Punti di vista da un altro pianeta

sabato 28 febbraio 2015

venerdì 27 febbraio 2015

Il friabile (e burroso) primato della narrazione

Se le nostre vite fossero crostate, la narrazione sarebbe la pasta frolla. La nostra vita infatti è scandita, misurata, ritagliata dal racconto che facciamo di essa, ovvero da quello che riteniamo (o ci illudiamo, ma va bene lo stesso) che valga la pena di raccontare a chi ci orbita intorno (siano essi padri, madri, sorelle, amici, colleghi, social, world wide web, oppure perfino noi stessi). La nostra esistenza di primati parlanti poggia le sue fondamenta sulla narrazione e, per converso, la narrazione le restituisce importanza, spessore, consistenza. Che poi è la stessa cosa di dire: se non hai niente da raccontare, non stai vivendo.

Perché narrare, anche (o soprattutto) la prosaicità della nostra vita, significa tre cose. La prima è il consolidamento nella memoria dello scorrere continuo del tempo, un modo per riafferrare un passato che ci sfugge in continuazione e sul quale abbiamo bisogno di mettere delle bandierine che traccino i contorni di quello che siamo. La seconda è la costruzione di una mitologia personale, qualcosa che affranchi i meri accadimenti dal piano della realtà e li riporti, solo per il fatto di essere scelti per essere narrati (magari farciti dalla marmellata dell'iperbole), su un piano più alto, più importante, più degno, e con essi anche il narratore e la sua esistenza. La terza è la messa in comune di qualcosa di nostro che, grazie all'interesse dell'interlocutore, ma basta anche solo presunto tale, funge per noi - per dirla con David Foster Wallace - da antidoto contro la solitudine.
È da questa scintilla, in breve, che scaturisce la letteratura, come un banale versione 2.0 di quest'intimo bisogno primordiale. La letteratura, semplicemente, allarga quest'orizzonte, lo schematizza, lo istituzionalizza, lo professionalizza, e mette un grandangolo (o un microscopio) di fronte al panorama circostante, oppure chiude gli occhi ed esplora universi alternativi per arricchire l'esperienza (e l'esistenza) di chi scrive e di chi legge, di chi narra e di chi ascolta, in quanto consente di vivere più vite nel tempo di una sola. Insomma, noi siamo i nostri racconti ben più di quello che crediamo. E per fare una buona crostata, la pasta frolla è tutto.

martedì 24 febbraio 2015

Evviva l'Oscar (non) italiano!

Milena Canonero conquista il suo quarto Oscar nella categoria Migliori Costumi e subito i media titolano cose tipo: "Oscar, l'Italia c'è". L'apoteosi della sineddoche al contrario. Il tutto per la parte. Una cosa sempre un po' triste, a dire il vero. Perché l'Oscar l'ha conquistato Milena Canonero, non l'Italia. Non c'è niente di italiano in Milena Canonero se non la sua nascita torinese. La Canonero (adesso qualcuno esclamerà "la Milena nazionale!") inizia la sua carriera quando un regista di belle speranze la vuole come costumista in un film minore. Il regista è Stanley Kubrick. Il film è Arancia Meccanica. Non so se avete presente i costumi di Alex e i suoi drughi. Ecco, quelli. All'epoca lei ha (soltanto) 25 anni. Il suo primo Oscar se lo aggiudica solo cinque anni più tardi, per un altro filmetto da nulla, in cui i costumi valgono poco o niente: Barry Lyndon. Ne passano altri sei e si porta via la statuetta per Momenti di gloria. E lei ne ha già avuti parecchi. Seguono poi cinque nomination e altre due vittorie: Marie Antoinette di Sofia Coppola e questa del 2015 per Grand Budapest Hotel di Wes Anderson. Quindi, insomma, un curriculum che parla da sé, dove l'Italia è presente solo sulla sezione anagrafica.

Non c'è niente di italiano in questa storia, tranne i natali del soggetto. Niente per cui si possa sostenere che c'è un pezzetto di Italia nel successo di Milena Canonero. Questo è millantato credito. Qui si parla di una singola persona, un talento straordinario, che giovanissima si è trasferita a Londra a studiare arte e storia del costume (a Londra, non a Roma) e da lì ha fatto il grande salto nel momento in cui le circostanze la portarono a conoscere Kubrick (Kubrick, non Fellini) e a lavorare per lui. Da Londra a Hollywood, il passo è stato breve. Oggi, a 69 anni, vive e lavora a Los Angeles. A che titolo dunque dovremmo dire: "L'Italia vince con Milena Canonero"?
È odioso questo modo tipico dei media (e dei politici) - che poi però si riversa sui lettori (e gli elettori) e sul loro modo di intendere le cose - di scippare meriti per cercare in qualche modo di nutrire l'orgoglio nazionale, incrementare così le vendite (e i voti) e dimostrare la tesi che l'Italia può avere successo, quando non addirittura di arrogarseli, quei meriti. La verità è che, almeno in questo caso - come in altri -, l'Italia non c'entra un bel niente. Anzi. Milena è un cervello in fuga, Milena ha dovuto andare via giovanissima dall'Italia per seguire la passione e raggiungere l'eccellenza. L'Italia non ha avuto alcuna parte nel successo di Milena, dunque l'Italia non ha vinto un accidente. E noi possiamo essere felici per lei al massimo giusto per quell'empatia istintiva che ci può suggerire il suo cognome, ma non più di Martin Scorsese, Francis Ford Coppola, Al Pacino o Joe Pesci.

