Punti di vista da un altro pianeta

venerdì 30 gennaio 2015

Un poliziesco senza poliziotti

Nelle librerie non sai mai quello che ti capita, generalmente in positivo (a meno che uno non venga travolto dal crollo della pila di copie dell'ultima fatica di Fabio Volo). È per questo che sono una delle cose belle della vita. Ed è questo che rende la loro esistenza (sopravvivenza) necessaria. Così capita che entri pensando di comprare qualcosa e ne esci comprando tutt'altro. Mi è capitato non molto tempo fa con il libro che vedete qui a fianco. I diabolici. Un edizione Adelphi dalla consueta eleganza. Bella copertina nera, che ben si addice al titolo e che, da sola, è bastata ad attirare la mia attenzione. E il nome di un autore, tal Boileau-Narcejac, che non avevo mai visto, né sentito prima (e io sono uno che le librerie le bazzica parecchio, sia quelle reali, che quelle online).

Ovviamente gli ho subito dato un'occhiata più da vicino per scoprire che il romanzo è del 1952 e che Boileau-Narcejac non è un autore dallo strano nome, bensì una coppia di scrittori francesi, Pierre Boileau e Thomas Narcejac, autori in coppia di numerosi romanzi gialli/noir tra il 1951 e il 1991 tra cui anche La donna che visse due volte (1954), reso celeberrimo dalla trasposizione cinematografica di Alfred Hitchcock. I diabolici è solo la loro seconda prova narrativa e dimostra una vivacità e un intensità non comuni. Insomma, alla fine mi è rimasto attaccato alle mani e me lo sono portato a casa.

Tecnicamente siamo più nella zona del noir che del giallo, giacché non c'è di mezzo un'indagine vera e propria e il punto di vista della storia è quello di chi il delitto lo compie, non di chi cerca di individuarne il responsabile, e questo lo rende forse uno tra gli esempi capostipiti del genere, per lo meno in ambito europeo. Il soggetto è quello del classico triangolo amoroso: lui, lei, l'altra, con annesso delitto e relative complicazioni, ma gli autori riescono a sviluppare il racconto in un modo che ancora oggi, benché ormai assai avvezzi a situazioni del genere, risulta interessante e dunque non soffre degli abbondanti sessant'anni che ha sulle spalle.

La cosa migliore è l'atmosfera, sospesa e rarefatta come un'ombra nella nebbia di un porto francese, capace di creare una rete di tensione fin dalle prime righe e mantenerla, serrata, fino al termine, grazie anche a un bel colpo di scena centrale la cui miccia resta ben celata fino alla sua esplosione e che stravolge completamente la prospettiva della seconda parte del libro facendolo in questo modo correre verso l'epilogo. Chi, come il sottoscritto, conosce piuttosto bene la narrativa di Simenon, vi ritroverà echi precisi. La semplicità della scrittura e del soggetto, l'ambientazione della Francia provinciale, la storia di un uomo improvvisamente travolto (quasi) suo malgrado dagli eventi e dalle scelte della vita, al punto che solo le biografie fanno pensare che siano stati più Boileau e Narcejac ad avere un debito nei confronti di Simenon che non il viceversa.

Eppure, almeno in questo caso, Boileau e Narcejac a mio avviso riescono a spingersi leggermente oltre rispetto al loro più illustre collega, in una storia ormai classica, ma che resta modernissima ed esemplare, per efferatezza, torbidità e passione.

L'incipit è un gioiellino:

«Fernand, ti supplico, smettila di camminare!»
Ravinel si fermò davanti alla finestra e scostò la tenda. La nebbia s'infittiva. Virava al giallo attorno ai lampioni che rischiaravano il molo, al verdastro sotto quelli a gas della strada. Ora si addensava in grosse volute, in pesanti masse di vapore, ora si trasformava in un pulviscolo acquoso, una pioggerellina sottile, fatta di minuscole gocce che brillavano come sospese. Attraverso i pohi squarci limpidi si intravedeva il castello di prua dello
Smoelen con i suoi oblò illuminati. Quando Ravinel non si muoveva, sentiva arrivare, a ondate, la musica di un grammofono. Si capiva che era un grammofono perché ogni brano durava circa tre minuti. Poi c'era un breve momento di silenzio. Il tempo di girare il disco. E la musica ricominciava. Veniva dal cargo.

I diabolici, di Boileau-Narcejac (Celle qui n'était plus, 1952) - Adelphi, 2014 - 173 pagg. - 16,00€

giovedì 29 gennaio 2015

A cosa serve (davvero) il Giorno della Memoria?

