Punti di vista da un altro pianeta

mercoledì 30 settembre 2015

Facebook e la (triste) condanna alla felicità

Togliete i gattini, le scie chimiche, le scaramucce politiche, candy crush soda e qualche stupidaggine assortita, e la gran parte di quello che vi resta in mano dei Social Network è un'irritante gara alla felicità. Su Facebook sembra che l'emozione prevalente sia la gioia e i vostri amici non vedono l'ora di farvi sapere e di condividere con voi tutti questi momenti magici della loro splendide vite, in cui riescono a fare questo e quello, che sono così capaci e belli, belli, anzi bellissimi, con quelle loro boccucce rosse a forma di cuore (le donne) e gli sguardi da machi incorreggibili (gli uomini), che hanno avuto sì questo colpo di fortuna, ma che se la sono sudata, che ce l'hanno finalmente fatta e sono al settimo cielo, che sono in vacanza e stanno da dio in un posto della madonna [v. foto dei piedi contro l'orizzonte marino], che stanno mangiando questa cosa buonissima [v. foto orrenda del piatto], che si stanno sparando questo fantastico spritz in riva al lago con gli amici di sempre ecc. ecc. ecc., in quella che in questo modo diventa ben presto una specie di assurda competizione a dimostrare chi è più felice.

Perché tutti vorremmo essere felici, è naturale. Ma questo mondo preda (vittima?) del capitalismo, delle celebrità nullafacenti, della bellezza liofilizzata, della pancia piatta, dell'iPhone da 800€ a rate mensili, dello yogurt che ti spazzola via le arterie dal colesterolo, dei riflettori un tanto al chilo, che cosa ci ha insegnato a riguardo? Che la felicità è un diritto, qualcosa che nella migliore delle ipotesi ci è dovuto dalla costituzione dell'esistenza, e nella peggiore si compra, a prescindere dagli sforzi, dalle circostanze e dal portafoglio, in quella perpetua confusione in cui siamo immersi, sballottati in continuazione, alla deriva, tra l'Avere e l'Essere. Così Facebook ci viene in soccorso, come un filtro per le brutterie della vita, a mostrarci (almeno in questo mondo virtuale) felici e vincenti, con buona pace dei nostri "amici" che, spesso neanche conosciamo, ma che non possono far altro che vedere quanto bene ci vanno le cose e, in questo modo, ro-si-ca-re!

Perché la felicità accende la nostra invidia, come un peso sul piatto sbagliato della bilancia di una giustizia divina cui ci appelliamo perché prima o poi – cazzo! – dovrà toccare anche a noi. Perché tu, che sei felice su Facebook, non sperare che i tuoi "amici" siano davvero felici per te. Non contare sulla sincerità di faccine e cuoricini. Quelle non sono faccine e cuoricini veri. In realtà non si è (quasi) mai davvero felici per qualcuno, almeno se non si è felici noi stessi per primi, ma anche in questo caso permettetemi un po' di scetticismo. Quindi quando qualcuno dice di essere felice per te, diffida. Al massimo, se va bene, gli sei indifferente. Provare davvero gioia per la felicità di qualcun altro è una delle cose più difficili da provare al mondo e che possiamo riservare solo a poche, pochissime persone della nostra vita, solo a quelle che amiamo davvero, con tutto il nostro cuore, il nostro corpo e la nostra anima. Per il resto, dunque, l'unico modo di sopportare la felicità altrui, è essere felici anche noi. Almeno su Facebook.

martedì 22 settembre 2015

Fate tacere le Miss!

Perché vi ostinate a farle parlare? Sono lì perché sono belle. Non è obbligatorio che dimostrino di essere intelligenti. Non devono dimostrare di essere colte. Non devono dimostrare di saper risolvere le equazioni differenziali. Devono dimostrare di avere un sorriso luminoso, delle cosce lisce e affusolate, un sedere degno di questo nome, un viso simpatico, un décolleté come si deve, degli occhi intensi ed espressivi, ma non vogliamo sapere nulla del loro cervello. Non vogliamo scoprire se sono potenziali aspiranti al Nobel per la chimica, né se potrebbero arrivare un giorno a condurre la redazione di Limes. Questo, badate bene, non significa che non possano averne i numeri. Semplicemente non ci interessa. Non è questa la ribalta giusta. Questa è la ribalta della bellezza e noi vogliamo la loro bellezza. Punto. È così difficile da capire? Perché la bellezza non ha bisogno di parole. E noi non vogliamo le loro parole. Dite la verità, per una volta. Non siate ipocriti, per cortesia, almeno questa volta. Siamo nel 2015, le abbiamo ben capite come vanno queste cose, ormai.

