Punti di vista da un altro pianeta

venerdì 27 gennaio 2012

mercoledì 25 gennaio 2012

La tirannia dello sciopero

È sufficiente un manipolo di TIR coordinati secondo tecniche di pseudo-guerriglia urbana in punti nevralgici della rete stradale di un paese, per sequestrare un'intera nazione. E disagi di proporzioni simili, per esempio, possono essere provocati anche da scioperi di autoferrotranvieri, medici, operatori ecologici, farmacisti, benzinai eccetera. Dal canto loro, invece, una segretaria, un impiegato, un negoziante o un artigiano, che cosa possono fare? Che potere hanno? Quale reale peso politico e sociale hanno le voci delle loro categorie (a parità di numero di aderenti) il giorno che decidono di incrociare le braccia per difendere i loro diritti?

Non è un caso che questi gruppi, impiegati in testa (ma, sbaglio, o anche i negozianti dovettero subire a suo tempo le liberalizzazioni delle licenze commerciali senza colpo ferire granché?), siano sempre stati tartassati dallo Stato più di tutti gli altri. Innanzitutto perché non sono vere e proprie "categorie", e i loro connotati di "corporazione" sono commisurati solo dall'effettivo potere dei sindacati che li rappresentano (e ho detto tutto). In secondo luogo perché se scioperano non possono fare in modo che a qualcun altro, tranne che a loro stessi, gliene freghi qualcosa, certo non a livello nazionale, certo non nei termini e nelle misure comparabili a quello che sta succedendo in questi giorni in Italia.

Dunque il massimo strumento di protesta per contestare le decisioni di un governo, ovvero di affermare le ragioni di una determinata categoria di lavoratori e, idealmente, combattere le (presunte) ingiustizie subite, è esso stesso portatore di una profonda iniquità. In altre parole non tutti gli scioperanti sono uguali di fronte alle medesime istanze di giustizia e a dispetto delle medesime regole di sciopero che, pur essendoci, evidentemente hanno più di una difficoltà a far essere rispettate. Si innesca così il paradosso in base al quale lo sciopero non può (più) essere uno strumento democratico di lotta sociale, avendo connaturati in sé dei privilegi che discriminano le categorie dei lavoratori sulla base della forza politica e sociale che riescono a esercitare con la loro protesta, ovvero sono portatori di ingiustizie non dissimili da quelle che si propongono di combattere.

Non c'è alternativa dunque, se non scioperare contro gli scioperi. E poi, gioco forza, scioperare contro gli scioperi contro gli scioperi. E via così. In una catena ininterrotta di scioperi contro altri scioperi, per cui in ultima analisi tutti quanti si ritroveranno a scioperare, almeno fino a che, per la consolazione finale di tutti, quella sì, davvero democratica, ogni cosa dovrà cambiare per fare rimanere tutto gattopardescamente come prima. Dite la verità: non è - in fondo - quello che volete?

venerdì 20 gennaio 2012

Le 10 cose che devi sapere di Francesco Schettino

1. Schettino si mangia le unghie della mano sinistra.
2. Schettino è allergico ai friggitelli.
3. Schettino - la sera della tragedia - portava un paio di boxer di Calvin Klein.
4. Schettino crede che l'Olandese Volante sia un vascello fantasma.
5. Schettino è stato visto fare i cerchi nel grano (c'è un testimone).
6. Schettino ha i talloni screpolati.
7. Schettino possiede un pappagallo parlante («Vadaaborrrrdocazzo, Vadaaborrrrdocazzo!»).
8. Schettino si è messo a leggere Robinson Crusoe.
9. Schettino non ha mai visto una puntata di Love Boat.
10. Schettino sarà ospite della prossima puntata di Voyager.
11. Schettino - in realtà - è un alieno (ma non un marziano).

