Punti di vista da un altro pianeta

sabato 26 febbraio 2011

Che cosa sono trent'anni per un extraterrestre?

Non ho difficoltà ad ammettere di essere sempre stato un fan di E.T. Sarà che mi sento chiamato in causa, sarà che (per i miei standard) il film rasenta la perfezione, sarà che l'ho visto a 13 anni e 13 anni sono l'età perfetta per vedere E.T., sarà che gli interpreti sono adorabili (Drew Barrymore si è rovinata nel crescere), sarà che l'alieno possiede quel giusto mix di stranezza e familiarità, realismo e pupazzosità, o sarà che John Williams in quel periodo doveva andarci giù pesante con roba buonissima, perché ha sfornato un'altra colonna sonora della madonna, ma tant'è questa mia affezione per E.T. me la sono portata dietro e anche con la sopraggiunta (ipotetica, si badi bene) maturità, non riesco a evitare di restare legato a questo film (non escludendo che ci sia di mezzo la nostalgia). Così ulteriori visioni della pellicola non sono riuscite a svegliarmi da quell'incanto forse un po' troppo ingenuo, sentimentale e ruffiano della storia, che solletica il magone, ma che - non c'è verso - su di me funziona da paura. Cosa volete che ci faccia? Sono un tenerone.

Pertanto, quando ho sentito dire che stavano lavorando a un sequel, sono rimasto di sasso. «Possibile?!» mi sono detto, il cuore leggermente accelerato. Poi ho visto il trailer. Guardatelo anche voi. Merita. Di brutto.



[Credits: grazie alla segnalazione de I 400 calci.]

giovedì 24 febbraio 2011

Indovina chi?

"[...] l'uomo, nella sua realtà era di corta intelligenza, correlativa alla sua radicale deficienza di sensibilità morale, ignorante, di quella ignoranza sostanziale che è nel non intendere e nel non conoscere gli elementari rapporti della vita umana e civile, incapace di autocritica al pari di scrupoli di coscienza, vanitosissimo, privo di ogni gusto in ogni sua parola o gesto, sempre tra il pacchiano e l'arrogante.

Chiamato a rispondere del danno e dell'onta in cui ha gettato l'Italia, con le sue parole e la sua azione e con tutte le sue arti di sopraffazione e di corruzione, potrebbe rispondere agli italiani come quello sciagurato capopopolo, di cui ci parla Giovanni Villani, che rispose ai suoi compagni di esilio che gli rinfacciavano di averli condotti al disastro di Montaperti: «E voi perché mi avete creduto?»"
(B.C.)

Vuoi fare ancora una domanda, o vuoi tentare la risposta?

martedì 22 febbraio 2011

Il principio d'inerzia (del potere)

Migliaia e migliaia di persone in piazza vogliono la tua testa. Ruggiscono come un animale ferito. Alzano i pugni e le voci. Lanciano pietre, quello che passa di lì. Strappano cartelli stradali e rovesciano bidoni. Danno fuoco ai tuoi palazzi. C'è disperazione. Ma nemmeno poi tanta. Cadaveri a parte, s'intende. È più la speranza. Perché di quella devono essere armati prima di ogni altra cosa, se hanno il coraggio di mettere il loro petto nudo contro le bocche nere dei cannoni. E poi la voglia di cambiare, voltare pagina, perché così non ce la fanno più. Tutto per forza di cose finisce per avere un limite. E forse quel limite era già stato raggiunto da tempo, ma era il coraggio che mancava. Quello che hanno assorbito dai loro vicini, che - in qualche modo - ce l'hanno fatta e hanno mostrato al mondo che qualcosa di diverso era possibile, se solo ci si metteva in gioco. Tutti insieme. In un desiderio collettivo tale da far dimenticare il rischio del dolore e della morte.

Sono tante. Forse sono milioni. Sono come una colonia di coralli che si sta ribellando allo scoglio che l'ha tenuta imprigionata per quaranta lunghi anni. E lo scoglio sei tu. Duro, impassibile. Loro ti vogliono frantumare, dragare, toglierti di mezzo. Ma tu niente. Resti aggrappato, con le unghie e con i denti a qualcosa di indescrivibile, di difficilmente comprensibile. Come puoi pensare che non possa andare solo peggio, sempre peggio di così? Come puoi pensare di macchiarti le mani di quello stesso sangue di cui tu vorresti essere guida illuminata? Un'illuminazione che non si spegne forse di fronte alle macerie dei corpi bombardati dei tuoi fratelli? Non lo vedi, lì, il buio?

Perché dunque non toglierti di mezzo? Massì, lasciare tutto. Se preferisci chiamala pensione. Ne hai diritto ormai. Trovare un'isola, un resort, una spiaggia, cocktail rigorosamente analcolici in formula all inclusive, ma con gli ombrellini colorati, quelli sì, un pedalò sempre a disposizione e una bella sdraio comoda comoda dove prendere il sole sopra al rumore delle onde e il gracchiare dei gabbiani. Se vorrai non ci saranno difficoltà ad attrezzarla anche con una di quelle belle tende bianche, con i lembi frustati dal vento e due amazzoni in bikini a far la guardia. Cosa vuoi che costi. Uno come te sono certo che lo troverebbe un posto così, lontano da tutto e da tutti. E se lo potrebbe permettere. Ma in caso contrario si può anche fare una colletta, che ci vuole?