Quelle sono lì perché sono alte, magre e mediamente, chi più chi meno, dei gran pezzi di gnocca. Quindi smettiamola, vi prego, di indugiare con la stucchevole finta perbenista dell'emancipazione femminile. Non ci crede più nessuno a queste cose. Tanto la vincitrice la metterete lì, a fare plin plin, non a dare ripetizioni di meccanica quantistica, per la maggior gloria degli sponsor che tirano fuori i quattrini. Se poi le andrà bene, finirà in qualche televendita, magari di vasche da bagno o di materassi, o se le andrà benissimo in qualche sceneggiato di infimo livello. Quindi, perché diamine non possiamo dire come stanno davvero le cose, che male c'è?, che sono lì perché vogliamo tutti la bellezza, perché ci piace da matti la bellezza, perché siamo soggiogati dalla bellezza, perché la bellezza, quella vera, non si discute, non è un'opinione, mette d'accordo tutti, compresi gli sponsor - ancora loro - milionari? Perché, okay, la miss può anche non piacere, si sa, i gusti sono gusti, le bionde e le brune, capelli ricci e lisci, lunghi e corti, eccetera, ma non si può mai dire che sia davvero brutta. E noi abbiamo sempre fame di bellezza, più che di intelligenza, perché l'intelligenza è opinabile, la bellezza no, l'intelligenza è faticosa, la bellezza no. Quindi fatele sfilare, riprendetele in 3D, inquadratele davanti e di dietro, di sopra e di sotto, ma per favore, una buona volta, non chiedete loro di parlare.

lunedì 21 settembre 2015

Lettera aperta a Umberto Eco sulla faccenda del Tu, del Lei e del Voi

Caro Umberto,

ho letto con molto interesse il tuo intervento apparso su Repubblica la settimana scorsa in merito all'uso del Tu, del Lei e del Voi, ma devo dire che ho trovato le tue argomentazioni lacunose e superficiali, insomma, per nulla convincenti. Per esempio non ho visto alcun cenno alla naturale evoluzione che ogni lingua ha, sia nello scritto che nel parlato, in funzione di come si modifica lo scenario sociale e culturale entro il quale quella lingua vive attraverso la popolazione che la usa. E non ho visto alcun riferimento alle influenze che gli stili e le abitudini di vita, che non sono sempre uguali a se stessi e anzi negli ultimi anni sono cambiati e vediamo cambiare con una velocità sempre maggiore, si trasferiscono al modo con cui ci relazioniamo e, dunque, per forza di cose, anche con cui comunichiamo. Infine non ho visto alcuna traccia nemmeno dell'influenza dei media né, soprattutto, del fatto che una modifica dell'uso lingua non può implicare un giudizio morale, in quanto è soltanto un riferimento convenzionale di comunicazione, ancorché avallato da una tradizione che però non ha alcun valore se non quello, appunto, di essere consolidato nel passato e tramandato da esso e quindi essere legato all'eventuale nostalgia o attaccamento (legittimi) che possiamo provare nei suoi confronti, ma che non essendoci niente che lo definisca come regola immutabile, può essere soltanto preso a titolo di pregiudizio.

Ho l'impressione, avallata anche per esempio da un altro tuo recente intervento sui Social Network e sui suoi fruitori (da te definiti "legioni di imbecilli") che forse tu non abbia digerito fino in fondo i cambiamenti che stiamo vedendo in atto nella società a partire dagli anni duemila. Contrariamente a quel medioevo da te ben conosciuto, in cui la visione del futuro era legata solo, in prima battuta alla speranza di non essere travolti dai barbari, spazzati via dalla peste, vessati dal Signore di turno, avere un buon raccolto eccetera, e in ultima analisi all'incertezza tra la ricompensa divina e il castigo eterno, un tempo in cui la società si riteneva sempre immobile e uguale a se stessa per lo meno all'interno dell'orizzonte di alcune generazioni, ora le società si modificano rapidamente e i cambiamenti sociali influenzano i modi di vita e di pensare delle persone e quindi, anche, come si esprimono e come si mettono in relazione tra loro. In particolare, le nuove tecnologie di comunicazione, nella fattispecie i Social Network da te tanto osteggiati, hanno una parte non trascurabile nell'evoluzione di questo nuovo universo relazionale. Perché oltre alla velocità e all'immediatezza, che presuppongono una comunicazione snella ed essenziale (quindi bando alle inutili sovrastrutture ossequiose), danno soprattutto la possibilità di conoscere persone anche solo virtualmente e, nella democrazia della rete, esiste un'uguaglianza di fondo che nella realtà non c'è. Ed è anche questo il bello. Nei Social Network sei giudicato per quello che dici e, semmai, per come lo dici, non per l'età che hai, se hai la barba bianca, la pelle nera, se sei transgender, se sei ebreo, o se sei professore universitario. E personalmente sono convinto che questo modello relazionale si stia lentamente trasferendo anche nella società reale, pur con le dovute cautele e distinguo, necessari sempre quando non ci sono i presupposti per generalizzare.