mercoledì 18 gennaio 2012

Se la talpa è senza occhiali

Stando a quello che per lo più ti capita di leggere in giro, ti immagini una meraviglia, la spy story definitiva, quella che avremmo sempre voluto vedere e che, almeno di recente, ci era sempre stata negata. Magari non il capolavoro assoluto, forse per il tanto necessario quanto scomodo paragone con la sua celebre controparte narrativa da cui è tratto, ma comunque un film notevole, di spessore, contrassegnato da grandi performance dietro e davanti la macchina da presa. Insomma, se le vai a vedere, la stragrande maggioranza delle recensioni de La talpa sono infiocchettate di crema morbida e vellutata come decorate con sac-a-poche capaci di stemperare anche il più piccolo grumo venuto male. Le stelline piovono come la notte di San Lorenzo e i voti da primo della classe (per lo meno dove ho visto io) fioccano, perché nel film tutto pare funzionare come un ben oliato meccanismo a orologeria: le scenografie, i costumi, i movimenti di macchina, fino alle maschere silenti e dolenti di Oldman e compagni, pedine (date le circostanze, è proprio il caso di dirlo) di un gioco più grande di loro dove in palio c'è nientemeno che la vita stessa.

Invece no.
Il film non funziona.
Il film non gira.
Il film è un (clamoroso) flop.

Perché se da un lato tutto quello che ho detto sopra sulla regia, le inquadrature, gli attori, per non parlare di una fantastica Londra anni '70, livida, fredda e tormentata come le stesse anime del Circus, è vero, in altre parole queste cose funzionano parecchio bene, dall'altro c'è invece qualcosa che non va affatto. E non è qualcosa che si può trascurare così a cuor leggero. Perché quello che ne La talpa fa acqua da tutte le parti è - nientepopodimenoché - la sceneggiatura, come pure l'insieme di tutte quelle scelte registiche di contorno (o le loro omissioni) che hanno fatto sì che alla fine tu esca dal cinema inseguendo uno sbadiglio e ritrovandoti appeso alla schiena a tradimento un punto interrogativo grande così, a corollario della sgradevole impressione di non averci capito niente. E benché tu sia stato attento (perché tu lo sai bene come sono questi dannati film di spionaggio sempre così intricati) e abbia cercato di non perderti neanche una battuta, nessun dettaglio, il non detto - ma significativo - di un sopracciglio che si alza, e abbia cercato di tenere la concentrazione focalizzata sulla sequenza delle scene, destreggiandoti tra la storia presente e i suoi ripetuti flashback, alla fine ti sei trovato spesso, troppo spesso, dentro una nuova sequenza chiedendoti (invano) in che termini questa si mettesse in relazione con le precedenti, non riuscendo così - alla fine - a far quadrare decisamente troppi pezzi del puzzle.

Ebbene, a mio avviso il film, soprattutto nella sua seconda parte, difetta in maniera cruciale nella gestione del flusso di informazioni che dovrebbero essere fornite allo spettatore per consentirgli di uscire agevolmente dal labirinto paludoso dell'intrigo. E l'impressione finale è dunque che Tomas Alfredson abbia preferito sacrificare la comprensibilità della vicenda sull'altare della purezza e dell'estetica cinematografica, che pur innegabilmente ci sono, ma che non bastano da sole a evitare al film la figura finale di una grande occasione buttata nel Tamigi.

Dunque la domanda conclusiva che non posso fare a meno di pormi è la seguente: ma tutte queste recensioni entusiastiche che ho letto in giro sono frutto di genî del cinema, di accaniti lettori di Le Carré, di cui avevano letto l'omonimo romanzo e dunque partivano avvantaggiati, oppure sono solo persone che non hanno avuto il coraggio di riconoscere di non averci capito un cazzo solo per il timore di farci la figura dei fessi?

venerdì 13 gennaio 2012

Copiate e condividetevi!

A qualcuno questa cosa potrà non piacere, ma la religione è un fenomeno che si può ricondurre a una matrice puramente statistica. Tre persone che credono che Paperino sia dio e Paperopoli il Paradiso sono nella migliore delle ipotesi dei buontemponi, nella peggiore dei pazzi. Se però alla stessa credenza si dedicano in trecento milioni di individui, diventano dei fedeli devoti, ancorché palmati. In altre parole in ultima analisi è solo il numero dei suoi fedeli a ratificare (e legittimare) una religione e non il viceversa.