Invece niente. C'è gente che muore. Sangue che sporca l'asfalto e la sabbia. E grida di fuoco e fiamme che si alzano fino al cielo. E tu, sfrontato, non solo dici che resti, ma ti mostri al popolo con l'ombrellone aperto.

lunedì 21 febbraio 2011

venerdì 18 febbraio 2011

Eserciti di lingue e manipoli di orecchie

Poiché comunicare è una delle prime cose che s'imparano, si tende a sottovalutarla e a darla per scontata e acquisita. Invece dovrebbe essere tutt'altro, giacché si tratta dell'abilità fondamentale che, mettendoci in relazione con il mondo esterno, contribuisce nel corso degli anni a costruire, aggregare, impilare, cristallizzare, modellare tutto quel corpus di opinioni, convincimenti, meccanismi di pensiero e circuiti di giudizio che nel loro insieme ci rendono ciò che siamo. Purtroppo però, l'osservazione dell'attuale mondo della comunicazione, sia di derivazione televisiva che informatica, mi ha fatto giungere alla conclusione che il riprodursi selvaggio delle opportunità di scambio di informazioni abbia nello stesso tempo fortemente (e paradossalmente) regredito, quasi atrofizzato, proprio la capacità degli umani di comunicare, al punto da poter essere considerata una facoltà di fatto in via di estinzione.

Le ragioni di questo processo sclerotico che dura da almeno vent'anni, ma che a mio avviso ha subìto un crollo verticale negli ultimi quattro o cinque, forse qualcuno in più, non penso tuttavia debbano essere ricercate inseguendo tesi cospirazioniste. Non credo ci sia dietro una regia occulta che ha voluto manipolare gli esseri umani in questa direzione per promuovere il proprio dominio sulle menti deboli. Ritengo invece si tratti della semplice (ma assai nociva) applicazione delle nuove tecnologie della comunicazione globale alle risposte psicologiche umane, attraverso le regole odierne della politica e dell'economia.

Se è infatti vero che buona parte dei comportamenti degli individui viene condizionato soprattutto dall'emulazione, e in particolare dagli esempi che esprimono forza e autoaffermazione, dunque vincenti, non scopro certo io adesso che negli ultimi anni si sono moltiplicati i modelli di comunicazione degenerata. In poche parole il punto è che non si assiste quasi mai a una comunicazione a due sensi. Anche coloro che dovrebbero confrontarsi, non lo fanno mai realmente, bensì danno vita a una specie di ballarizzazione della dialettica, in cui grazie anche agli artigli di una regolamentazione inselvatichita, lo scopo ultimo è cercare di far prevalere a tutti i costi la supremazia del branco, ovvero l'illusione di essa. E fin qui niente di nuovo. Il punto è che questi modelli hanno trovato terreno fertile alla diffusione popolare (e capillare) attraverso la televisione e alla replicazione attraverso l'information technology, dove fungono a loro volta da esempi, in una reazione a catena involutiva difficile da invertire e dunque potenzialmente (e pericolosamente) senza fine.

È sufficiente osservare le situazioni in cui viene concessa la possibilità di una comunicazione bidirezionale su un qualsivoglia argomento, purché di un qualche interesse comune (è chiaro che in questo caso i temi che funzionano meglio sono quelli di natura etica, sociale e politica, ma anche - per esempio - lo sport). Se prendete dunque a titolo di esempio un blog che ottemperi a queste condizioni, come pure delle discussioni su Facebook o altrove, difficilmente noterete una comunicazione basata sull'ascolto reciproco. La prova ne è il fatto che, tranne rari casi, la gran parte delle volte non nascono dibattiti circolari, ovvero tra i visitatori, ma nella maggioranza delle volte la comunicazione si instaura (e limitatamente) solo con il "padrone di casa" che, nel migliore dei casi, risponde puntualmente a ciascuno degli ospiti, dopodiché tutto si esaurisce lì.

Insomma quello cui mediamente si assiste è una processione di singoli individui che, pur avendo degli interlocutori, finiscono per non comunicare, se non con se stessi, assecondando in questo modo - attraverso la comunicazione - quello che la società fa credere loro che sia importante: il protagonismo, l'autoaffermazione, il successo, perché sono queste le peculiarità che la società promuove rispetto al riconoscimento della validità della propria esistenza. E questo implica anche voler evitare il rischio di dover, a un certo punto, essere costretti ad ammettere le ragioni dell'altro. Ma se da un lato - e con un bel po' di fatica - si può anche concedere di trovare questo approccio quanto meno digeribile quando si tratta di "spettacolarizzazione", ovvero nelle trasmissioni TV, non lo è più nel momento in cui lo si osserva propagarsi come una pandemia fino alla base della piramide sociale, in quanto fa perdere la speranza che la nave possa davvero cambiare rotta.

Perché le sorti di questa società disastrata passano attraverso un confronto vero, reale e leale, fatto di argomentazioni e discussioni non onaniste e dunque - perfino - attraverso la concessione al riconoscimento di una reale possibilità che qualche frammento di verità possa essere sepolto anche nel campo di colui che sta di fronte a noi.

mercoledì 16 febbraio 2011

Roba da torte (martian backstage)

L'anno marziano è quasi il doppio di quello terrestre (1,88 volte circa), ragion per cui è preferibile nella conta dei compleanni, perché almeno aiuta a risparmiare sulle candeline. Tuttavia per non confondervi le idee, e aderendo alle impostazioni di Blogger, ho preferito adottare il vostro riferimento temporale. E dunque, in base al calendario gregoriano, oggi si celebra il primo anno de Il grande marziano.