lunedì 23 febbraio 2015

La vita, l'universo e tutto quanto

Sono convinto che quello del Commencement Speech sia una delle belle invenzioni americane. Si tratta del classico discorso ai laureati che viene normalmente tenuto presso le università statunitensi da qualche personalità più o meno famosa. Bella perché spesso ha prodotto testi ormai entrati nella storia della letteratura, quando non (a torto o a ragione) nella mitologia popolare. Penso al celebre Questa è l'acqua di David Foster Wallace tenuto al Kenyon College nel 2005 o a quello di Steve Jobs e del suo Siate affamate, siate folli* pronunciato davanti ai laureati di Stanford nel 2005 o ancora a L'elogio della gentilezza, discorso tenuto da George Saunders alla Syracuse University nel 2013 (ma, per dire, anche Richard Feynman, Neil Gaiman, J.K. Rowling e altre note personalità tennero i loro discorsi).

Anche Randy Pausch, brillante informatico americano, ne fece uno, il 18 settembre 2007, alla Carnegie Mellon University. In realtà quello di Pausch non fu un vero e proprio Commencement Speech, ma una lezione sul tema "quale massima provereste a comunicare al mondo se sapeste di avere un'ultima possibilità di farlo?". E per Pausch era davvero l'ultima possibilità di farlo, poiché all'epoca gli restavano pochi mesi di vita per un terribile cancro al pancreas che lo stava divorando. Così Pausch fece un discorso intenso e toccante intitolato Really Achieving Your Childhood Dreams (Realizzate i vostri sogni d'infanzia), ma che, per tristi e ovvi motivi, ben presto venne ribattezzato Last Lecture (L'ultima lezione).

Circa un mese dopo Pausch ripropose quella lezione in televisione, ed è quella versione (abbreviata e sottotitolata in italiano) che vi propongo. Sono solo 10 minuti. Prendeteveli. Fatelo per voi. E per l'universo. Rischia di essere la cosa più vicina al numero 42 che potrete mai trovare.

Randy Pausch è morto il 25 luglio 2008 a soli 48 anni. Come in altri casi, la sua Last Lecture è diventata anche un libro.



* In realtà Stay hungry. Stay Foolish (Siate affamati, siate folli) non è farina del sacco di Steve Jobs, bensì una citazione di una frase che Jobs aveva letto in gioventù sulla quarta di copertina del Whole Earth Catalog.

venerdì 20 febbraio 2015

Tu chiamali se vuoi, extraterrestri

Conviene provare a contattare eventuali civiltà aliene o e meglio restare (nascosti) ad ascoltare? È questo, il succo del dibattito che si è innescato nell'ambito del meeting dell'American Association for the Advancement of Science (AAAS) tenuto a San Jose qualche giorno fa. Da una parte, Seth Shostak direttore del progetto SETI e organizzatore della manifestazione è il capofila di coloro che sostengono la necessità di adottare una nuova modalità di ricerca di intelligenze extraterrestri che preveda l'invio di messaggi radio specifici e non solo l'ascolto di eventuali trasmissioni provenienti dallo spazio. Dall'altra ci sono coloro, tra cui lo scrittore (di fantascienza) David Brin, che ritengono che non è ancora il caso di procedere con questo tipo di ricerca. Secondo Brin questo approccio potrebbe in qualche modo essere rischioso, in quanto potrebbe esporre l'umanità a qualcosa di sconosciuto e quindi di potenzialmente pericoloso.

C'è da considerare che il progetto SETI, fin dai primi tentativi - non ancora istituzionalizzati né sistematici - di ascolto del cielo attraverso i radiotelescopi nei primi anni ’60, non ha portato alcun risultato, naturale quindi che senta il bisogno di una specie di reboot, di un rinnovamento, di qualcosa che gli consenta di trovare nuove prospettive, nuova linfa, pena il rischio di morire per insufficienza di risultati. Non è da escludere dunque, che la posizione di Shostak sia in una certa misura (anche) di natura politica: trovare qualcosa per tenere in vita il progetto. E il progetto del cosiddetto Active SETI potrebbe fare al caso suo. Naturalmente, credo che tuttavia la prima questione su cui interrogarsi dovrebbe essere: quali probabilità possono esserci che ci sia qualcuno là fuori in grado di captare/riconoscere i nostri segnali radio, dal momento che in trent’anni di ascolto sistematico non ne abbiamo ricevuto nessuno?

Ma a parte il fatto che si potrebbero tentare altri approcci di comunicazione oltre a quello radio (tipo impulsi di luce laser), quello su cui mi preme soffermarmi più che altro è la prima parte della questione cioè: è davvero pericoloso cercare di contattare eventuali intelligenze extraterrestri? O chi pensa questo è (magari) influenzato da luoghi più o meno comuni di matrice fantascientifica?