Tuttavia, non vedo come questo possa essere automaticamente contraddistinto dalla connotazione negativa su cui tu punti il dito, senza che possa essere considerato un tuo preconcetto. Il Tu e soltanto il Tu, se rivolto a uno sconosciuto, ma anche a un conoscente con il quale non si ha molta confidenza, non implica necessariamente un insulto o una mancanza di rispetto. Niente di stigmatizzabile, insomma. L'arroganza, l'abuso, la mancanza di gentilezza o il difetto di garbo, l'insulto vero, quelli sì sono comportamenti biasimevoli, che feriscono le relazioni. Ma l'uso del Lei o del Voi non mettono certo al riparo da queste mancanze di rispetto, come l'uso del Tu non configura automaticamente una situazione da condannare. Pensare che il Tu sia già un insulto a prescindere, sminuisce gli insulti veri. Del resto mi riesce difficile capire il motivo di tanta acrimonia o preoccupazione, se non quello – più generale – della paura innata che tutti abbiamo del cambiamento, la modifica di uno status quo o del superamento di una tradizione che, per quanto possa dispiacerci e spiazzarci, non sottintende necessariamente l'instaurarsi di qualcosa di maligno contro il quale dobbiamo per forza combattere. Al contrario potrebbe configurare un mondo dove, per esempio, i soloni scendano giù dal prezioso arrocco dei loro scranni; i vecchi siano un po' più rispettosi (ebbene sì) e abbiano un po' più di fiducia nei confronti dei giovani coi capelli lunghi, il piercing al naso e il tatuaggio sul collo, senza voler sempre impartire loro lezioni e morali a ogni costo; i grandi medici la smettano di guardarti come divinità che lumano un pezzo di carne di cui disporre a proprio piacimento, portafoglio compreso; i vicini di casa siano degli esseri umani cui poter bussare per chiedere un uovo e un po' di zucchero per la torta, senza temere sbirciate in tralice o grugniti dietro lo spioncino, ma con la confidenza di avere la risposta di un sorriso e ricambiarlo con una fetta di dolce appena sfornato. Perché il Tu non insulta le persone, semmai le avvicina, anche soltanto di un po’. Magari, chissà, potrebbe anche essere un mondo migliore.

Con immutata stima e rispetto (nonostante il Tu),
Alessandro Vietti

giovedì 17 settembre 2015

David Gilmour dentro lo smartphone

L'altro giorno, al concerto di David Gilmour, sembrava di stare dentro un saggio di Walter Benjamin. Di fronte a quelle persone (parecchie) intente a guardare lo spettacolo attraverso lo schermo del loro smartphone che, intanto riprendeva ogni istante dell'esperienza, mentre il grande chitarrista snocciolava uno dopo l'altro capolavori come Time, Money, Us and Them e Shine on You Crazy Diamond, era come essere dentro un'opera d'arte al tempo della sua riproducibilità tecnica. Anzi no. Dentro una vita al tempo della sua registrabilità tecnica.

In un'occasione del genere, naturalmente, qualche foto è d'obbligo, a testimoniare, quando l'adrenalina sarà passata e l'eco della chitarra si sarà spento nelle orecchie emozionate, che quell'evento epocale ha inciso davvero qualche lastra del nostro passato, e non ci siamo solo crogiolati nell'inventarcelo, come un desiderio reso quasi palpabile da un sogno. In fondo è questo che in genere fanno foto e souvenir: conferire materia ai ricordi, dimostrandoci in ogni momento che ciò che è passato e non è più, in una qualche coordinata della matrice dell'esistenza dell'universo è - effettivamente - stato. Però, stare lì, tutto il tempo col telefono in mano e godersi il concerto attraverso lo schermo è qualcosa di più che surreale. Cioè, tu paghi profumatamente un biglietto anche non facile da trovare e poi vieni qui e buona parte dello show te lo passi con lo smartphone in mano a riprendere un video normalmente di pessima qualità sia vedersi che ad ascoltarsi?