Questo blog ha infatti aperto ufficialmente i battenti con il suo primo post il 16 febbraio 2010, e confesso che quando ho iniziato quest'avventura, la blogsfera mi faceva pensare a qualcosa di simile al palantír (mai avuto un blog prima d'ora, ma nemmeno un palantír se è per questo), dunque non sapevo bene cosa aspettarmi, né come muovermi in quest'universo virtuale, sia come autore, sia come lettore. Ma quello che le circostanze mi hanno fatto capire ben presto è che ci vuole un impegno mica da ridere per tirare fuori qualcosa di sensato, e che un blog richiede assiduità, rigore e disciplina. Insomma tenere un blog è un'ottima pratica zen. Che tradotto significa: tenere un blog vuol dire farsi il culo.

Del resto la cosa che davvero risulta difficile è cercare di scrivere qualcosa che - in un modo qualsiasi - metta sempre la sua testolina fuori dall'angolo dei cliché e faccia vedere il suo bel becco colorato. Che ci sia riuscito o meno, spesso o di rado, sarete voi a giudicarlo. Di certo c'è che per fare questo bisogna tenere sempre in moto quelle due o tre cellule cerebrali rispetto alle cose del mondo e al modo in cui si possono vedere e raccontare. Attività di per sé niente affatto scontata. Considerata poi anche la frequenza con cui tutto questo dev'essere fatto affinché il blog ingrani (e 190 post in un anno, visti oggi mi fanno arricciare le antenne al pensiero di ripetermi), l'alchimia richiede davvero uno sforzo notevole e forse anche per questo bellissimo e utile. Argomenti, battute, idee, toni, stili, immagini, link. Piano piano si scopre che, come in politica, vale tutto. E il tutto aiuta a stimolare processi di pensiero e di espressione inediti e sorprendenti. Al contrario della politica.


Per questo (e la cosa è davvero curiosa e per certi versi straniante), rileggendo i miei primi post, che dunque risalgono solo a un anno fa, mi suonano come i temini delle elementari (non leggeteli, vi prego). Un blog, evidentemente, ha bisogno di rodaggio. Perché per avere un senso deve cercare un suo tono, una sua modalità espressiva, una sua personalità, una sua riconoscibilità. Anche qui, non so se ci sono riuscito, ma so che, comunque sia, questo è un lavoro che non finisce mai, perché un blog evolve con il suo autore e viceversa. Ma non pensavo accadesse in questo modo e fino a questo punto. Dunque mi chiedo con curiosità (e un certo sgomento): come vedrò, tra un anno, i post di questi giorni?!

Posso però riportare il primissimo post, che forse molti di voi non hanno mai letto, dal tautologico titolo: Dichiarazione d'intenti. Eccolo:
Fino a che punto si spinge l'autonomia del nostro pensiero? Possiamo dirci certi che le nostre opinioni siano davvero nostre? Siamo liberi sul serio, o la libertà è solo un'illusione, lucidata e sagomata dal mondo dei media, siliconata come il seno di una starlette del Grande Fratello, scintillante come la vetrina di un Centro Commerciale?

Credo che mai come oggi sia necessario rimanere vigili, tenere alta l'attenzione e non smettere mai di allenare la mente alla critica, all'autonomia e all’indipendenza.

D'ora in avanti Il grande marziano sarà il posto in cui farlo.

Benvenuti.
E visto così, tutto sommato mi pare di essere stato abbastanza coerente. E questo è già qualcosa.

Infine le persone. Quelle che - legittimamente - lurkano (e lo so che ci siete: vedo le vostre lunghe ombre colorate...). E quelle con cui il blog e la frequentazione della blogsfera mi hanno fatto entrare in contatto. Che non nominerò per non fare torti. Ma dita vere sulle tastiere, a dispetto delle loro icone e dei loro nick a volte virtuali (peraltro come me), dita interessanti, simpatiche, argute, misteriose, lisce e pelose (eddai, lasciate che vi lusinghi un po': se oggi è la mia festa, voglio che sia un po' anche la vostra!), tutte diverse, tutte civili (un anno senza moderazione e nessun incidente), tutte da cui imparare qualcosa, tutte con cui condividere qualcosa.

Lasciate dunque che vi dica un semplice, ma grande GRAZIE (minchia quanto la sto facendo lunga!). A tutti quanti. (Anche per il pupazzo!) Perché è inutile nascondersi dietro a un dito, anche se si hanno quattro mani come me. Non credo ai puristi della scrittura. Balle! Si scrive per essere letti.

Non so se (e adesso la pianto, giuro) tutto questo sia abbastanza per chiamarvi amici. Ho la convinzione che gli amici, per essere davvero tali, debbano avere un odore. Ma chissà che un giorno non si possa rimediare e ci si possa annusare a vicenda. Li chiamano incontri ravvicinati del terzo tipo.

LA SI SOL SOL RE.

Un nuovo anno terrestre comincia.
Tutto il resto marziano è.

martedì 15 febbraio 2011

Esegesi di San Valentino (una postilla)

Gli innamorati, se sono davvero tali, sono in festa tutti i giorni. Perché sono pazzi l'uno dell'altra. Perché lanciano scariche elettriche dalle punte delle dita e non vedono l'ora di bersi gli occhi a vicenda. Perché sentono dentro di sé il vento della rivoluzione, l'eccitazione della scoperta, l'entusiasmo della condivisione.

Sono fuori di testa, gli innamorati, quelli veri.

Forse è per questo che li si riesce a intortare con una festa del cazzo. O forse si riescono a intortare solo coloro che hanno bisogno di sentirsi innamorati pazzi. Almeno una volta l'anno.