Mi pare evidente che innanzitutto sia necessario partire dal presupposto che là fuori ci sia effettivamente qualcuno da contattare, che costui sia tecnicamente in grado di captare il nostro messaggio, che in qualche modo lo possa comprendere e, infine, che voglia e sia capace di rispondere con qualcosa di intelligibile. Basta che una di queste condizioni non si verifichi e noi non potremo mai sapere se esiste qualcun altro là fuori. Dunque dando per buono quanto sopra, credo si possano fare alcune considerazioni:

1. Gli alieni sono più o meno al nostro stesso livello tecnologico. Questo significa che hanno grosse difficoltà a "staccarsi" dal loro pianeta. E questo implica che non dovrebbero esserci grossi problemi a farci vivi con loro. Comunque essi siano, buoni o cattivi, alti o bassi, pelosi o glabri, fino a qui non ci arriveranno mai.

2. Gli alieni sono un po’ più avanzati del nostro livello tecnologico, ma non abbastanza. Gli alieni riescono a gironzolare per i loro dintorni cosmici, ma altra faccenda è muoversi sugli anni-luce. Distanze astronomiche e leggi della fisica sono brutte bestie anche per loro. Qui non ci arriveranno mai.

3. Gli alieni sono molto più avanzati di noi. Possiedono una tecnologia che per noi è magia. Viaggiano in lungo e in largo per la galassia come noi per i cieli del mondo. Ebbene, in questo caso, con tutte le trasmissioni radiotelevisive accidentali che abbiamo mandato in giro per lo spazio nell’ultimo secolo, di scarsa potenza, certo, e quindi forse difficili da captare a grandi distanze, ma comunque in ogni direzione, potremmo esserci già fatti notare e, con la loro tecnologia, se volessero sarebbero già qui.

4. Gli alieni sono molto più avanzati di noi. Possiedono una tecnologia che per noi è magia. Viaggiano in lungo e in largo per la galassia come noi per i cieli del mondo. Noi mandiamo loro un messaggio e loro ci scoprono e, in un battibaleno, arrivano sulla Terra. A questo punto abbiamo altre tre sotto-casi:

    4.1 Sono alieni buoni come ET. Ci salvano dalla barbarie, da Facebook e da Beppe Grillo e ci elevano verso nuovi stadi evolutivi Una cosa come Le guide del tramonto di Arthur C. Clarke.

    4.2 Sono alieni piuttosto indifferenti nei nostri confronti. Vengono, ma si fanno i cavoli loro. Danno una sbirciatina, si prendono qualcosa se gli serve e se ne vanno, o restano. Ma a noi non fanno niente. Magari siamo noi, noti bastardi in tutta la galassia, che facciamo qualcosa a loro. Una cosa tipo il film Monsters (se non l'avete visto, vedetelo!).

    4.3 Sono alieni pezzi di merda. Ci vogliono conquistare, mangiare, farsi le borsette con le nostre chiappe. Ci sterminano, ci spazzano via, ci fanno loro schiavi o loro fermacarte. Qui la questione si divide ancora in tre:

         4.3.a Siamo capaci di difenderci e di organizzare una resistenza degna di Visitors. Alla fine vinciamo (o ci accordiamo), il mondo torna in pace e l'umanità ne esce rafforzata, migliorata, più evoluta.

         4.3.b Ci spazzano via e fanno della Terra una specie di Sharm El Sheikh aliena. In questo modo ci fanno anche un favore, ponendo fine alle nostre sofferenze come razza.

         4.3.c Ci schiavizzano, ci imprigionano, ci fanno soffrire come bestie, ma in modi che noi non siamo neanche in grado di immaginare, e noi non siamo in grado di ribellarci, di rialzare la testa. Siamo succubi loro. È la fine della civiltà umana, ridotta a servitù, a marionette, a cagnolini da compagnia.

Se supponiamo che questi scenari siano esaustivi e abbiano lo stesso peso, questi ultimi due, i peggiori, valgono (solo) 2 probabilità su 10. Questo significa che ci sono 80 probabilità su 100 che lo scenario non sia pericoloso. Non vi bastano? L'esplorazione, il raggiungere orizzonti dove nessuno era mai giunto prima, non ha forse sempre comportato un rischio di qualche tipo? A meno che quello che noi in questo caso chiamiamo "pericolo", non sia in realtà quello di confrontarsi con una razza molto superiore alla nostra che potrebbe facilmente metterci nudi di fronte alla nostra stessa, terribile, tragica barbarie. E questo, in effetti, lo potremmo sopportare molto meno della nostra stessa morte.

mercoledì 18 febbraio 2015

Tre allegri ragazzi morti (viventi)

Il Volo vince il Festival di Sanremo. Il Volo ha un successo della madonna. Il Volo è sintomo di qualcosa di terribile. Perché Il Volo è la fotografia dell'immobilismo di questo paese. Un paese in cui viene premiato il ripiegamento su se stessi, la nostalgia, il passato, la garanzia, ovvero quello che è già stato fatto e ha già avuto successo. Un paese che, dunque, ti dimostra che non si deve rischiare e, per questo, un paese artisticamente morto. Un paese zombizzato culturalmente dove, piuttosto che inseguire la creatività, i giovani preferiscono mostrare il collo alle zanne dei vecchi (o vengono indirizzati a farlo, oppure non hanno scelta perché è il dazio che devono pagare per entrare nel club). Un paese che, tranne rare eccezioni, tratta l'espressione creativa come un incidente di percorso, una malattia curabile, qualcosa di ingombrante di cui sbarazzarsi, di appuntito da spuntare, di puzzolente da deodorare, qualcosa di cui sbarazzarsi in fretta per incanalarsi nei rassicuranti (e magari economicamente fruttuosi) binari di un deja vu triste e mortificante.

