di un amore omosessuale. In fondo siamo ancora ai tempi di Sodoma e Gomorra.

venerdì 2 ottobre 2015

Il senso dello schermo per l'omosessualità

Può anche darsi che sia indotto in errore dalle circostanze del caso, ma mi è parso di notare negli ultimi tempi una piccola impennata dell'omosessualità mostrata in tv e al cinema, senza pregiudizi, veli, retorica o perbenismi. Parlo di qualcosa di più dell'ormai classico Almodovar. Serie cult come Sense8, Orphan Black, Penny Dreadful, Vicious ma anche un film – in questo caso italiano – come Io e Lei, ci parlano finalmente dell'omosessualità maschile e femminile con la stessa naturalità con cui il cinema ci ha mostrato l'eterosessualità a partire dal 1896 (data del primo bacio cinematografico - invero assai casto, ma che allora destò comunque scandalo - tra May Irwin e John C. Rice in un video di pochi secondi). E ce la mostrano, senza tabù, censure, malizie o altri artifici narrativi volti a zuccherare una pillola che per taluni spettatori potrebbe essere altrimenti troppo amara da mandare giù.

E questo a mio avviso è un segno. Un segno molto importante. Perché significa contemporaneamente due cose: una causa e un effetto, dove l'effetto può essere causa, ma anche il viceversa. Innanzitutto l'apertura esplicita della narrativa filmica (quindi sia il cinema che la televisione, ma forse soprattutto la televisione che ha una diffusione maggiore) all'omosessualità intesa come condizione naturale dell'essere umano e come tale rappresentata, è segno che i tempi sono davvero maturi per un deciso salto in avanti della civiltà, per lo meno di quella occidentale, verso il riconoscimento e il rispetto totale di tutti i tipi di relazioni affettive, un percorso ormai inevitabile che nessuna sentinella in piedi, partito politico, teoria (del gender), movimento o associazione potranno mai arrestare.

In secondo luogo l'assistere sugli schermi allo svolgersi di queste storie secondo queste modalità di racconto, educa più di quanto si possa pensare lo spettatore alla normalità. Così, dopo aver visto sullo schermo i personaggi omosessuali abbracciarsi, punzecchiarsi, lasciarsi, baciarsi, litigare, consolarsi, piangere, riconciliarsi e anche, perché no?, scopare e andare a fare la spesa, con la normalità di tutte le coppie di questo mondo, quando li vedremo al parco far scorrazzare il loro cane, sul corso per mano a guardare le vetrine o sul lungomare abbracciati ad ammirare il tramonto sull'orizzonte, nessuno farà più caso a loro, come è giusto che sia, perché grazie (anche) a quello che abbiamo visto sugli schermi, saranno entrati a far parte della normalità di tutti, come già lo sono tutti quanti gli altri. Così finalmente non ci sarà più nessuno a darsi di gomito, sussurrare nelle orecchie («Guarda quelli...»), sollevare i sopraccigli, e fare risate o battutine. In fondo l'omofobia comincia da lì ed è da lì che deve cominciare a finire.

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