[Credits: l'immagine è di Fernando Villalobos (c)National Geographic]

lunedì 14 febbraio 2011

Il prezzo delle donne

Se davvero "libertà è partecipazione", come diceva Giorgio Gaber, allora quella di ieri è stata un'autentica sinfonia di libertà. Possente. Corale. Magnifica. Sintomo che, a dispetto del qualunquismo e della pretesa disaffezione alla politica e dunque alle sorti della società, è (finalmente) germogliata nelle coscienze un'istanza comune, fortemente condivisa e trasversale, e soprattutto diffusa al di là delle divisioni geografiche, politiche, culturali e sociali. Oltre ogni aspettativa. Ma, anche se nessuno lo fa rilevare, non si può dire che il concerto sia stato impeccabile. Perché naturalmente tutti oggi sottolineano l'energia partecipativa della manifestazione, la cui forza si misura sì con le cifre, le immagini, le testimonianze, ma ancora di più con la pochezza miserabile e ridicola dei commenti strumentali di chi stava dall'altra parte. Segno, stavolta sul serio, che c'era davvero ben poco da osteggiare a riguardo. Eppure, nell'immenso fluire della musica, ho avvertito una nota stonata. E non una nota da poco, bensì una nota che fa parte del tema portante, ideologico, strutturale della sinfonia stessa.

Allora facciamo un passo indietro e parliamo di sesso, perché tutto - come spesso succede - è cominciato da lì. Il sesso è incontestabilmente una delle armi più potenti che la natura abbia dato agli esseri viventi in grado di condizionare i rapporti tra gli individui e, da questo punto di vista, il mondo è pieno di donne che lo usano, aprendo le gambe per interesse. Dunque non ci sono solo quelle che sono costrette a farlo perché schiave. Alcune lo fanno per libera scelta, perché tutto sommato sono soldi facili e soprattutto molti, molti, molti di più di quelli che riesce a raggranellare una cassiera della COOP (e con turni di lavoro molto più vantaggiosi), alcune perché è così che va il mondo e senza quello non riuscirebbero a coronare (così facilmente e con certezza) le loro ambizioni, alcune perché tutto sommato conviene loro così, per una bella casa, una bella macchina, dei bei vestiti e un futuro assicurato per i loro figli. Insomma, la faccenda della dignità della donna, soprattutto nei confronti dello sfruttamento del sesso, è cosa quanto mai variegata e non può essere ridotta tanto facilmente a un'unica nota, ancorché nobile, come s'è visto ieri.

Difatti non voglio dire con questo che la manifestazione di ieri sia stata sbagliata. Solo che non era modulata come avrebbe dovuto. Perché se, giustamente, si scagliava contro un sistema che fa della strumentalizzazione della donna (e dunque del suo disprezzo) uno dei suoi ignobili cardini fondativi, dall'altro è anche vero che le donne coinvolte nel caso Ruby, a partire da Ruby stessa, ancorché minorenni, hanno tutt'altro che l'aspetto di donne vessate, sfruttate, schiave. Ma anch'esse, in fondo, sfruttatrici di un sistema che porta loro soldi facili, visibilità, fama televisiva e posizioni importanti. È dunque così difficile pensare che il drago non riesca a trovare in giro vergini disponibili, perché le vergini hanno la forza e il coraggio, malgrado i miraggi di dollari e paillettes, di dire «No grazie, non fa per me!»?

La manifestazione di ieri chiedeva al drago e al suo sistema rispetto per la dignità della donna. Ma per essere davvero impeccabile, la manifestazione di ieri avrebbe dovuto essere anche una manifestazione di donne contro le donne. Le donne che piuttosto che darla, preferiscono fare le netturbine, contro le donne che piuttosto che fare le netturbine, preferiscono darla. Perché se da un lato l'abuso del potere del drago non potrà mai venire meno perché connaturato alle scaglie della sua lunga e viscida coda, dall'altro non si deve dimenticare che egli approfitta del fatto che un prezzo, alla fine, lo trova sempre.

venerdì 11 febbraio 2011

Dire la verità credendo di mentire

È una parola che va molto di moda in questi giorni, golpe. È facile accorgersene dalla sua ricorrenza nei media. Un lemma che - non a caso - è capace di evocare immediatamente scenari centro/sud americani, anche per la sua derivazione spagnola, trattandosi di un'abbreviazione della locuzione golpe de estado, ovvero colpo di stato. Dal punto di vista del significato, si tratta di un "atto violento o comunque illegale, posto in essere da un potere dello Stato, diretto a provocare un cambiamento di regime" (Wikipedia). La differenza rispetto a una rivoluzione è che quest'ultima è promossa e attuata da forze esterne al regime. E fin qui, la semantica.