Avvinghiata intorno alle proprie radici nutrite dall'illusione della propria tradizione, l'Italia de Il Volo è, paradossalmente, il ritratto di un paese incapace di dare orizzonti verso i quali prendere il volo, un paese che in questa espressione dimostra tutta la sua stanchezza e pigrizia croniche, la sua mancanza di humus culturale e di un qualunque fermento, un paese reazionario ostaggio della vecchiaia, fisica, ma anche intellettuale, di tutti coloro che, a vario titolo, detengono il potere e che, in questo modo, cercano di mantenerlo saldo fino all'ultimo dei loro respiri, ma sapendo che dopo di loro ci sarà qualcuno come loro a mantenere la barra del timone dritta sempre sulla stessa, maledettissima rotta.

E poi vedi cosa succede nei blog: uno parte dal Festival di Sanremo e finisce per parlare della democrazia cristiana.

lunedì 16 febbraio 2015

10 sorsi per una vita (più) sobria

«È un dato di fatto: molti scrittori abilissimi nel maneggiare le parole non lo sono stati da meno col bicchiere». Esordisce così, Graziano Dell'Anna, nella prefazione di La vita sobria, antologia da lui curata per Neo Edizioni, di cui voglio parlarvi oggi. Ma se nei casi da lui citati (Bukowski, Faulkner, Hemingway, Carver, Cheever ecc.), forse la narrazione finì più spesso per derivare dalla degustazione, o almeno per essere da essa catalizzata, più che il viceversa, nel caso de La vita sobria è proprio l'inverso quello che succede. Dall'Anna infatti non è andato a cercare autori proverbialmente ed esplicitamente amanti della bottiglia e dei suoi effetti, bensì ha invitato un manipolo tra gli autori più interessanti della scena italiana contemporanea a cimentarsi con racconti nei quali la bottiglia, il vino, la birra, l'alcool in generale fungesse da catalizzatore del racconto, dunque una stimolazione etilica dall'interno del racconto stesso, piuttosto che dall'esterno.

Nasce così questa interessante antologia che declina dunque in dieci modi diversi il rapporto tra vita e alcool. Dieci modi in cui l'alcool può intervenire all'interno di un'esistenza o solo di una situazione di essa e segnarle comunque per sempre. Quello che ne esce - manco a dirlo - non è un panorama consolante. La bottiglia figura quasi sempre come il profilo vetroso di un terzo incomodo all'interno di una coppia (Gli eroi perfetti, Il guscio vuoto), di un fantasma ostinato difficile da esorcizzare (Jet Lag), o ancora come un tapis-roulant con il quale ci si può soltanto illudere di correre via dalle brutture della vita (Sogni andati a male, L'amore reclinato). A volte accadono tutte le cose insieme. Comunque sia, l'alcool risulta distruttivo anche quando non viene bevuto, ma soltanto venduto (Limoncello). Ma ci sono anche altri casi contemplabili, come quello in cui l'alcool può essere il catalizzatore di storie alternative (Bere una bottiglia nel multiverso), come pure di ricordi di amori perduti (Caduta. Libera) o il simbolo di un festeggiamento difficile da realizzare (Tulipani), o infine l'oggetto di una privazione che nemmeno il suo essere a fin di bene, alla fine trova un'adeguata ragione d'essere (Una questione d'orgoglio o di estetica).

Complessivamente i racconti dell'antologia, ciascuno con i propri stili e le proprie modalità espressive, riescono nel loro intento di mettere in scena con un'alta qualità letteraria la difficoltà della sobrietà della vita di cui l'alcool è a volte testimone e a volte complice. Citerò qui solo i tre che mi hanno colpito più di tutti, in ordine rigorosamente di apparizione. Jet Lag, di Claudia Durastanti. Una scrittura briosa, sempre mantenuta su un equilibrio quasi miracoloso tra commedia e tragedia, sulla difficile esistenza di una rockstar tra questioni familiari irrisolte e l'impossibilità di trovare un rapporto stabile. Gli eroi perfetti, di Fabio Viola. La relazione quasi surreale (ma terribilmente reale) di una coppia moderna, che non riesce mai a incontrarsi veramente, e nemmeno a comunicare davvero, se non nel sesso o quanto meno nella prospettiva di esso. L'amore reclinato, di Paolo Zardi. Tristissima discesa negli abissi di un uomo abbandonato, come un reduce di una guerra perduta, che ha smarrito la bussola e l'unico antidoto che trova sul suo orizzonte è quello dell'abbruttimento di se stesso. Perché, come dice lo stesso Zardi nel suo racconto, in una perfetta sintesi del volume: «L’unità di misura del dolore degli esseri umani è il litro».