Sotto questo aspetto, il punto dunque non è che cosa può essere considerato "sacro", ma quanti lo considerano. E se c'è qualcosa che in qualche modo riesce a coinvolgere un numero considerevole di persone, ecco che possono spuntare religioni come banane al Polo Nord. Il Kopimismo, ufficialmente ratificato la settimana scorsa come culto dalle autorità Svedesi (che tra gli stati è uno dei più permissivi nel riconoscimento delle religioni), ne è l'ultimo esempio. Per chi non ne avesse sentito parlare, Kopimismo deriva dalla locuzione "copy me" ed è un culto basato sulla sacralità assoluta dell'informazione in cui il sacramento principale è la sua copiatura, e dunque la sua diffusione, di qualunque contenuto, in qualunque forma. I suoi riti si concludono con la formula Copy and Seed ovvero Copia e Diffondi e per essa il diavolo è il copyright.

Attualmente pare che in Svezia siano circa 3000 gli adoratori del Mulo (non avrai altro P2P all'infuori di me), e a detta del loro guru-fondatore Isak Gerson, questa religione non verrà strumentalizzata dal punto di vista normativo o politico per cercare di legittimare il diritto alla professione del proprio culto (quindi contro le leggi antipirateria), benché non si possa negare che l'istituzione di questa chiesa abbia tutti i contorni di una presa di posizione forte, ma anche provocatoria e paradossale, contro le mosse protezioniste delle grandi multinazionali che tentano in tutti modi, e non solo in Svezia, di arginare il fenomeno della pirateria on-line. Di certo è che, almeno tra Unione Europea e Stati Uniti, in termini numerici e almeno nelle ultime generazioni, questa rischierebbe davvero di essere la religione più diffusa. Ma non in Italia. In Italia una religione così non funzionerebbe.

Quella che in Italia invece andrebbe alla grande è la Chiesa Evadista. I suoi riti si concluderebbero con la formula Eludi ed Evadi, Equitalia sarebbe il diavolo, coloro che pagano le tasse sarebbero da esorcizzare, i suoi profeti sarebbero più di quelli della Bibbia, i pellegrinaggi si farebbero a Zurigo e a George Town e l'unico Paradiso ammesso sarebbe quello Fiscale. Di certo troverebbe più osservanti del Cattolicesimo e in questo senso sarebbe anche assai meno ipocrita: gli evadisti non praticanti non esisterebbero.

lunedì 9 gennaio 2012

Smascherare qualcosa di grosso

Visto che lo fa sempre più di rado, è una bella sorpresa quando la letteratura ritrova la sua dimensione di denuncia. Non è forse quello per cui è nata? Non si diceva che ne ferisce più la penna della spada? A me piace molto poi quando la denuncia trova la forma della narrativa, perché la narrativa è metaforica e la metafora e, anche se forse si muove più lentamente, arriva più in profondità e dunque tende a mettere radici più facilmente, rispetto - tipo - al saggio o all'articolo di giornale, che magari lì per lì fanno un gran baccano, ma l'esplosione resta in superficie e passato il rumore e dissipato il fumo non resta granché. E trovo anche il massimo quando la narrativa riesce a usare le armi dell'ironia e della satira, perché così risulta non solo più pungente nel suo intento denunciatorio, ma anche assai più divertente. E a mio avviso la letteratura non deve (mai) abdicare al divertimento. Infine, è estremamente appagante quando tutte queste cose vengono messe in campo da un autore non conosciuto al grande pubblico (ancorché in questo caso tutt'altro che un esordiente) per un piccolo editore, perché significa che in qualche modo ancora un briciolo di speranza esiste. È dunque bello scoprirlo e ancora di più recensirlo.

È il caso di questo Aspetta primavera, Lucky di Flavio Santi, che se non lo volessimo chiamare romanzo, cosa che comunque è, dovremmo metterlo nella categoria del pamphlet. L'intento di denuncia dell'autore infatti è più che evidente dalla scelta del nome del suo protagonista, Fulvio Sant, palese alter ego dell'autore, che nelle molteplici vesti di traduttore, insegnante e scrittore - guardacaso proprio come Flavio Santi - cerca di sopravvivere al perverso sistema culturale targato Italia costellato da personaggi stravaganti e senza scrupoli, con i suoi paradossi, i suoi muri di gomma e i suoi paradigmi clientelari e nepotisti, scardinabili forse solo riuscendo a diventarne parte (e accettando tutti i compromessi che ne conseguono). Da questo punto di vista Aspetta primavera, Lucky è un libro necessario e coraggioso, idealmente la controparte narrativa dell'autobiografico Tutta colpa di Tondelli di Nicola (Zio Scriba) Pezzoli, già passato da queste parti un po' di tempo fa.