Me lo sono chiesto ieri mentre scrivevo le brevi considerazioni che forse avrete avuto la bontà di leggere, e rispondevo ai commenti ricevuti. Quindi non parliamo di rendere un semplice omaggio alle vittime. Bella cosa e nobile e importante, certamente. Ma, perdonate la franchezza, inutile, dove inutile vuole esplicitare per contrapposizione un senso di utilità reale. Una commemorazione funebre, dove si depongono candele e corone di fiori, si prega e si dedica il proprio tempo e il proprio pensiero agli scomparsi, serve a chi partecipa per cercare di accettare una perdita, elaborare un lutto, fare i conti con un dramma terribile, provare a digerire un dolore impossibile, cercare di comprendere l'incomprensibile. A 70 anni di distanza, tutto questo ormai fa parte della Storia, non ce n'è più veramente bisogno e quando non ce n'è veramente bisogno si rischia troppo facilmente di sconfinare negli stucchevoli territori della retorica.

Non parliamo dunque neanche di cercare di mitigare il peso tombale sulle coscienze di un Europa che forse ancora si sente ferita e in colpa per i milioni di vittime della Seconda Guerra Mondiale che non ha saputo evitare o (almeno) limitare. Né ci riferiamo all'esercizio mediatico della retorica (di nuovo lei) e della presunzione dei politici di usare a loro uso e consumo il Giorno della Memoria per mostrare a tutti quanto sono bravi e saggi mentre gridano dentro le selve di microfoni il loro: "Mai più", come una triste vetrina in liquidazione.

Del resto chiunque alla domanda "a che cosa serve?" risponderà che ricordare quella terribile esperienza storica serve per tenere alta la guardia delle nostre coscienze e fare in modo che in futuro una cosa del genere non accada più (il 'mai' è pleonastico e lo lascio ai politici), perché per queste cose serve l'empatia e non basta la simpatia. Ma come? Come si fa a fare in modo che non accada più, se sei un operaio in cassa integrazione che non arriva a fine mese? Se sei una studentessa disoccupata che sbarca il lunario facendo volantinaggio? Se sei un impiegato qualunque, un co.co.co., una maestra di scuola, un dentista, un fruttivendolo, un idraulico, un conducente di autobus o un semplice blogger? Come si fa a fare in modo che non accada più, se non conti un cazzo?

Ebbene, almeno due modi per farlo ci sono (ma se ne trovate altri, aggiungeteli voi): [1] quando ti trovi di fronte a una scheda elettorale, evita sempre con la massima cura di apporre croci a favore di chiunque predichi l'intolleranza e si dimostri contro i concetti di solidarietà sociale e accoglienza; [2] coltiva in ogni gesto della tua vita la cultura della tolleranza e del rispetto verso gli altri a 360°, magari anche della gentilezza, e questo significa nei confronti di tutti, ovvero anche e soprattutto di coloro che in qualche modo possono essere oggetto di discriminazioni, anche quelle (solo apparentemente) più innocue, anche quelle veniali, che non ti sembrano tali. Non mi metto qui ad elencarle. Ognuno – se vuole – abbia l'umiltà e il coraggio di guardarsi allo specchio e di trovarsele da sé, con franchezza, le piccole e grandi discriminazioni che ognuno esercita, tutti i giorni, con o senza consapevolezza: vi servirà di più che leggere un inutile elenco che in quanto tale non potrà mai essere esaustivo. Solo così, al genocidio prossimo venturo potremo evitare di sentirci dei complici. O, per lo meno, provarci.

mercoledì 28 gennaio 2015

Una memoria selettiva non è una memoria

Ieri era il giorno della memoria, in ricordo della Shoah e dei suoi 6.000.000 di vittime. Eppure quanti sono i genocidi, i massacri, le distruzioni avvenuti dal XX secolo fino a noi, e che avvengono ancora oggi, dei quali, non solo non abbiamo memoria, ma spesso nemmeno la cronaca?

In Armenia, nel 1890 e nel 1915 (quindi in due fasi distinte, sebbene tra loro collegate), vennero uccisi sistematicamente, prima dal sultano Abdul Hamid e poi dal Governo Turco (sotto il regime dei Giovani Turchi), un numero imprecisato di armeni. La cifra più comunemente accettata è intorno a 1.300.000.