La vita sobria, AA.VV. a cura di Graziano Dell'Anna (Neo Edizioni, 2014)

venerdì 13 febbraio 2015

A San Valentino, ditelo con un frustino

50 sfumature di grigio, il film, è ormai nelle sale di tutta Italia, non a caso a ridosso di San Valentino. Finalmente le coppie di innamorati, invece di celebrare il (solito, vetusto e stucchevole) rito dell'amore romantico con orsetti, cuoricini, cioccolatini, bigliettini e cenette a lume di candele, potranno guardare (e non solo immaginare) le gesta pseudoerotiche di Anastasia e Christian, cercando così magari di prendere spunto e di passare dall'illusione dell'emancipazione e della trasgressione, ai sudori turgidi dell'azione.

Perché altrimenti pensare che sia una buona idea far uscire 50 sfumature di grigio, il film, in concomitanza di San Valentino? Sì, mi direte voi, voi che l'avete letto (io mi sono limitato alla pagina di Wikipedia, che peraltro ho il sospetto sia scritta meglio), "ma guarda che tra una frustata e l'altra c'è anche una storia d'amore." Già, ma tutti sappiamo che non è per una (banale) storia d'amore che 50 sfumature di grigio ha sfondato, quindi non venitemela a raccontare. La gente vuole il sesso. Vuole farlo, toccarlo, leggerlo, leccarlo, vederlo. E soprattutto vuole essere protagonista di una trasgressione accondiscesa, quella situazione ottimale in cui a livello personale si è ancora nei territori della trasgressione (perché la trasgressione fa sentire dannatamente vivi), ma a livello sociale viene tutto ammesso grazie alla comunione pubblica del gesto (in questo modo si ovvia alla mancanza di coraggio di trasgredire e/o al senso di colpa di avere trasgredito).

Così, invece di scambiarci pupazzi, rose rosse e Baci Perugina, invece di farci spennare in costosi ristorantini di pesce, tra non molto diverrà la prassi celebrare la festa degli innamorati con manette pelose, set di vibratori di dimensioni crescenti, tutine di latex, borchie, collari, corde e gatti a nove code. Allora il romanticismo sarà la nuova vera trasgressione e sarà il remake di Love Story a uscire per San Valentino (ma, tranquilli, stavolta Jennifer non schiatterà). Ma sarà un terribile flop, perché la gente se ne resterà a casa. A frustarsi.

mercoledì 11 febbraio 2015

Geografie dell'Italia che odia

Spesso, nella semplicità aerea del fiato che spolvera le corde vocali, ci si dimentica dell'importanza delle parole, della loro fisicità, del fatto che hanno un peso e una ruvidità, e che è prima di tutto con le parole che disegniamo i contorni di noi stessi e del mondo che ci circonda, dei pensieri e delle persone con cui entriamo in contatto. E che, dunque, le parole non possono essere trascurate come un incidente di percorso evolutivo della glottide. Le parole sono importanti e per questo dobbiamo stare attenti a come le usiamo e a come vengono usate, perché questo può dare un'immagine di come siamo noi e di come sono gli altri, soprattutto in un tempo in cui il verba volant è sempre meno praticato a favore di quello scripta manent del nuovo millennio che trova espressione nella comunicazione attraverso i social network.

Accade così che si possa monitorare la frequenza con cui un certo numero di parole ritenute significative appaiono su Twitter, e da questo, ove possibile, mappare le loro ricorrenze per zone geografiche di provenienza dei relativi tweet. In questo modo, se le parole designate sono quelle proprie dell'omofobia, della misoginia, dell'antisemitismo, del razzismo e dell'intolleranza verso le disabilità, è possibile disegnare una geografia che specifica dove queste intolleranze risultano maggiormente radicate e presenti sul territorio.

1. MISOGINIA

2. OMOFOBIA

Questo è, in breve, lo studio che in più di un anno di lavoro ha realizzato Vox – Osservatorio Italiano sui Diritti, sulla scorta di analoghi esempi stranieri come la Hate Map redatta dalla Humboldt State University nel caso degli USA, e che, monitorando circa 1.800.000 tweet distribuiti sul territorio italiano rispetto a un ben determinato ventaglio di parole e concetti identificativi di manifestazioni di odio e intolleranza, ha mappato geograficamente famiglie di sentimenti di ostilità e discriminazione registrandone l'intensità rispetto alla frequenza delle parole-chiave scelte.

Ciò che ne emerge, e che vi invito a guardare attraverso le mappe riportate qui sotto, è un quadro geo-sociale molto interessante, dove la misoginia – per esempio – ha riscontrato un elevatissimo numero di tweet (oltre 1.100.000 in 8 mesi) e si è dimostrata, a dispetto di quello che ci si poteva aspettare, la forma di intolleranza più rilevante e distribuita. Dal punto di vista essenzialmente geografico, invece, l'Italia più intollerante si troverebbe al Nord e al Sud, mentre il Centro sembrerebbe un'oasi a maggior grado di tolleranza, fatta eccezione però per l'antisemitismo, per il quale la situazione appare ribaltata.