Così, grazie anche a una scrittura fresca e leggera, le velenose stilettate di Santi/Sant all'industria culturale (che, manco a dirlo, finisce per essere un frammento frattale del più vasto Sistema Italia), dove conta solo il "brand" che tu rappresenti non importa come te lo sei guadagnato, sono ancora più acute, disperate e disperanti nella loro tragica verità e nell'apparente labirinto in cui la Storia Paracula della Letteratura Italiana versa, appunto, da sempre, senza la speranza di una via d'uscita, se non nell'illusione eucaliptica di qualche sniffata di aerosol e nella catartica recita serale del Rosario del vaffanculo. Un plauso dunque a Santi, ma anche a Edizioni Socrates, piccolo editore romano che con questo romanzo controcorrente ha inaugurato la nuova Collana Luminol, di cui questo libro - giunto peraltro nella dozzina dei nominati allo Strega 2011 - suona (si spera) come una perfetta dichiarazione d'intenti.

L'estratto:
"L'ho smascherato. È tutta una finzione, un'immensa bugia. Mi fissa. Sono seriamente preoccupato. Mi chiedo: cosa succede se smascheri qualcosa di grosso? Se mostri qualcosa per quello che realmente è? Quelli più fini parlano di velo squarciato. Il mio vicino di casa direbbe sputtanamento. Mi rispondo da solo, è abbastanza facile: ti rovinano, sei finito. In fondo tu sei accettato perché non disturbi, non crei guai, ma quando smascheri qualcosa in modo definitivo? Ti metti fuori dal sistema in maniera chiara ed evidente. Torniamo alla mia vecchia idea: il potenziale destabilizzante di qualcosa, un pensiero, un libro, un'opera, si misura dai danni reali che provoca all'autore. Non si scappa. Ecco perché «la gente non deve sapere». Non può sapere. Perché se sapesse come vanno davvero le cose, in politica, nella sanità, in economia, tutto crollerebbe."
Aspetta primavera, Lucky di Flavio Santi (Edizioni Socrates)

venerdì 6 gennaio 2012

La politica delle feste

La Befana è innegabilmente di sinistra.

Gesù Bambino è indubitabilmente di destra.

Babbo Natale viene dal Nord. E con il suo carico di doni fa credere al popolo di stare dalla sua parte. In realtà pensa solo a conservare la sua immagine (nella pubblicità della Coca Cola). Quindi è leghista.

I Re Magi arrivano con la Befana (leggi Epifania) per portare doni a Gesù Bambino, dunque stanno un po' di qua e un po' di là. Assai più di là che di qua, comunque. Più o meno l'equivalente di Scilipoti, Capezzone e Bondi.

Poi è chiaro che siete liberi di appendere la vostra calza un po' dove vi pare.

domenica 1 gennaio 2012

2012!

Tanto vale mettere le cose in chiaro fin dal principio: in tutta questa faccenda i Maya sono solo delle comparse incidentali. Dunque non è nemmeno, che so, come Nostradamus, che pur qualcosa con la pretesa della profezia aveva scritto e, anche se ognuno può vederci dentro quello che vuole, il fatto che ci sia almeno qualcosa dentro cui vedere, legittima per lo meno l'esercizio arbitrario alla superstizione escatologica. Ma i Maya, loro, poverini, non hanno scritto niente. Nessuna profezia. Nessuna iscrizione. Nessuna tavoletta incisa che, magari con un intento equivalente a una bella toccata di palle, paventavava qualche sciagura globale sotto forma di qualche dio piumato sputafuoco che veniva sulla Terra a fare piazza pulita. Niente di tutto questo. La profezia Maya è una via di mezzo tra la (superstiziosa) leggenda metropolitana e la (remunerativa) invenzione mediatica.