In Ucraina, nei primi anni '30 del secolo scorso, il regime di Stalin perpetrò una carestia indotta per indebolire il paese attraverso la collettivizzazione forzata delle aziende agricole e la pratica delle confische alimentari. Viene ricordata col nome di holodomor (dal russo moryty holodom, letteralmente ‘infliggere la morte per fame’). Secondo le stime, in Ucraina morirono circa 6.000.000 di persone.

In Nigeria, durante la guerra civile che si verificò tra il 1967 e il 1970, si stima che morirono circa 2.000.000 di persone di fame e malattie, mentre i profughi furono 3.000.000. La guerra causò anche la progressiva discriminazione del popolo Igbo che li ha resi uno dei gruppi etnici più poveri della pianeta.

In Cambogia, durante l'occupazione del paese dei Khmer rossi tra il 1975 e il 1979, furono sterminati 2.200.000 di cambogiani su una popolazione di 7.700.000 (oltre il 28%!). La fine dello sterminio avvenne in seguito all'invasione della Cambogia da parte del Vietnam, ma non è mai stato istituito alcun tribunale internazionale per rendere giustizia al popolo cambogiano

In Ruanda, nel 1994, in 100 giorni le bande di etnia Hutu si avventarono contro la minoranza Tutsi sterminando più di 500.000 persone. Fa 5.000 persone al giorno. Ma le vittime, nel corso del conflitto, furono ben maggiori (si parla di 800.000/1.000.000).

In Bosnia, a Srebrenica, nel luglio del 1995 si verificò uno dei più sanguinosi massacri avvenuti in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale. Si parla di 8.000 morti, anche se le cifre ufficiose fanno alzare il numero fino a oltre 10.000. Peraltro le vittime in tutto il conflitto furono ben 250.000.

Il Darfur, regione del sud-ovest del Sudan, dal febbraio 2003 è stato devastato da una sanguinosa guerra tra i miliziani arabi (i cosiddetti Janjawid, ossia i "demoni a cavallo"), membri delle tribù nomadi Baggara, e la popolazione non Baggara dedita per lo più all'agricoltura. In Darfur sono morte più di 400.000 persone.

Così, nel Giorno della Memoria, l'Olocausto assume uno spiacevole status speciale, come se il suo genocidio fosse più meritevole di altri di essere ricordato, come se le sue vittime fossero più vittime di tutte quelle citate qui sopra, ma anche più vittime di tutte quelle che non ho citato. Perché infatti non ricordare, per esempio, il genocidio perpetrato dagli americani ai danni degli Indiani d'America? Il punto è che ci sono popoli più degni di altri di essere ricordati. Anche questo è un sintomo del loro potere. Anche questo è marketing.

[La bellissima foto è tratta dal sito Fotosensibile3]

lunedì 26 gennaio 2015

La partecipazione ai tempi di Change.org

Ormai c'è una petizione per tutto. Per abolire la pizza con la rucola, per vietare le automobili nere opache, per chiedere la sparizione di Paola Ferrari da tutti i palinsesti della televisione italiana. La complicità virale dei social network ha diffuso a dismisura le iniziative di siti come Change.org, Avaaz.org, Firmiamo.it, tanto che non c'è giorno in cui non veniamo invitati a sostenere una causa con una firma. Eppure, come in una specie di al lupo al lupo, la moltiplicazione virtualmente infinita delle possibilità di esercitare questa sorta di miraggio di democrazia diretta, fa in modo che vada perduto il senso vero dell'attivismo, dell'impegno e della (reale) partecipazione per cercare di cambiare davvero le cose.

La petizione on-line (in merito a un problema di cui probabilmente non conoscevi l'esistenza fino a un minuto prima) ti illude che basti una firma. Quattro secondi, un clic e hai fatto quello che potevi fare. Ti convince di esserti impegnato in prima persona per migliorare il mondo e in questo senso ti gratifica per aver fatto qualcosa che in realtà non ha comportato alcuno sforzo, nessuna difficoltà e della quale dopo tre secondi ti sarai già dimenticato. Se poi, dopo qualche tempo, ti ricorderai di andare a documentarti sull'esito della petizione (ma non ci andrai), molto probabilmente scoprirai che non ha raggiunto il suo scopo, come succede con la stragrande maggioranza delle petizioni, perché quelle che centrano il bersaglio sono veramente una manciata e spesso il loro successo deriva più dall'autorevolezza di chi le ha proposte, che dalla petizione in sé o dal numero di adesioni raccolte.