3. RAZZISMO

4. ANTISEMITISMO

Ma se l'analisi della comunicazione dell'odio attraverso un social media come Twitter potrebbe non essere del tutto attendibile rispetto a una realtà che non trova una corrispondenza capillare rispetto a questo tipo di mezzo di comunicazione ancora non molto diffuso nel nostro Paese, ma la cui virtualità può essere un incentivo alla disinibizione e dunque a sentirsi più liberi di dire le proprie opinioni senza il filtro dell'ipocrisia e del perbenismo, l'analisi fatta da Vox può anche essere vista dalla prospettiva opposta, ovvero di come rispetto a effettivi episodi registrati sul territorio, i social media diventano anche veicoli e catalizzatori di violenza e intolleranza.

5. DISABILITA'

Complessivamente, come potete vedere, le mappe si dimostrano abbastanza impressionanti nella restituzione di istantanee di un paese ancora parecchio distante da una civiltà del rispetto e della tolleranza, ma soprattutto un paese non omogeneo, un paese dove non si può abbassare la guardia pensando che quelli che si sentono giungere di tanto in tanto attraverso la cronaca siano solo casi isolati per i quali non è necessario preoccuparsi , e dove le mappe possono dare indicazioni sulle aree dove è maggiormente necessario intervenire a livello di educazione e sensibilizzazione. Perché è da lì che, come sempre, bisogna cominciare: dalle coscienze, dai valori, dal proprio modo di sentire gli altri. Non dimentichiamolo mai quando, per esempio, anche per veniali questioni di traffico, ci ritroviamo a dare del frocio a qualcuno o della troia a qualcun altra. Che ci piaccia o no, noi siamo le nostre parole e le nostre parole sono noi. Non dimentichiamolo mai quando apriamo bocca.

lunedì 9 febbraio 2015

Dimenticami Trovami Sognami. Leggimi.

I libri migliori sono quelli che fanno centro essendo animati da sconsideratezza e ambizione. E questo è uno di quelli. Sconsideratezza, perché ci vuole una certa dose d'irragionevole coraggio pensare di scrivere una storia di fantascienza, possiamo definirla metafisica?, e pensare di uscirne in qualche modo vivi. Ambizione perché pensare di scrivere una storia di fantascienza, possiamo definirla cosmologica?, è qualcosa per cui si sta scommettendo molto forte sulle proprie capacità. Ebbene, Dimenticami Trovami Sognami di Andrea Viscusi, ancora fresco dell'inchiostro dei tipi di Zona 42, riesce nel suo intento e restituisce una storia decisamente atipica per la fantascienza in generale e, ancor di più, per il panorama italiano. Ed è proprio qui (ovviamente) il bello.

Dimenticami Trovami Sognami racconta la storia di Dorian, candidato prescelto per un progetto dell'ESA, non proprio un astronauta, ma qualcosa del genere (non vi svelo di più), il quale si trova a doversi separare da Simona, il suo amore, di fatto abbandonandolo, per imbarcarsi in una missione di esplorazione storica, ma dalla durata incerta. Al suo ritorno, che avverrà ben dodici anni più tardi, Dorian troverà il mondo irrimediabilmente cambiato, al contrario lui non sarà invecchiato di un giorno, ma in compenso il suo viaggio lo avrà trasformato per sempre, restituendogli una conoscenza così profonda della struttura più intima dell'Universo che lo renderà capace dell'impossibile.

Con una ricercata scarsezza di descrizioni, che conferisce al romanzo una perfetta aura onirica, come dev'essere dato il contesto, il romanzo di Viscusi si suddivide in tre parti. La prima, Dimenticami, è la storia di Dorian, prima e dopo la missione, dell'abbandono necessario di Simona e del suo ritorno a fronte del quale le sue percezioni risultano alterate. La seconda, Trovami, stravolge lo scenario e sulle prime si presenta come un lungo (e letterariamente pericolosissimo) infodump, una specie di manuale di filosofia cosmologica, in quanto Viscusi ci introduce, attraverso il racconto di un antefatto, ai segreti di una (possibile?) cosmologia dell'universo. Ma lo stratagemma narrativo che l'autore usa - un dialogo inframmezzato alle pagine di un diario - riesce a rendere questa parte comunque godibile e interessante, ancorché non sempre di immediata comprensione. Ma ci sta. In fondo Viscusi si imbarca nel compito non semplice di spiegare la complessa natura della realtà e vuole un lettore attento che ragioni e si sorprenda con lui. La terza, Sognami, mescola con sapienza le carte delle due parti precedenti, trovando una quadratura sorprendente alla vicenda di Dorian.