Ora, ieri questa parola è stata accostata per la prima volta (almeno a mia memoria) all'aggettivo morale. È accaduto nell'intervista che Giuliano Ferrara ha fatto a Silvio Berlusconi e che è apparsa su Il Foglio, sempre in merito alla faccenda dell'inchiesta dei giudici di Milano sui presunti reati di concussione e prostituzione minorile in cui Berlusconi sarebbe incorso e al presunto atteggiamento persecutorio dei giudici nei suoi confronti. Ecco lo stralcio copiato direttamente dal sito de Il Foglio:
Stavolta c'è una coscienza pubblica diffusa dell’intollerabilità costituzionale e civile di un siffatto modo di procedere, il famoso golpe bianco, anche perché abbiamo un presidente che è un galantuomo, e allora ricorrono a quello che lei, caro direttore, ha chiamato 'golpe morale'. È per questo che nel documento del Popolo della Libertà si parla di eversione politica. È un giudizio tecnico, non uno sfogo irresponsabile.
In realtà dunque golpe morale è stata una locuzione usata dal giornalista che il Presidente del Consiglio non ha perso tempo a fare sua. Difatti questo è stato riportato oggi da molti quotidiani come un suo virgolettato originale. Ma questo importa poco. Importano invece le parole, giacché alla fine sono le parole a veicolare i concetti che vengono trasmessi alle persone e dunque usati per modellare la loro opinione. Per questo non mi aspetto che politici e giornalisti le scelgano mai per caso. Tuttavia mi chiedo se, in quest'occasione, abbiano ragionato sull'espressione golpe morale, tenendo in considerazione le regole della retorica con le quali i concetti devono fare i conti.

È evidente che la presenza dell'aggettivo morale sposta radicalmente il terreno su cui il significato di golpe si poggia. Un po' come dire: assassinio o assassinio morale. Nel secondo caso non ci aspettiamo alcun cadavere. Allo stesso modo da un golpe morale non mi aspetto alcun colpo di stato. L'aggettivo dunque sposta il significato della locuzione in un contesto figurato, che è quello indicato dall'attributo. Mi aspetto dunque che il cambiamento di regime significato dalla parola golpe, avvenga all'interno del confine della morale. In altre parole, un golpe morale è un rovesciamento arbitrario e improvviso dello stato morale, ovvero un cambiamento repentino e radicale del modo di intendere certi aspetti morali.

Per una volta non posso dunque che convenire con Ferrara e Berlusconi: sì, in Italia è in atto un golpe morale! Perché le coscienze dei cittadini (o almeno di una parte di essi) non riescono più a convivere con questa palese, indecente, vomitevole assenza di qualsiasi scrupolo etico a beneficio del proprio sollazzo e del proprio tornaconto, alimentato dall'abuso di potere nella più totale mancanza di rispetto nei confronti della cittadinanza intera. Sì, per una volta avete detto la verità, benché voi l'abbiate fatto per sventolare lo spettro di quella parola, golpe, evocatrice di fuochi e di carri armati, di polvere e di fucili, di coprifuochi e di terrore. Sì, in Italia è in atto un golpe morale, o almeno un suo tentativo, e le manifestazioni di domani ne sono una prova.

E visto che la paura di perdere i suoi privilegi, fa sì che il Vaticano abbia rinunciato a quella bell'abitudine di una volta di lanciare anatemi come fulmini e saette, e dunque (colpevolmente) non si vuole sporcare le mani per catalizzare questa rivoluzione delle coscienze, dev'essere il popolo a rimboccarsi le maniche. Lo deve fare Internet. Lo devono fare i media. Lo devono fare l'educazione e l'esempio. L'esempio prima di tutto. Perché non è moralismo pensare che ci debba essere un confine, fermo, da qualche parte. È solo civiltà. Negli USA un deputato repubblicano del Congresso - sposato con un figlio - è stato sorpreso a mandare una foto a torso nudo a una donna conosciuta in un sito di annunci personali e (solo) per questo ha rassegnato le dimissioni.

Sì, in Italia c'è un assoluto bisogno di un golpe morale. Solo se fosse anche davvero in atto, come dicono loro, per una volta ci sarebbe un po' di speranza.

[Credits: il dipinto in alto è "L'imperatore Giustiniano" di Andrea Fortina (olio su cartone, marzo 2006) - tratto da Tutte le facce del Cav. che il pittore realizzò per il Foglio nel 2006]

giovedì 10 febbraio 2011

Al mercato del vegetale strumentale

Ho sentito parlare di tutela della vita a tutti i costi, perché la vita deve stare sopra ogni altra cosa. E ho sentito parlare di rispetto doveroso nei confronti di chi la pensa diversamente, di chi crede nella libertà di scelta e nel diritto all'autodeterminazione. Ho sentito parlare di alimentazione e idratazione, e ho sentito parlare di testamento biologico. Ho sentito parlare di possibilità di recupero, e ho sentito parlare di morte cerebrale. Ho persino sentito voci di possibilità di condurre gravidanze, e addirittura di morte come gesto di pietà.

Tuttavia, il (tristissimo) punto cruciale di tutta questa faccenda non sta nella difesa a oltranza della vita. E, paradossalmente, non sta nemmeno nella questione del rispetto e della considerazione dell'opinione di chi la pensa diversamente, la mancanza dei quali è peraltro già di per sé molto, molto grave per un paese che vuole dimostrarsi civile. No. Il vero schifo di questa faccenda, quello che fa infuriare e dà il vomito, è che siamo di fronte a un duello puramente strumentale che viene combattuto all'interno del perimetro di uno dei più grandi dolori che un essere umano si possa trovare ad affrontare. Peggiore della morte stessa.

Per questo tutti devono essere consapevoli, al di là di come sia orientato il loro pensiero a riguardo, che la Giornata Nazionale degli Stati Vegetativi, promossa ieri dal Governo e dal Ministero della Salute in occasione del secondo anniversario della morte di Eluana Englaro, non è altro che una raffinata e indegna distillazione di manipolazione delle coscienze, abbagliate dal miraggio dell'intrinseco valore (positivo) del concetto di "vita", rispetto a quello (negativo) di "morte", negli alambicchi di un'ipocrisia e un perbenismo di matrice pseudoreligiosa. Il tutto a beneficio esclusivo del consolidamento di quote di consenso popolare.