Ma se questo modo di intraprendere battaglie personali, politiche e sociali finisce per costituire un innocuo e piacevole tonico per la propria coscienza, la sua inflazione lo depotenzia in maniera preoccupante. E questo non è più tanto innocuo. Perché in questo modo si tende a smarrire il senso dell'importanza delle cause per cui si dovrebbe combattere, attribuendone ad alcune (molta) più di quella che meritano e ad altre (molta) di meno. Così succede che la battaglia per non far chiudere una serie TV cancellata anzitempo finisca sullo stesso piano di quella per evitare la lapidazione di una condannata a morte in Iran e questo fa sì che si passi davanti alla seconda con la stessa reattività con la quale si passa davanti alla prima, perdendo addirittura il senso stesso della battaglia o, almeno, della misura di essa. E quando poi ci sarebbe da fare sentire sul serio la propria voce, il proprio grido, scendendo in piazza, si preferisce invece andare a cercare un comodo link dove scrivere il nostro nome, cliccare e tornare subito, senza perdere altro tempo, sul divano, a sgranocchiare Pringles davanti alla tv. Così se, come diceva Gaber, "la libertà è partecipazione", allora questa partecipazione sarà tutt'altro che libertà.

venerdì 23 gennaio 2015

Locke, ovvero della costruzione (e della distruzione) di una vita

Un uomo. Un auto. Una strada. La notte. La vita. Si può riassumere in questi cinque elementi chiave Locke, bellissimo film, lasciatemi definire ultraminimalista, del regista Steven Knight che ho visto ieri qualche giorno fa con colpevole ritardo (è uscito in Italia nell'aprile dell'anno scorso). Dico ultraminimalista perché la scena è un uomo, solo, che fa un viaggio in auto (non vi svelo il perché). E i novanta minuti di spettacolo si dipanano in tempo quasi reale lungo un percorso di un'ora e mezza e che quindi potrebbe essere un qualsiasi Genova-Milano (in realtà è un Birmingham-Londra). E in questo sta l'assoluta universalità del film, perché il viaggio di Ivan Locke è il viaggio di tutti noi sull'autostrada dell'esistenza.

Il film parte come una scommessa (vinta) nella sua essenza quasi sperimentale. L'azione infatti è pressoché assente. C'è solo un'auto che va, il traffico notturno, le luci come gioielli cuciti nel velluto della notte a volte sfocati di stanchezza e tensione, e poi dissolvenze su fanali, svincoli e periferie industriali, ogni tanto un po' di pioggia inglese, e Ivan Locke, il cui viaggio imprevisto racchiude tutto il senso e le difficoltà di una vita, divisa tra la continua ricerca di realizzazione personale in un buon lavoro (che ci appassioni e in cui credere) e nella costruzione di una famiglia (che si ama e che ci ami), la gestione dei piccoli-grandi drammi di tutti i giorni, gli imprevisti (o gli errori) che, in qualunque momento, possono far crollare quel grattacielo grande e meraviglioso costruito con tanta pazienza e meticolosa passione, e la necessità di un confronto coraggioso e onesto con i fantasmi del passato.

Qui dentro c'è tutto il dramma di Ivan Locke che si districa attraverso una serie di telefonate e qualche monologo ad accompagnare un viaggio da incubo, come un labirinto esistenziale dal quale Locke cerca disperatamente di uscire pur sapendo che, quando lo farà, non sarà più la stessa persona che era salita in macchina. Sono quindi solo voci, in una dimensione quasi teatrale, a fare da contraltare alla maschera stanca, segnata e disperata, ma anche determinata, fiera e risoluta di uno straordinario Tom Hardy (per intendersi l'antagonista Bane de Il cavaliere oscuro - Il ritorno), che ha girato il film in sole otto notti consecutive. Eppure, nonostante questa staticità, la dinamica emotiva del film - anche proprio grazie all'intensità di Hardy e alla sapiente sceneggiatura - è tale che in qualche momento il dramma umano e personale di Locke assume i connotati del thriller.
Alla fine Locke, che già aveva sorpreso il pubblico del Festival del Cinema di Venezia nel 2013, benché presentato fuori concorso, si rivela un film su come solo il coraggio e la responsabilità possono riscattare le nostre fragilità e i nostri sbagli, mettere una pezza alle crepe della nostra anima e non lasciare che tutto rovini al suolo per sempre. Ma quello che con ancora più forza visiva ci dice Locke, è che ogni cosa è sempre, prima di tutto, un confronto con se stessi e che di fronte ai veri drammi della vita si è sempre come un autista nella notte. Inequivocabilmente e irrimediabilmente soli.

mercoledì 21 gennaio 2015

Una cosa o due sul finale di True Detective

Non starò certo qui ad accodarmi (con colpevole ritardo) al coro pressoché unanime dei magnificanti di questa splendida serie TV, una serie notevolissima per intensità, scrittura, interpretazioni, messa in scena, musiche ecc. ecc. Voglio soltanto dire qualcosa circa il finale che, invero da più parti, è stato l'unico aspetto criticato della serie come un insopportabile tradimento rispetto a tutto quanto s'era visto prima.