Sorretto da una scrittura non banale e sempre sicura, Viscusi conduce il lettore con mano ferma dentro i suggestivi meandri di un'ipotesi circa la trama più nascosta della realtà, mostrandoci che è l'intelligenza pura ad avere il primato dell'esistenza e che i sogni potrebbero dire molto più di quanto vogliano rivelarci del nostro inconscio. Dimenticami Trovami Sognami, distante anni luce dalla fantascienza come si è per lo più abituati a intenderla (siamo più dalle parti de La moglie dell'uomo che viaggiava nel tempo della Niffenegger con influenze dickiane, che dalle parti di Scalzi, Stross, Sawyer o Silverberg), finisce così per rivelarsi un romanzo sulla (onni)potenza della narrazione, dunque quasi una metanarrazione, ove le citazioni letterarie esplicite, che vi invito a scoprire (già Dorian è una), stanno li a dimostrare che se una singola idea può cambiare il mondo, può farlo anche un libro.

Insomma, Viscusi si dimostra autore da tenere d'occhio. E se volete leggere altro di lui, vi rimando a Quattro apocalissi (antologia di quattro racconti di cui si è parlato bene, scaricabile gratuitamente qui) o a Spore, altra antologia acquistabile qui.

Dimenticami Trovami Sognami, di Andrea Viscusi (Zona 42, 2015)

venerdì 6 febbraio 2015

Il mezzo e l'incredulità

Quando ci confrontiamo con una narrazione di qualunque tipo, abbiamo sempre bisogno di sospendere la nostra incredulità, ovvero di credere a quello che stiamo leggendo/vedendo/ascoltando, altrimenti la narrazione non funziona e la nostra reazione a essa sarà di noia, irritazione, incomprensione, scherno ecc. Chiunque si occupi di raccontare qualcosa (romanzi, film, fumetti, teatro ecc.) sa di dover fare i conti con questo paradigma, tanto più se – per esempio – l'oggetto della narrazione è qualcosa che per sua natura difetta di aderenza con la realtà. Rendere credibile una storia fantascientifica, per dire, è senza dubbio più difficile che far digerire a un lettore un giallo ambientato a Milano. Questa, sia chiaro, non è comunque condizione sufficiente a rendere buona l'opera, ma almeno necessaria a renderla fruibile, benché questo dipenda in qualche misura anche dal palato del fruitore.

Tuttavia, in particolare, nel caso del fantastico in generale (tanto per comprendere la più ampia varietà dei sottogeneri), ho l'impressione che l'incredulità e la sospensione di essa dipendano in qualche modo (anche) dal mezzo attraverso il quale stiamo vivendo la storia. Per esempio, mettendo a confronto ambiti visuali, il fumetto agevola maggiormente la sospensione dell'incredulità rispetto al cinema, quello con attori in carne e ossa, intendo. La rappresentazione grafica di una realtà, qualsivoglia fantastica, con il suo tratto, i suoi colori, il suo stile, la sua tecnica costruisce infatti già di per sé una netta separazione dalla realtà e questo consente al fruitore dell'opera di accettare le deviazioni della vicenda dal piano della realtà (e dunque della logica e della razionalità) con maggior agio, proprio perché la modalità stessa di rappresentazione della storia appartiene già di per sé a un piano diverso. Al contrario una rappresentazione cinematografica con attori in carne e ossa parte già da un ben più aderente piano di realtà, molto più difficile quindi da far digerire allo spettatore, perché innegabilmente possiede un'intenzione emulativa della realtà che il fumetto non ha.

L'osservazione mi è scaturita a valle della recensione di Snowpiercer (film) di qualche giorno fa, ovvero in merito alla riflessione che non potevo escludere che la storia della Terra ghiacciata e del treno che ruota perpetuo intorno al pianeta, reggesse molto meglio a fumetti rispetto che al cinema, benché questo non sia in grado di dirlo non conoscendo il fumetto. Peraltro questo concetto ritengo possa essere influenzato anche dal grado di coerenza interna del fumetto. Per esempio i fumetti Marvel e DC tendono ad avere un elevato livello di congruenza con la realtà e questo li rende maggiormente trasponibili sul grande schermo rispetto ad altre opere. Forse Le Transperceneige è una di queste. E forse questo è anche uno dei motivi per cui certe trasposizioni cinematografiche di fumetti sarebbe meglio che non vedano mai la luce.

mercoledì 4 febbraio 2015

Perché (per me) Snowpiercer è "una cagata pazzesca"

Nonostante sia passato ormai quasi un anno dal suo passaggio nelle sale cinematografiche, a distanze irregolari in rete salta fuori l'argomento Snowpiercer, il film del 2013 del sudcoreano Bong Joon-ho. E siccome personalmente l'ho detestato e ogni volta mi ritrovo a spiegare i perché e i percome di questa mia opinione, ho deciso di metterli giù in maniera ordinata una volta per tutte.

Allora, innanzitutto la premessa è demenziale. Delle cose tipo scie chimiche andate fuori controllo sarebbero responsabili di una specie di rapidissima glaciazione del pianeta. Non era possibile trovare qualcosa di più suggestivo e interessante? In secondo luogo gli unici sopravvissuti stanno su un treno che gira indefinitamente lungo tutta la circonferenza terrestre. Ora, se la prima è davvero ridiciola, la seconda ha bisogno da parte mia di uno sforzo parecchio intenso per superare la soglia della mia incredulità, ma posso anche concedere all'idea una certa suggestione. Ma so che la fantascienza è fatta spesso di palesi incongruenze, che tuttavia non inficiano il godimento della vicenda. Per dire, il celeberrimo Spazio 1999 ne è forse uno degli esempi più eclatanti. Dunque andiamo avanti.