Questo porta a osservare che oggi (per molti) sembra divenuta decisamente più importante la registrazione dell'evento, piuttosto che l'evento stesso, ovvero il file da riprodurre, piuttosto che la memoria biologica della costellazione di sensazioni che l'evento ha scatenato. È come se il semplice ricordo (ancorché vissuto fino in fondo) non bastasse più, o fosse addirittura un accessorio trascurabile, e la vera soddisfazione (la vera vita?) trovasse ormai compimento nel portarsi a casa un brutto video che, dopo averlo mostrato [CONDIVIDI] con orgoglio agli amici reali e virtuali (che non erano riusciti a recuperare il biglietto o che nemmeno sanno chi diavolo sia questo Gilmour, però bravo, eh), probabilmente nemmeno guarderanno più e del quale addirittura dopo qualche giorno si dimenticheranno, ma che magari addirittura riuscirà a sopravvivergli dentro qualche recesso di memoria a stato solido, come una specie di trofeo illusorio rubato alle grinfie dell'oblio.

Costoro, tuttavia, probabilmente non si renderanno mai conto che quel video qualcosa ha finito per costargli, mentre le loro mani erano impegnate a tenere l'inquadratura e il loro sguardo, come la loro attenzione, nella migliore delle ipotesi si divideva, un po' qua e un po' là, tra lo schermo HD e il palco. Si ha quasi l'impressione che la conquista della digitalizzazione del mondo (e con esso della vita) abbia fatto perdere ad alcuni (molti?) il gusto se non addirittura il senso del concetto di esperienza, ovvero il piacere e l'emozione di vivere uno straordinario accadimento dell'esistenza con la focalizzazione e la sintonizzazione di tutti i sensi, e la concentrazione e la consapevolezza di tutto l'essere. Invece, anche se sono lì, presenti dal vivo, questi spettatori scelgono di ridursi a guardare lo spettacolo dentro lo schermo, senza rendersi conto che, non solo è una drastica riduzione dell'esperienza, ma anche una sua anonimizzazione, perché la mediazione del display toglie vita ed energia alla performance e depotenzia l'attenzione della sua fruizione, decapitandola delle impareggiabili vibrazioni dell'esistenza. E non credere che sia poco.

lunedì 14 settembre 2015

Il vampiro di successi (sicuri)

Renzi, si vede, è uno ambizioso. Uno perennemente con l'acquolina in bocca. Non sarebbe arrivato dove è ora, nel modo in cui l'ha fatto, se non fosse così. Uno che, dietro quello sguardo da pesce lesso alla Mr. Bean, mostra i denti e azzanna duro. Un coccodrillo, con tutto l'armamentario completo, comprese le lacrime. Ma soprattutto è uno che ha fame di vittorie, uno cui non bastano le proprie (quali?), uno che non vede l'ora di fregiarsi anche di quelle altrui. Così, in quella che è stata una perfetta mossa berlusconica, non ha perso l'occasione di volare a New York per appropriarsi della vittoria italiana, qualunque fosse, agli US Open, tra Flavia Pennetta e Roberta Vinci. Dunque l'ha fatto in veste ufficiale, con tanto di volo di Stato, sostenuto dall'arroganza di chi ha ritenuto risibile curarsi delle polemiche che, ovviamente, un gesto come questo avrebbe scatenato rispetto ai costi della trasferta che sarebbero gravati sul bilancio dello Stato, ovvero sui contribuenti. Voleva fare come Pertini al Mundial, Renzi, con la sola differenza che Pertini dal Mundial avrebbe potuto uscire sconfitto, mentre dagli US Open l'Italia ne sarebbe uscita vincitrice comunque. Se in finale ci fosse stata solo una delle due italiane, pensate che Renzi ci sarebbe andato a New York, col rischio di vederla perdere?

Ma c'è anche un secondo, importante, dato da considerare, ovvero che Renzi evidentemente non ci capisce un accidente di tennis, difatti bisognerebbe insegnargli la differenza tra torneo del Grande Slam e Coppa Davis. Perché quest'ultima è effettivamente una gara tra squadre nazionali, gestita dalla Federazione Italiana Tennis, quindi un'istituzione strutturata all'interno dell'apparato dello Stato, mentre i tornei del Grande Slam (come tutti quelli dell'ATP Tour) sono confronti tra privati cittadini del mondo. Quindi sul centrale di Flushing Meadows, Roberta Vinci e Flavia Pennetta NON rappresentavano l'Italia. Non in maniera ufficiale. Hanno semplicemente rappresentato se stesse come individui, solo accidentalmente italiane. E la loro vittoria, quella di cui Renzi si è voluto appropriare facendosi ritrarre con loro per alimentare subliminalmente l'immagine vincente sua e della "sua" Italia, NON è affatto una vittoria dell'Italia. Per questo Renzi a New York poteva certo andarci, ma non in veste ufficiale, perché quella non era una manifestazione di una squadra nazionale come lo sarebbe stato se fosse stata, per restare appunto in ambito tennistico, la Coppa Davis, per la quale dunque sarebbe invece stato giustificato, persino andarci con un volo di Stato.