Insomma, che il cinico e nichilista Cohle alla fine salvi la pelle, che quando sta rischiando di morire abbia la visione della figlia morta quasi fosse una specie di risposta (divina o inconscia) al suo meraviglioso e sprezzante monologo a margine della tenda della Chiesa Evangelica (nell'episodio 3), che alla fine i due protagonisti – nonostante i loro trascorsi anche parecchio burrascosi – se ne vadano via insieme (abbracciati) dall'ospedale, che proprio all'ultimo lo stesso Cohle affermi che una volta c'era solo il buio, ma adesso "Secondo me, la luce sta vincendo", sono tutti segni inequivocabili di un happy end che effettivamente ribalta, e di molto, la visione espressa da Nic Pizzolatto, autore della serie, fino a quel momento. Tutti noi spettatori eravamo convinti che Cohle, a caccia del killer con quella camicia impeccabilmente bianca, icona perfetta per essere inzuppata di sangue, ci avrebbe lasciato la pelle, laggiù negli oscuri meandri di Carcosa. E invece no. Secondo me invece il finale funziona, anzi, è perfetto che True Detective termini così.

Dove sta infatti il problema della mancanza di coerenza? Che fastidio dà il finale così com'è? Ebbene, il pregio di questo finale è la sua realtà e la sua umanità, perché per sua natura l'uomo (e anche il marziano) difetta di coerenza e non è detto che questo sia un male, tutt'altro. Perché la vita è un'esperienza vera solo se porta a una mancanza di coerenza, nella misura in cui l'esperienza modifica la visione delle persone, la evolve e (si spera) la migliora. Forse è questo il suo stesso scopo, della vita intendo, se avete proprio bisogno di cercarne uno. E di certo costituisce uno dei cardini della scrittura cinematografica: il percorso del personaggio che, alla fine della vicenda narrata, non è uguale a come lo avevamo visto all'inizio. E in tutto questo acquista molto senso il fatto che, passato indenne attraverso sofferenze come quelle che Nic Pizzolatto ci ha raccontato, Cohle sia progredito e abbia trovato una scintilla, proprio come la luce di una stella nel buio, qualcosa che lo aiuti a dire che, comunque sia, comunque vada a finire, vale la pena provarci perché le nostre azioni non sono (del tutto) inutili. In fondo è quello di cui tutti abbiamo (disperatamente) bisogno. Si chiama speranza.

lunedì 19 gennaio 2015

La meravigliosa uguaglianza della cacca

The Daily Duty, il dovere (si spera) quotidiano, è l'ultimo progetto con cui l'artista cagliaritana Cristina “Krydy” Guggeri, sta facendo parlare di sé. E in questo caso il suo lavoro è stata una vera e propria bomba in giro per il web, capace di sorprendere, ma anche di far riflettere e discutere, come nei casi migliori l'arte sa fare. Ritrarre i potenti del mondo nel momento più naturale della loro vita quotidiana, è infatti qualcosa di genialmente provocatorio, un po' perché Guggeri lo ha fatto attraverso la realizzazione di strabilianti lavori artistici, intensi ed espressivi, ma anche perché con le sue istantanee riporta nella giusta prospettiva il modo con cui siamo abituati a rapportarci col potere.


Vedere questi personaggi seduti su troni ceramici con le braghe o le calze calate, invece che sui loro consueti scranni vellutati (reali o metaforici), li spoglia innanzitutto di qualsiasi loro attributo di specialità, mettendoli sullo stesso piano di tutti gli esseri viventi come solo la morte sa fare (Totò la chiamava la livella), e secondariamente ci ricorda che il potere non esiste di per sé, ma è solo qualcosa che viene attribuito, tramandato, preso (e anche, si spera, tolto), ma resta comunque una sovrastruttura squisitamente umana.