Della vita o della morte del povero Mario nell'ultimo letto in fondo alla corsia, non gliene frega un cazzo a nessuno.

E neppure del dolore dei suoi cari.

Contano solo i voti.

[Un ringraziamento a Zio Scriba che ha contribuito a ispirarmi il post]

mercoledì 9 febbraio 2011

Incor(o)nare Corona

Devo ritrattare, smentirmi, cospargermi il capo di cenere, incappucciarmi le antenne con le orecchie da asino. Come spesso accade, sono stato impulsivo, mi sono lasciato trascinare dall'impeto dell'emozione, ho fallito nell'esercizio della misura e dell'autocontrollo e ho finito per prendere una terribile cantonata. Spero che, per lo meno, vorrete concedermi il beneficio della buona fede, l'onestà di averlo riconosciuto, seppur tardivamente, e il coraggio di averlo pubblicamente ammesso.

Mi riferisco a un mio post di qualche tempo fa sull'imminente esordio letterario di Fabrizio Corona, nel quale, con un certo voluto sarcasmo, giungevo alla conclusione (il termine più esatto, sarebbe "insinuavo") che l'autore era - di fatto - un incapace. Naturalmente non avevo letto niente e per questo la mia era una considerazione colpevolmente pregiudizievole. Ora invece posso dire di aver rimediato. Chi ha ucciso Norma Jean? è uscito e grazie a Booksblog.it che ne ha riportato l'incipit e ad Abo di MondoBalordo, che sul suo blog letterario (a proposito se vi interessano i libri, vi consiglio di dare un'occhiata alle sue recensioni) ne ha pubblicato un breve estratto gentilmente messo disposizione da Agent Zero su Goodreads, posso mostrarli anche a voi e dimostrarvi così tutta la mia arroganza.

Ecco qua l'incipit:
Prologo
Mi chiamo Nick Zaro. Sono un paparazzo. Lavoro per tutte le grandi riviste di gossip italiane, loro mi pagano bene, io faccio in modo che vendano centinaia di migliaia di copie. Se i direttori mi incontrano per la strada fanno finta di non conoscermi, ma quando entro nelle loro pompose redazioni, nei loro pomposi palazzi del centro, manca poco che stendano un tappeto rosso dalla porta alla loro pomposa scrivania. Mentre aspettano di vedere il materiale che gli ho portato hanno l’espressione di uno che è sull'orlo dell'orgasmo. E io non li deludo mai. Sì, perché io sono uno bravo, uno che porta gli scoop, scatto servizi che per loro possono significare una settimana in tv a mostrare tronfi le foto che ho fatto io. Come se gli autori del servizio fossero loro, come se avessero aspettato loro per ore su un albero o dietro una siepe, se avessero premuto loro il dito sul pulsante della macchina fotografica… Come se avessero fatto molto di più che firmare il buono di vendita per comprarsi il mio lavoro.

E l'estratto:
Io sono specializzato in missioni impossibili, nella mia vita ho avuto più avventure di James Bond, più donne di Rodolfo Valentino, più guai di Al Capone. Ho fatto più soldi di Rockefeller e ne ho spesi più di Marilyn Monroe in vena di shopping, ho avuto alti e bassi, ho pochi amici e tanti nemici. Vivo di notte come il conte Dracula, adoro le auto potenti e Al Pacino in Scarface.

Tra un caffè e l’altro avevo finito per caricarmi la barista che, forse impressionata dalla grandezza del mio teleobiettivo, mi aveva fatto capire di non disdegnare la mia compagnia.

«Mi spiace ciccino, sarà per un altra volta. Lui è pazzo di me…» aveva trillato Miss Vallettina nel mio auricolare. Ma perché quelle come lei parlavano sempre come nei cartoni animati? E poi ciccino poteva dirlo a sua sorella.
«Nessun problema, darling. Fammi un fischio la prossima volta. Passo e chiudo.»

Avete capito allora a cosa mi riferivo? Ho detto che il suo romanzo avrebbe potuto scriverlo solo un ghost writer. No.
L'ha scritto lui.

[P.S. Per chi vuole deliziarsi con un'approfondita e puntuale analisi letteraria degli estratti di cui sopra, ci ha pensato Davide Mana su Strategie Evolutive.]

lunedì 7 febbraio 2011

Produci, consuma...

La notizia è che quest'anno qualche cervellone dell'Istat ha deciso, in base a quale criterio non è dato sapere (ma sarebbe bello che lo fosse e dunque se qualcuno lo sa, lo dica), che dentro il paniere doveva finirci l'iPad, ovvero l'aggeggio tecnologico nel contempo più costoso e più inutile che il mercato abbia mai visto. Dopo la Fiat Duna, naturalmente. In realtà, per amore di esattezza, il paniere cita la categoria dei tablet pc, di cui l'iPad è l'esponente di punta, ma la sostanza delle cose non cambia. Ora, il paniere, in statistica economica, è un insieme di beni e servizi rappresentativo degli effettivi consumi delle famiglie in uno specifico anno. Esso viene utilizzato come base per il calcolo degli indici dei prezzi al consumo, inflazione, costo della vita eccetera eccetera eccetera. Questo significa che, dal punto di vista statistico, si ritiene che la spesa per i tablet pc sia economicamente rilevante a livello nazionale. È un po' come decidere se includere o meno un neologismo dentro la prossima edizione del dizionario.