Così, anche in quest'occasione Renzi ha dimostrato la sua migliore attitudine, quella di vincere con le vittorie altrui. Non l'ha forse fatto anche con le elezioni?

Per la cronaca, ieri la squadra nazionale di ginnastica ritmica ha vinto il mondiale, ma a Stoccarda Renzi non l'ha visto nessuno.

venerdì 11 settembre 2015

Il dolce, caldo conforto dell'Asocial Network

Smettiamola di nasconderci dietro un mouse e ammettiamolo: siamo presuntuosi, molto presuntuosi. Di più. Siamo pensatori tracotanti, superbi, saccenti. Siamo convinti di avere (sempre) ragione. Anzi, l'abbiamo, che diamine, non c'è discussione! E uno dei nostri massimi desideri, forse addirittura il più grande, è quello che il mondo si conformi al nostro pensiero, che dunque – avendo noi sempre ragione – corrisponde al massimo bene per l'intera umanità. Siamo dei benefattori, insomma, e c'è soltanto da esserci grati per la generosità disinteressata con cui dispensiamo la nostra magniloquente Verità.

E per questo dobbiamo essere grati (anche) al Social Network per eccellenza, Mr. Facebook, nel quale il suo algoritmo (EdgeRank) fa' sì che i post degli amici visualizzati sul nostro newsfeed tendano a conformarsi ai nostri gusti. Facebook insomma non fa che aiutarci a mettere in pratica il principio consolatore del Daily Me già ipotizzato da Nicholas Negroponte nel 1995, ovvero quello di creare un quotidiano virtuale personalizzato sulle preferenze individuali. Il passo successivo è quello, praticato da molti di noi, di eliminare (bannare o togliere l'amicizia) i contatti che hanno idee politiche o sociali diametralmente opposte dalle nostre. Così succede che coloro che tenderanno a sinistra elimineranno i contatti che postano i busti di Mussolini, che inneggiano ai marò eroi, che condividono le foto delle felpe di Salvini, che non fanno altro che ripetere come dischi rotti che i migranti devono restarsene a casa loro e altrimenti bisogna rispedirli indietro, quando non addirittura sparagli; gli atei tenderanno a eliminare i contatti che postano le icone dei Santi, il pensiero del giorno di Papa Francesco, citazioni della Bibbia; gli omosessuali elimineranno gli omofobi; i creduloni di scie chimiche e vaccini autistici faranno fuori gli scettici e i cicappini oltranzisti; eccetera eccetera eccetera.

In questo modo avremo vinto la nostra personale battaglia perché vivremo (finalmente) nel mondo migliore che avevamo sempre desiderato, quel mondo intonato e accordato sulle nostre personali opinioni, un mondo privo di scontri, di discussioni, di diversità, di scomode diatribe e di pericolosi contrasti difficili da mediare. Un mondo omologato sul pensiero unico, il nostro, perché la dittatura è sempre un male terribile a meno che non sia la nostra, un mondo in cui potremo illuderci che sia il mondo a essersi conformato a noi e non il viceversa. Sarà addirittura un mondo in cui il compromesso non avrà più alcuna ragione d'essere e dunque nemmeno la democrazia, visto che mancherà completamente l'opposizione. Dovremo solo stare attenti a non mettere il naso fuori di casa.

martedì 8 settembre 2015

Perché i rifugiati potrebbero venire in Europa in aereo (in piena sicurezza)

Perché un rifugiato non può prendersi un comodo aereo e venire in Europa? Se ha i soldi (e li ha) per mettersi nelle mani rapaci di criminali senza scrupoli per assicurarsi una corsa su un barcone del destino e andare incontro al rischio di lasciare la pelle sul fondale di un mediterraneo qualsiasi, perché dunque non usarli per comprarsi un biglietto aereo e giungere comodamente in Europa in Economic Class, sorseggiando una Coca Cola e leccandosi le dita salate dopo aver sgranocchiato le noccioline gentilmente offerte dalla compagnia? Di certo (1) costa molto meno delle cifre che si dice chiedano gli scafisti e (2) il rischio è senza dubbio molto minore anche nel caso di compagnie aeree non proprio in testa alla lista delle migliori del mondo. La domanda sembra stupida e la risposta sembrerebbe scontata: se nessuno lo fa, evidentemente non si può fare. Tant'è che nessuno si pone la domanda. Eppure è un interrogativo molto meno ozioso di quello che può sembrare. Permettetemi di fare a riguardo qualche ragionamento documentato.