Infine, a partire dalla considerazione laterale che la loro merda puzza e fa schifo tanto quanto la nostra, Guggeri ricorda che Il dovere quotidiano dei potenti dovrebbe essere quello di servire il popolo che defeca esattamente come loro e di tenere la merda e la puzza esclusivamente nell'ambito dei loro gabinetti.

sabato 17 gennaio 2015

Greta, Vanessa, i media e noi

In tutta questa storia Greta e Vanessa hanno due difetti terribili. Il primo è la loro giovanissima età. E su questo non ci sono dubbi, visto che hanno rispettivamente 20 e 21 anni. Il secondo, peraltro in parte diretta conseguenza dal primo, è la faccia. Proprio lei. Quella cosa che, a noi che siamo totalmente al di fuori della loro vicenda e ce ne facciamo un'idea solo attraverso i più svariati mezzi di comunicazione, ci trasmette due espressioni che, in fatto di volontariato, te le immagineresti più dietro il banco della lotteria di beneficienza della Festa Parrocchiale di Sant'Agata, che in Siria a un tiro di kalashnikov da un manipolo di mujaheddin con le barbe cespugliose e le cartucciere incrociate sul petto.

Mi riferisco alle loro immagini prima della prigionia, quelle che i media ci stanno propinando a sottolineare retoricamente il pauroso divario rispetto a come le stiamo vedendo in queste ore, dopo la prigionia, devastate nell'anima e nel corpo dai mesi di un terrore consumato nella terribile incertezza dell'esito finale. Ma di questo loro non hanno nessuna colpa. Sono giovani e forse, sì, anche un po' naïf. Sono così, Greta e Vanessa. O meglio, ce le stanno facendo vedere così. Ed è un attimo costruirsi l'immagine di due idealiste (forse) un po' sprovvedute, o (forse) un po' incoscienti, o (forse, chissà) nessuna delle due cose, perché nessuno di noi le conosce sul serio. I media costruiscono l'immagine mentale che noi abbiamo di loro.

Ed è da qui, da questa immagine irreale e dalla nostra percezione derivata, che è partita la polemica piuttosto spiacevole che ruota per lo più intorno al vociferato riscatto (12.000.000€?) sborsato per la loro liberazione. Del resto la cifra non importa, in quanto in certi frangenti la libertà non è (mai) gratis, non può esserlo, né è quasi mai come nei film, quando si finisce con il classico scambio di prigionieri e tutti a casa felici e contenti. Insomma, potete stare certi che non le hanno rimandate a casa perché puzzavano. Detto questo, perché a molti questa cosa non va bene? Perché quei soldi sono nostri soldi? Nell'ipotesi (ragionevole) dei 12.000.000€, se gli italiani sono 60.000.000, significa che ciascuno di noi avrebbe sborsato 10 cent per ciascuna di loro. È da molto ormai che con 10 cent non ci compri neanche un rotolo di carta igienica. Non li vale forse 10 cent una vita?

Poi però c'è la storia di quanta gente verrà ammazzata con le armi che i terroristi si compreranno con quei soldi. Vero. E poi c'è anche la faccenda della sicurezza degli altri italiani in giro per il mondo, visto che adesso lo Stato italiano si sarà fatto la reputazione di ottimo finanziatore di terroristi. Vero anche questo. È per questo che ci sono nazioni che non pagano mai, in nessun caso (o almeno così dicono). Ma queste sono scelte, badate bene, politiche. Non c'entrano alcunché con la solidarietà, né con l'umanità. Il punto, semmai, è che forse non doveva essere loro consentito di andare. Forse, meglio, non dovrebbe essere consentito a ONG prive di adeguate strutture locali (anche di sicurezza) di operare in posti così esplicitamente a rischio. Ma anche di questo, noi da qui sappiamo ben poco e non è facile farsi un’idea che si avvicini al vero. Quindi è facile sputare sentenze a vanvera. C'è però un'altra cosa che mi tormenta, a proposito di tutto il bailamme che ne sta venendo fuori in queste ore, come una specie di linciaggio mediatico.

Se invece di Greta e Vanessa si fossero chiamate Mario e Giuseppe, sarebbe successo lo stesso?

venerdì 16 gennaio 2015

La dura legge di Bergoglio (una specie di telefonata)

Pronto, Francesco? Mi permetti di chiamarti così? Ecco, se ho ben capito, in pratica, stando a quello che hai detto oggi, se un amico offende mia mamma, è lecito che si aspetti da me un pugno. Giusto? Quindi, in base a questo, è altrettanto lecito che, in un frangente del genere, io glielo dia, un pugno. È così? Quindi un pugno in faccia va bene. Ottimo. Sai, tanto per sapere... Non vorrei che, se le dà della puttana, va bene la faccia, ma se le dà della stronza, devo invece limitarmi alla pancia, ecco.