La storia di fatto non esiste. Essendo il treno stratificato su classi sociali, partendo dalla coda del treno, dove stanno le persone più povere e disagiate, schiavizzate ecc., fino alla testa dove sta il miliardario che il treno l'ha creato, c'è questo manipolo di personaggi che si ribellano alla loro condizione e dalla coda del treno si propongono di arrivare fino alla testa e prendere il controllo del convoglio. Okay, è una metafora della società. Non ci piove. Ma è una metafora talmente banale da risultare, da sola, risibile. Insomma non basta che sia una metafora per essere una figata. Ci vuole altro. E Snowpiercer non ce l'ha.

Il film è vuoto. Anzi non è neanche un film, è una serie consequenziale di quadretti che cambiano a mano a mano che i protagonisti avanzano verso la testa del treno, come i livelli di un noiosissimo videogioco. Ogni vagone una difficoltà. Una volta passato, via al successivo. Non c'è alcuna coerenza tra uno e l'altro, né una consequenzialità: avrebbero potuto cambiare l'ordine delle scene e il risultato non sarebbe cambiato. I personaggi sono delle marionette. Le relazioni tra di essi sono inesistenti. Ci sono più relazioni tra le piastrelle della mia cucina. I personaggi non hanno alcuna storia. Niente. C'è solo questo manipolo di persone che avanza, avanza, avanza. Embè?

Dicevamo dei personaggi. Per dire, ho trovato quello interpretato dalla Swinton patetico. Cerca di essere surreale, come ci prova un po' tutto il film, ma non ci riesce e scivola quasi sempre nel ridicolo. Forse ci sarebbe voluto un Wes Anderson dietro alla macchina da presa per fare qualcosa di sensato. Ma una scena bella c'è. Una sola. Una scena che ho trovato riuscita e mi è piaciuta molto: quella della scuola. Il resto è spazzatura.

E poi c'è il finale. Molti, anche dei quali cui è piaciuto il resto, hanno storto il naso di fronte alla scena dell'orso e del bambino improvvisamente vestito di tutto punto. A me ha lasciato indifferente, anche sapendo che il senso del finale è da ricercarsi nella cosmogonia coreana, dove l'orso corrisponde al simbolo della rinascita. Questo mi conferma che tutto il film nasce come un simbolo, ma resta sdraiato come un cadavere nella bara della metafora che vuole rappresentare, quando per essere complesso e significativo avrebbe dovuto essere stratificato sui messaggi, fruibile su più livelli.

Va detto che il film è una trasposizione di un fumetto francese (Le Transperceneige), che io non conosco, per cui non so se nell'ambito della bande dessinée, tutta la storia reggesse meglio. Probabilmente sì. Poi capisco che possa esserci una fetta di pubblico anche ampia cui il mero sviluppo da videogame e l'efferatezza tarantiniana di molte scene possano essere piaciute, ma per favore, anzi per pietà di Hitchcock, Truffaut e Kubrick, almeno non chiamiamolo capolavoro.

lunedì 2 febbraio 2015

L'istinto perverso per il notiziario

C'è uno stratagemma narrativo cui il cinema, soprattutto di genere, ma spesso anche la televisione, sembrano ricorrere con sempre maggior frequenza. Si tratta della rappresentazione finzionale dei notiziari. Nei film, insomma, ci viene mostrata sovente la messa in onda di telegiornali, ricostruiti e rappresentati con eccezionale verosimiglianza, ottimo espediente per far digerire allo spettatore tante informazioni sulla storia in pochissimo tempo e con un certa agilità. Ma questa trovata ha anche un altro effetto importante e per lo più inconsapevole, sullo spettatore: quello di connotare la storia di maggiore realismo e credibilità.

In altre parole, nella fiction televisiva e cinematografica, l'inserimento di uno spezzone di notiziario immerge lo spettatore più profondamente nella storia, perché la sola presenza del telegiornale rende la vicenda complessivamente più reale in quanto più credibile. La realtà fittizia che prevede l'esistenza di un notiziario il quale parla in qualche modo (proprio) della vicenda di cui ci parla il film, diventa immediatamente più concreta e, per questo, coinvolgente. E questo accade perché lo spettatore tende - per istinto - a dare maggior credito a un notiziario (ancorché inventato, come quelli nei film), che al semplice racconto nudo e crudo della storia.

Se però osserviamo il fenomeno dalla prospettiva opposta, apprendiamo molto anche sul modo con cui ci poniamo - per istinto - di fronte alla ricezione delle notizie giornalistiche e al nostro rapporto con la realtà di cui ci parlano i telegiornali autentici. Nella misura in cui la realtà non è totalmente conoscibile (e nessuna realtà lo è), il racconto della realtà che un notiziario fa, finisce infatti per essere sempre più incisivo e credibile della realtà stessa. E questo, purtroppo, vale anche per il TG4.

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