Lo stato di "rifugiato" è disciplinato in primis dalla Convenzione di Ginevra del 1951 che indica chiaramente le sue caratteristiche. Il rifugiato è "Chiunque nel giustificato timore d’essere perseguitato per ragioni di razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori dei suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi." Esistono poi altre definizioni giuridiche posteriori e maggiormente obiettive o funzionali. Ma per ora questa è sufficiente per i nostri scopi, anche perché è quella di riferimento di tutte le altre.

A proposito poi del fatto che i rifugiati non possono prendere l'aereo, c'è la posizione della UE regolata dalla Direttiva Europea 2001/51/EC, della quale vi invito a leggere almeno i primi paragrafi che vi riporto qui sotto:

(1) Per lottare efficacemente contro l'immigrazione clandestina è fondamentale che tutti gli Stati membri adottino un dispositivo che fissi gli obblighi per i vettori che trasportano cittadini stranieri nel territorio degli Stati membri. Ai fini di una maggiore efficacia di tale obiettivo, occorrerebbe altresì armonizzare, per quanto possibile, le sanzioni pecuniarie attualmente previste dagli Stati membri in caso di violazione degli obblighi di controllo cui sono soggetti i vettori, tenendo conto delle differenze esistenti tra gli ordinamenti giuridici e le prassi degli Stati membri.

(2) La presente misura rientra in un dispositivo globale di controllo dei flussi migratori e di lotta contro l'immigrazione clandestina.


In altre parole, questa direttiva demanda specificatamente ai vettori (quindi aerei e altri mezzi di trasporto deputati al trasferimento di persone verso paesi terzi) il divieto di procedere a dare ospitalità sui loro mezzi a persone che non abbiano i requisiti necessari. In altre parole, per essere in regola il passeggero ha bisogno di un visto, rilasciato da un organo delegato dallo Stato di destinazione (tipicamente un'ambasciata). E se il vettore lascia salire sul suo mezzo un passeggero senza visto, i costi del suo rimpatrio saranno a carico del vettore stesso.

Ora vi invito a porre la vostra attenzione sul terzo capoverso della medesima direttiva.

(3) L'applicazione della presente direttiva non pregiudica gli impegni derivanti dalla convenzione di Ginevra, del 28 luglio 1951, relativa allo status dei rifugiati, quale modificata dal protocollo di New York del 31 gennaio 1967.

Quindi, se interpreto correttamente (se non lo faccio, ditemelo), questa direttiva non può comunque annullare quanto disposto dalla Convenzione di Ginevra del 1951, emendata dal Protocollo di New York del 1967, il quale semplicemente estende la definizione del 1951, in quanto la "Convenzione sullo statuto dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951 [...] è applicabile soltanto alle persone rifugiatesi a cagione di avvenimenti anteriori al 1° gennaio 1951, considerando che dopo l’approvazione della Convenzione sono apparse nuove categorie di rifugiati, le quali pertanto possono essere escluse dalla Convenzione, considerando l’opportunità di applicare il medesimo statuto a tutti i rifugiati compresi nella definizione espressa dalla Convenzione, senza tener conto della data limite del 1° gennaio 1951".

Pertanto (a) chi ha diritto di essere considerato un rifugiato politico per i criteri della Convenzione di Ginevra, potrebbe prendersi un aereo e venire in Europa con un visto adeguato senza alcun tipo di ulteriore restrizione; (b) i vettori non si prenderanno mai autonomamente la responsabilità della decisione di fare salire sui propri mezzi passeggeri che potrebbero risultare mancanti dei criteri per essere definiti "rifugiati" e dunque avere il diritto di salire.

Ma chi è che decide chi può fregiarsi del titolo di "rifugiato" e dunque avvalersi dei diritti e delle protezioni conseguenti? Esiste un organismo internazionale? Qualcosa tipo l'Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite? No. Sono i singoli Stati. Nel caso dell'Italia, per esempio, c'è il Decreto Legislativo n. 25 del 28 gennaio 2008 che riprende la direttiva comunitaria 2005/85/CE e che all'Articolo 2, capoverso (d), dà la seguente definizione:

«rifugiato»: cittadino di un Paese non appartenente all'Unione europea il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese, oppure se apolide si trova fuori dal territorio nel quale aveva precedentemente la dimora abituale e per lo stesso timore sopra indicato non può o, a causa di siffatto timore, non vuole farvi ritorno, ferme le cause di esclusione previste dall'articolo 10 del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251; (ovviamente, banalizzando, le "cause di esclusione" sono, in linea generale, i precedenti criminosi o atti contrari ai principi delle Nazioni Unite).