Se questo è vero, e parto dal presupposto che lo sia, perché voglio dare credito alla competenza e all'autorevolezza dell'Istituto Nazionale di Statistica, questo mi porta a fare almeno un paio di considerazioni. Innanzitutto se i tablet pc fanno davvero parte della spesa media della popolazione, credo che non ci si dovrebbe lamentare di quello che dice la Marcegaglia e decide Marchionne. In secondo luogo se i tablet pc fanno parte della spesa media della popolazione, date le circostanze - e forse a maggior ragione - bisognerebbe aggiungere nel paniere anche la categoria: "Spese per sesso", dove mettere tutto quello che serve alla bisogna. Scommettete che nella prossima edizione dello Zingarelli ci troverete il nuovo lemma [Bunga-bunga s.m.]?

[credits: la foto della crepa è di annalisa.d]

venerdì 4 febbraio 2011

I predatori dell'aura perduta

Perchè nessuno parla di uno dei migliori scrittori italiani? Perché tutti blaterano di Baricco, Eco, Camilleri, Carofiglio, De Cataldo, Mazzantini ecc. ecc., e non c'è nessuno che spende due parole, dico due, mica duemila, per Michele Mari, uno che di scrittura, letteratura, immaginario, fantasia e narrazione se ne intende sul serio e in un modo sorprendentemente fuori dagli schemi? Non che nella produzione dei sopracitati sia tutto, indiscriminatamente, da buttare, però fa un po' specie accorgersi che un autore che sta mediamente sopra tutti questi di almeno una buona spanna, non esca dallo pseudo anonimato di una nicchia di cultori.

Che poi costui mica è un esordiente o uno che pubblica a pagamento per l'Editore Fabula Rasa di Vattelapesca. Il tipo in questione è ormai in giro già da una ventina d'anni e fin da subito è "arrivato" alla Grande Editoria, essendo oggi un autore Einaudi, ma ancora prima di Longanesi, Bompiani e Mondadori. Eppure, nonostante abbia alle spalle già numerose opere, resta un autore che non ha "sfondato" la barriera della popolarità e questo è davvero un piccolo delitto, date le sue capacità affabulatorie e la sua estrema originalità di approccio verso la letteratura.

Di lui ho avuto modo di parlare da queste parti in occasione di un libro che mi ha lasciato lì, secco, come un buco nero nel cielo. Così è stato un fatto naturale andare a cercare qualcos'altro di suo. E la scelta è caduta su Tutto il ferro della Torre Eiffel (2002), che già il titolo è qualcosa che ti porta via, per non parlare della straordinaria copertina, fonte di vertiginose suggestioni futuriste. Dunque, già il fatto che abbia deciso di dire due parole anche su questo altro suo libro, la dice tutta sul fatto che l'incantesimo si sia riproposto, puntuale e affascinante e che alla fine anche questo romanzo mi abbia lasciato di nuovo di stucco. Ma stavolta come l'arrivo del treno alla stazione di La Ciotat.

Fare un cenno alla trama di Tutto il ferro della Torre Eiffel è come descrivere un puzzle dai suoi pezzi, ovvero la torre Eiffel dalle sue travi. Solo alla fine avrete a disposizione una (personale) immagine finale. E quella che viene fuori dalla lettura di questo libro è una sorta di mappa del territorio dell'arte e dell'immaginario com'era configurato nel momento storico in cui l'arte e l'immaginario vennero "contaminati" dalla tecnologia che consente all'arte e all'immaginario di essere, per la prima volta nella storia, riprodotti tecnicamente. Il protagonista del libro è infatti Walter Benjamin, filosofo tedesco autore de L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, il quale, a pochi mesi dalla pubblicazione di questo suo saggio (siamo dunque nel 1936) si ritrova a Parigi a cercare l'aura, ovvero quella specie di sensazione, di emozione, di stupore, che viene suscitata nello spettatore o nel lettore dalla presenza materiale dell'esemplare originale di un'opera d'arte, ragion per cui il racconto prende le mosse dalla descrizione dall'esposizione di una petite madeleine di plastica (le petite madeleine autentiche hanno la sgradevole prerogativa di ammuffire), presso un museo intitolato a Marcel Proust a Illiers-Combray.

Ma questa ricerca squisitamente intellettuale e filosofica, per Benjamin acquista un'ossessività fisica e letterale. Così il pensatore si ritrova catapultato in una Parigi oscura e misteriosa, dominata da una rete inestricabile di passage, niente altro che le caratteristiche gallerie di negozi e botteghe artigiane, che si rivelano però i luoghi depositari di memorie vere e personaggi immaginari, manufatti intellettuali che si fanno reali e storie reali che sfondano il velo dell'immaginazione, simulacri parlanti e nani malevoli, industriali dell'automobile, sequenze di suicidi misteriosi e cineasti nazisti, persino l'Omino Michelin, in un tourbillon di incontri incredibili (e impossibili) dove la fantasia si mescola alla realtà, la finzione si amalgama con la biografia e la cronologia perde i suoi connotati originali nella narrazione, per tracciare con tratti sparsi e per nulla lineari, dunque quasi impressionisti, una specie di metastoria parallela dell'immaginario di un secolo di umanità. Dunque dentro si trova di tutto: letteratura, musica, pittura, fotografia, industria, fino all'esplosione cinematografica degli anni '20 e '30, naturalmente. Senza contare gli aspetti esoterici e nazisti con i quali l'arte di quegli anni si trova a dover fare i conti.