Quindi, insomma, mi confermi che tutte quelle storie lì, di "ama il prossimo tuo", di "non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te", dell'"altra guancia", eccetera, le possiamo considerare roba vecchia, obsoleta, come le musicassette e i televisori a tubo catodico. No, per essere sicuro, perché sai, così, anche la questione della difesa proporzionata all'offesa, fondamento della filosofia del diritto a partire dalla Legge del Taglione, non è che ci fa proprio una buona figura e non vorrei poi dover venire a confessarmi.

Ah, scusa, un'ultima cosa: ma sei sicuro che 'sta faccenda valga solo per gli amici? Non è che vale anche per i conoscenti?

mercoledì 14 gennaio 2015

Satira, democrazia e giornalisti in minigonna

Se vale il principio che la libertà di qualcuno finisce dove inizia quella di qualcun altro, la libertà di espressione della satira dove finisce? Qual è il suo limite? Ne ha uno? Lo deve avere? O forse, meglio, lo può avere? L'impressione mia è che la risposta sia no. A vedere certe vignette di Charlie Hebdo sembra che il limite non esista, almeno nella misura in cui l'offesa o la volgarità vengono messe a servizio di quello che è da sempre il fine principale della satira: attaccare le espressioni del potere (soprattutto politico e religioso). A questo punto l'unico pericolo che può rendere la satira spazzatura, è che sia inefficace.

Ma la forza della satira, la sua veemenza, la sua esplosività, non possono prescindere dalla percezione che l'oggetto rappresentato (ovvero chi in qualche modo se ne sente coinvolto) ha di essa. È il caso per esempio del dogma islamico dell'iconoclastia, molto radicato e sentito tra i musulmani, riferendosi all'irrappresentabilità non solo di Maometto e Allah, ma anche di ogni figura umana che possa essere oggetto di venerazione, contro cui va Charlie Hebdo ogni volta che pubblica una vignetta che raffiguri Maometto.

Dunque la domanda è: in nome della libertà di espressione, i giornalisti di Charlie Hebdo hanno superato (o superano) il limite? In che modo Charlie Hebdo e tutti i giornali di satira possono trovare giustificazione al loro superare i limiti? Qual è il principio - se non giurisprudenziale, per lo meno razionale - per cui non possono essere accusati, per esempio, di vilipendio contro le religioni? Che cosa salva la satira? La risposta è semplice: la sua indipendenza, ovvero il fatto che la satira sia davvero libera da ogni condizionamento e ogni altro fine, se non quello di smascherare i vizi del potere. Non questo potere o quel potere: tutti i poteri.

Perché la vera satira non è comparativa, non fa preferenze, è questa la sua prerogativa più nobile. E finché sulle copertine di Charlie Hebdo come del Vernacoliere troveremo Cattolicesimo, Islam ed Ebraismo, non per mettere in ridicolo le religioni in quanto tali, ma per caricaturare le loro umane storture, amplificarle e metterle, nude, di fronte agli occhi dei lettori, la satira troverà nell'esercizio della sua indiscriminata libertà, il limite (necessario) alla sua stessa libertà. Del resto pensare che quelli di Charlie Hebdo se la siano cercata, è come dire che se una donna esce in minigonna e tacchi a spillo non si deve lamentare se viene stuprata.

martedì 13 gennaio 2015

Tutto è perdonato

Un'immagine forte, ma anche delicata. Profonda, ma anche toccante. Il tutto senza un briciolo di retorica. Questo è genio. Puro. E chi avrà l'ottusità di condannarla come blasfema e provocatoria, dimostrerà come le religioni addormentino la ragione, creando mostri.