Inoltre il decreto stabilisce ulteriori categorie di persone che hanno diritto a protezione e asilo, ma i "rifugiati" sono quelli che godono dei massimi diritti.

Quindi, insomma, è demandata a ogni Stato, in quanto Sovrano, la decisione dell'applicabilità dello status di "rifugiati" e dunque l'attribuzione del diritto alla protezione, all'asilo e al movimento all'interno dell'Area Schengen a ciascun richiedente. Nel caso dell'Italia ci sono dieci Commissioni Territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale, composte ciascuna da 4 membri di cui due appartenenti al ministero dell’Interno, un rappresentante del sistema delle autonomie e un rappresentante dell’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite.

Tuttavia, il punto chiave è che invece di farsi spillare quattrini sulle spiagge e rischiare la vita sui barconi, coloro che hanno i requisiti per lo stato di rifugiati - secondo la legge - dovrebbero poter mettersi tranquillamente in coda alle ambasciate dei paesi UE, farsi rilasciare un visto e poi comprare un biglietto aereo per la destinazione UE che ha rilasciato quel visto. Ma se da un lato, di certo non tutte le migliaia di persone che stanno arrivando in Europa in questi giorni ne avrebbero diritto, in quanto non è detto che tutti godano dei requisiti per essere considerati "rifugiati", dall'altro non credo neanche che coloro che effettivamente quel diritto lo hanno, non lo facciano per colpa loro.

[PS Non essendo un esperto di Diritto internazionale potrebbe esserci qualche inesattezza. Pertanto se qualcuno ha osservazioni, puntualizzazioni o correzioni da fare, non solo è benvenuto, ma è invitato a farlo. Grazie.]

lunedì 7 settembre 2015

La vita come mosaico secondo Jenny Offill

Viviamo in un flusso ininterrotto, analogico, di accadimenti, pensieri, azioni. Eppure se potessimo osservare dall'alto questo coacervo di eventi ci accorgeremmo che in realtà le nostre vite sono significativamente digitali, ovvero hanno una sorta di risoluzione che è quella data dalla densità degli episodi, piccoli o grandi, ma comunque rilevanti, che incidono in qualche modo sulla nostra esistenza. Possono essere frasi, pensieri, viaggi, incontri, considerazioni, agnizioni, paesaggi, esperienze di ogni genere, ma cose piccole, per lo più, e spesso (solo) apparentemente insignificanti. Certo, ci sono anche i Grandi Momenti e le Grandi Scelte a determinare il nostro percorso (lo sposo o non lo sposo?, faccio filosofia o medicina?, lascio tutto e vado dall'altra parte del mondo o resto qui?), ma sono soprattutto certe cose di tutti i giorni, discrete, puntuali come capocchie di spillo, piccole tessere di un mosaico senza un'immagine di riferimento, a concorrere a fare di noi quello che siamo.

Mi piace pensare che sia stato basandosi su un concetto simile che Jenny Offill abbia deciso di scrivere Sembrava una felicità nel modo in cui l'ha fatto. Perché questo suo romanzo, in realtà non è un romanzo. Ma non è nemmeno un diario. E neppure una raccolta epistolare. Inutile dire che non si tratta nemmeno di un poema lirico. Sembrava una felicità è un oggetto narrativo non identificato in quanto racconta, sì, una storia, come qualunque romanzo - che nella fattispecie è la storia di un momento della vita di una donna assai tormentata, una donna preda delle contraddizioni nel rapporto con la figlia (che sta crescendo), in quello col marito (traditore), in quello col lavoro (complicato) - ma non lo fa secondo i canoni del romanzo, ovvero in accordo a un flusso narrativo strutturato, per quanto articolato e personalizzato dallo stile espresso dall'autore. No. La Offill destruttura completamente la narrazione e racconta la storia della sua protagonista secondo brevi, a volte brevissimi, "quadri di testo" di tutti i generi (dal racconto di un episodio, a un'osservazione, a un pensiero, a una citazione ecc.), in maniera non consecutiva né dal punto di vista logico, né da quello cronologico, come tessere sparse di un mosaico che si compone piano piano nella mente del lettore a mano a mano che procede nella lettura.