Tutto il clamore nato intorno alla faccenda del 21 dicembre 2012 scaturisce più semplicemente (prosaicamente?) dal complesso sistema calendariale Maya chiamato Lungo Computo o Conto Lungo. Provo a spiegare in breve. I Maya contavano i giorni in maniera cumulativa, a partire dalla data "mitica" dell'agosto 3114 a.C., con l'applicazione successiva di cinque cicli di ampiezza crescente, basati per lo più su un sistema numerico a base 20. In altre parole l'elemento base era il Kin (giorno), 20 Kin erano un Uinal (mese), 18 Uinal erano un Tun (anno), 20 Tun erano un Katun (vent'anni), 20 Katun erano un Baktun (400 anni). Una data Maya dunque poteva essere scritta come segue: 0.0.1.2.5 che nella fattispecie significa: 5 Kin + 2 Uinal (2x20 Kin) + 1 Tun (18 x 20 Kin) = 405 Kin a partire dalla data di inizio. Come vedete ognuno dei valori della data è ciclico rispetto al precedente e in effetti i Maya avevano un forte senso della ricorrenza dei fenomeni dell'universo. Infatti è ciclico anche il Baktun che, sebbene non se ne sappia il motivo, i Maya ritenevano potesse raggiungere il massimo valore di 13, dopodiché il calendario si sarebbe azzerato e il Lungo Computo sarebbe ricominciato daccapo. Tenuto conto di quest'ultima considerazione, un ciclo completo, ovvero un Lungo Computo, doveva durare: 13 x 20 x 20 x 18 x 20 = 1.872.000 giorni. Tenuto conto delle peculiarità calendariali, ovvero degli anni bisestili eccetera, contando dall'agosto 3114 a.C. si finisce per cadere giusto intorno al dicembre 2012 d.C. Il fatto che venga indicato proprio il giorno 21 è solo perché si tratta del giorno del solstizio di inverno che, astronomicamente, indica la fine di un periodo e l'inizio di un altro, dunque se si deve scegliere un giorno, tanto vale scegliere quello "speciale" più vicino.

A tutto questo si devono aggiungere due notazioni. Una è quella legata al calcolo delle corrispondenze dei calendari che, dovendo mettere insieme un calendario Maya di migliaia di anni fa con quello gregoriano, in vigore da solo qualche secolo, non si tratta di un'operazione puramente logico-matematica, dunque esatta, ma anche di natura interpretativa e pertanto facilmente passibile di errori. L'altra, invero l'unica che parla di qualcosa che dovrebbe accadere al termine del tredicesimo Baktun, è quella rilevata in un ritrovamento archeologico in Chiapas, il cosiddetto Monumento 6 di Tortuguero, una stele da cui è stata tradotta la seguente iscrizione:
«Alla fine del 13° Baktun, il 4 Ahau 3 K'anki'n 13.0.0.0.0
[qualcosa]
avviene quando Bolon Yokte discende».
Manco a dirlo, come nei migliori film, il glifo che dovrebbe indicare che cosa avviene pare sia troppo rovinato per essere interpretato. Tutto quello che si può dire, si riferisce pertanto a questo fantomatico Bolon Yokte, che però, da quello che si sa, pare fosse una figura mitologica jolly, legata alla guerra e al mondo sotterraneo, ma anche alla creazione, un'ambivalenza meravigliosa capace dunque di solleticare sia l'immaginazione dei catastrofisti che quella dei guru new age.

Quello che è certo, dunque, è che i Maya non hanno mai parlato di fine del mondo, di collisioni planetarie, di salti quantici cosmici, di cataclismi globali o di altre antipatiche diavolerie portasfiga. Magari l'avessero fatto. Almeno avreste l'alibi per credere davvero a qualcosa, ancorché stravagante e strampalato. Così invece ci fate solo la figura dei fessi. Come al solito.

Non mi resta dunque che augurarvi che Bolon Yokte vi sia propizio. Per tutto ciò che può essere di sua competenza, s'intende. Al resto pensateci da soli, che è meglio.

[Credits: i dati di natura archeologica sono tratti da I Maya e il 2012 - Un'indagine scientifica di Sabrina Mugnos, Macro Edizioni]

License

Creative Commons License
I testi di questo sito sono pubblicati sotto Licenza Creative Commons.

Statistiche

Blogsphere

Copyright © Il grande marziano Published By Gooyaabi Templates | Powered By Blogger

Design by Anders Noren | Blogger Theme by NewBloggerThemes.com