E mentre ci si addentra in questa fitta rete di mitologie interconnesse, non si può non restare sbigottiti di fronte a quello che è uno scenario affascinante e, nel contempo, densissimo di cultura. Eppure, non si deve cadere nel tranello di quello che a tratti può suonare come un apparente sfoggio di nozionismo enciclopedico fine a se stesso, sebbene in qualche pagina il libro non riesca a evitare del tutto di rimanere vittima del suo stesso gioco. Questo dipende senza alcun dubbio dalla predisposizione del lettore e anche, in parte, giocoforza, dalla sua personale conoscenza di quel periodo. Del resto è evidente che più il lettore riconosce di volta in volta lo schema, il riferimento più o meno celato, il personaggio o l'aneddoto, più si sente partecipe egli stesso dell'ambiziosa messinscena. Ma anche nelle parti che, per forza di cose, capitano di restare non identificate, è bello lasciarsi prendere per mano verso quei territori inesplorati, difficili da discriminare tra realtà e finzione, e lasciando suggestionare la curiosità o l'immaginazione per un periodo della storia così ricco di mutazioni e fermenti artistici.

Per tornare al discorso iniziale, alla fine mi sono fatto l'idea che questo scrittore paghi il prezzo dell'artista vero, quello di non piegarsi neanche un po' alle logiche di mercato, di restare intellettualmente indipendente e di sfornare davvero quello che vuole, che gli piace, che gli appassiona l'anima, senza sotterfugi di piaggerie, compiacimenti o miraggi monetari. Forse non diventa "popolare" perché i suoi libri non sono "pop" (anche se a proposito di Rosso Floyd ho qualche dubbio a riguardo), perché necessitano di un po' di immersione, di impegno, di background culturale. Ma, almeno i due che ho letto, sono terribilmente belli e originali. Per questo la mia personale ricerca ora è rivolta a recuperare una copia di Verderame, suo libro del 2007 e sorprendentemente già fuori catalogo, e di Tu, sanguinosa infanzia (2009). Ho idea che l'aura di Mari la troverò anche lì.

L'estratto:
Aprì lo scatolino. Dentro, adagiate sopra un letto di bambagia c'erano tre minuscole sfere nere, ognuna non più grande di un pallino da caccia. Interrogò il nano con lo sguardo.
- Non li riconoscete? "Faceva pena come una vecchia sottana stesa ad asciugare... Se n'accorgevan perfino i più luridi topi campagnoli... Tutti si sbellicavano vedendolo oscillare fra i tetti... Io ridevo un po' di meno!... Presagivo l'orrendo squarcio, quello decisivo! Funesto! La fregatura finale..."
- Non ditemi che...
- Ma certo che sono loro! I tre puntini! La più grande invenzione del secolo! Per quel che riguarda la letteratura s'intende, ci si vuol mica allargare! Allora, che mi dite? Eh? Se l'affare interessa, siam qui per chiuderlo! Alla faccia dei cinesi! Oh, dico: mica tre puntini di uno qualsiasi, i suoi! e gli originali, mica una copia!
Tutto il ferro della Torre Eiffel, di Michele Mari (Einaudi)

mercoledì 2 febbraio 2011

Egitto-Italia: 1-0

Come al solito ci sono cose (come questa) che non arrivano ai media. Cose che solo i diretti interessati sanno e coloro che sono capaci di trovarle. Fatti scabrosi, questioni scomode, che fanno arrossire, che non si vogliono dire, che non si possono dire, per l'ipocrisia, per il perbenismo, per il moralismo, per la convenienza, per i ricatti, le minacce, i veti incrociati. Non si può parlare di censura, questo no. Semplicemente non è opportuno che certe faccende diventino di dominio pubblico. Meglio dunque creare degli alibi, dei paraventi, distrarre l'attenzione, prestidigitazionare l'informazione, (cantate con me) «Supercalifragilistichespiralidoso, questo Minzolini è un giornalista un po' fazioso...»

Per esempio, prendete l'Egitto. Ora, sono certo che saprete che tutte le manifestazioni, le agitazioni, le sommosse, i disordini di questi giorni sono una sollevazione popolare contro il regime di Mubārak. E in ultima analisi non c'è alcun dubbio che sia così. Ma sapete perché? Qual è stato il detonatore che ha fatto scoppiare questa rivendicazione epocale? Perché dopo tutti questi anni di potere, la gente ha cominciato solo ora a manifestare pubblicamente, in massa, con coraggio e passione, orgoglio e forza, il suo disappunto e la sua voglia irrevocabile di cambiamento? Qual è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso e che non viene sbandierata sui media internazionali? Quella che ha fatto decidere ai cittadini di superare la dissonanza cognitiva di aver dato per anni il loro appoggio (o almeno la loro indifferenza) a un simile personaggio e di scaricare una volta per sempre il loro leader? La scintilla che li ha spinti a scendere in piazza a milioni, a oltranza, superando le partigianerie degli steccati politici, ma animati da un ritrovato orgoglio nazionale comune, persino contro i cannoni dei carri armati, per togliersi dalle scatole un vecchio ormai logoro e imbarazzante, che occupa il Palazzo solo per nutrire la sua dipendenza dall'esercizio del potere, la gratificante abitudine all'abuso di esso, l'affermazione e la tutela di se stesso, la distribuzione di privilegi economici e finanziari alla propria lobby e il sollazzo indiscriminato dei propri istinti. Insomma, che cosa non è stato veramente più accettabile agli occhi degli egiziani?

Dunque nemmeno voi sapete che tutto è iniziato per colpa della nipote di Mubārak?

[credits: la foto è tratta da Repubblica.it]

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