Ma ciò che è più straordinario, è che il risultato finale non restituisce una storia compiuta dall'inizio alla fine - non pensate insomma di ricostruire per filo e per segno la vicenda della protagonista come se l'aveste letta secondo i canoni consueti del romanzo - bensì rimanda alla conoscenza di quella persona e della sua esperienza a livello quasi inconsapevole. In altre parole, il modus operandi della Offill riesce a simulare nella mente del lettore la conoscenza della sua protagonista prima ancora della consapevolezza della sua storia. È un processo curioso, quello di cui si è partecipi leggendo il libro. Ma Sembrava una felicità non si limita a essere un interessante esperimento letterario, perché la Offill avvolte e permea il suo racconto di maternità, di relazioni e di realizzazione con una sensibilità, un'arguzia, una leggerezza e un'intensità davvero straordinarie, rendendolo vivo come raramente capita di leggere. Insomma, forse non sarà il migliore romanzo di questo 2015, ma per ora sta certamente sul podio. E per questo, mannaggia a lui!, devo ancora una volta ringraziare la segnalazione del buon Michele Orti Manara del blog Nepente, anche in questo caso (come in quello dello straordinario Nel mondo a venire di Ben Lerner), che ormai mi toccherà eleggere a mio pusher letterario privilegiato.

L'incipit:

Le antilopi vedono dieci volte meglio di noi, avevi detto. Era l'inizio o quasi. Significa che in una notte tersa riescono a vedere gli anelli di Saturno.

Accadeva mesi prima che ci raccontassimo tutte le nostre storie, e anche all'epoca qualcuna sembrava troppo piccola per darle importanza. Ma allora perché mi sono tornate in mente proprio adesso? Adesso che sono così consapevole di tutto.

I ricordi sono microscopici. Minuscole particelle che sciamano in gruppo e da sole. Folletti operai, li chiamava Edison. Entità. Lui aveva una teoria sulla loro provenienza e quella teoria era lo spazio cosmico.


Sembrava una felicità (Dept. of Speculation, 2014), di Jenny Offill - NNEditore

giovedì 3 settembre 2015

L'ineffabile attrazione per il Granchio

E' bello vivere di sineddoche, perché la sineddoche ci dà certezze e avere certezze è quanto di meglio si possa chiedere a un'esistenza che, invece, di certezze in fondo ce ne dà una soltanto e non è che sia proprio una consolazione. Ma per tutto il resto abbiamo la sineddoche e la sineddoche è la nostra migliore amica, perché è colei che ci permette di avere opinioni definitive, facilmente e con pochissimo sforzo. E siccome farsi idee è la cosa più importante, in un mondo così complesso e articolato come quello in cui viviamo, ecco che la sineddoche ci viene in soccorso, ci risparmia fatica, ci sostiene nella nostra comprensione della realtà e nell'idea che ci facciamo di essa, di quello che contiene e di quello che vi succede. Da un evento particolare, di cui abbiamo sentito parlare sul web, sui giornali o in televisione, la sineddoche ci permette di indurre un principio generale. Cosa vogliamo di più?

Così, se a Genova, su un autobus di notte, un gruppo di adolescenti teste di cazzo, pestano a (quasi) morte un uomo perché credono che sia omosessuale, e l'autista codardo infila la testa sotto la sabbia dicendo che suo nonno gli ha sempre insegnato a farsi i fatti suoi, la sineddoche ci informa che il problema è la città degradata, l'omofobia dilagante, il razzismo, l'intolleranza. Se a Tunisi, alcuni militanti dell'Isis fanno strage di turisti in una spiaggia di Sousse, la sineddoche ci sussurra all'orecchio che i musulmani sono un branco di pazzi, incivili, arretrati, disposti a tutto, e la loro religione medioevale equivale al culto del male. Se un extracomunitario ubriaco investa una vecchietta sulle strisce, la sineddoche ci rivela che è tutta colpa dell'immigrazione clandestina, dei barconi, e che gli africani (anzi, i negri!) sono delinquenti e puzzano.

Insomma, la sineddoche è (molto) pericolosa, perché la sineddoche ci facilita la vita, ci risparmia l'impegno di pensare, di informarci, di verificare e - a un prezzo stracciato - ci mette in tasca una fresca e rassicurante verità assoluta, di quelle che poi possiamo sfoggiare sui social network, come un bel vestito su un red carpet, sputando sentenze e dando degli idioti a quelli che non la pensano come noi. Ma a noi che cosa importa, se quella opinione non corrisponde alla realtà, ma anzi la distorce e fa pescare granchi colossali come mostri di film di serie B? L'importante è che siamo convinti noi e che ci siamo arrivati da soli, a quelle conclusioni, dandoci così l'illusione di averla in pugno quella verità, che sia nostra e nostra soltanto. In questo modo non solo avremo la verità, ma potremo anche tirarcela con gli amici (reali e virtuali) di esserne i depositari, esserne orgogliosi, noi e tutti gli altri membri dell'affollato Club del Granchio. In fondo è solo questo che importa, mica la verità.

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