lunedì 12 gennaio 2015

L'uomo di Marte

Con un titolo della versione originale come The Martian, potevo forse esimermi dal parlare di questo romanzo?! Ma non è solo questo. Opera prima di Andy Weir, giovane informatico americano con una grandissima passione per l'astronautica, The Martian è stato infatti il clamoroso caso editoriale (americano) dello scorso anno. E la sua ascesa acquista i connotati di un'impresa se si considera che Weir, da autentico esordiente sconosciuto, nel 2011 prima ha messo il romanzo a puntate sul suo sito, dopodiché su richiesta dei fan, ha autopubblicato il romanzo su Amazon al prezzo minimo possibile (0,99$) e su questa piattaforma come ebook ha venduto la bellezza di 35.000 copie in tre mesi. Dopodiché, a inizio 2013, Weir ha trovato un editore per la versione in audiolibro del romanzo e dopo pochi mesi per quella cartacea, venduta - sembra - per una somma a sei cifre (a quel punto non dev'essere stato troppo difficile). Ma Weir è andato oltre e, in men che non si dica, ha venduto anche i diritti cinematografici del romanzo addirittura a Ridley Scott, il quale ha messo il progetto sul cosiddetto fast track (e pensare che ci sono autori assai più titolati che ci mettono decenni ad approdare sul grande schermo, vedi ad esempio Joe R. Lansdale) e già l'anno prossimo il film vedrà la luce delle sale cinematografiche con un cast davvero marziano (Matt Damon, Jessica Chastain, Jeff Daniels, Sean Bean e Chiwetel Ejiofor). Insomma, con questo romanzo Andy Weir ha pescato il jolly. E prova ne è anche il fatto che in Italia, dove la fantascienza fa una fatica boia ad approdare, il romanzo è stato acquisito quasi subito, ancorché da una casa editrice non specializzata ma di grande visibilità come Newton Compton, la quale l'ha affidato a un traduttore di provata esperienza ed eccelse referenze come Tullio Dobner (il traduttore storico di Stephen King, tanto per dirne una - anche se in questo caso sono d'accordo con chi gli contesta un'eccessiva morbidezza dei toni, soprattutto all'inizio, in cui la versione originale del romanzo risulta molto più "volgare"), e lo sta spingendo ovunque a un prezzo stracciato. Ma, insomma, com'è questo libro? Vale davvero tutta la fama che si porta dietro? La risposta, secondo me, è ni. Ma andiamo con ordine.

In copertina Newton Compton ne riassume la vicenda come "Gravity (che) incontra Robinson Crusoe". Ecco, diciamo che non è del tutto falso, anche se piuttosto che Gravity si sarebbe dovuto citare MacGyver (se non sapete cos'è MacGyver, significa che siete troppo giovani e dovete cliccare sul link). Per contro di Gravity c'è soltanto un ambientazione spaziale ricostruita con ottima perizia, ancorché in questo caso ci troviamo su Marte e non in orbita intorno alla Terra, e una storia di sopravvivenza in condizioni estreme. Su Robinson Crusoe c'è invece poco da dire: è un naufrago e i naufraghi devono cercare di sopravvivere (per restare in tema cinematografico potevano citare Cast Away). Così, per una situazione imprevista, l'astronauta Mark Watney si ritrova abbandonato su Marte dai suoi compagni e deve cercare di sopravvivere, da solo, esclusivamente con quello che ha a disposizione. Quindi non aspettatevi alieni o altre stranezze. L'uomo di Marte è un ingegnere e un botanico e il romanzo non si allontana di una virgola dalla più fredda scienza e tecnica che il protagonista cerca di applicare con un po' fantasia, ma con rigore, per cercare di portare a casa la pelle.

Dunque non siamo proprio nei territori della più sfrenata immaginazione e originalità, ma la scintilla che rende il romanzo degno di attenzione è l'approccio severamente tecnico al tema. Il taglio che Weir dà al romanzo è infatti scientifico al massimo grado - e in questo la preparazione dell'autore riesce a dare un'eccezionale credibilità alla narrazione - mentre la modalità del racconto è quella di un diario personale lasciato a eventuali posteri che dovessero trovarlo, qualora lui non se la cavasse e nel quale il protagonista racconta in prima persona la propria situazione e descrive, per filo e per segno, come cerca di cavarsela, superando un problema dopo l'altro. Eppure, se la rigorosa narrazione tecnica è il vero aspetto peculiare del libro, la sua esclusività ne è anche il suo più grande limite. Il protagonista infatti si ritrova ad affrontare tutta una serie di problemi e il diario si sofferma a raccontare (quasi esclusivamente) ciascuno di essi e come l'astronauta lo risolve. Giochino piuttosto curioso e interessante all'inizio, senza dubbio, ma sulla medio-lunga distanza diventa stucchevole e fa decisamente perdere interesse al punto che si ha più l'impressione di essere di fronte a un manuale tecnico di sopravvivenza (per giunta per una situazione in cui il lettore mai si troverà), piuttosto che a un'opera letteraria. Anche perché le incursioni non tecniche nel diario, quelle personali, quelle umane, quelle intime, quelle che potrebbero conferire spessore al personaggio, suggerire al lettore empatia ed emozione, e rendere così maggiormente credibile (e interessante) un diario di questo genere, sono davvero poche e banali e non riescono a togliere bidimensionalità alla figura del protagonista. E il tentativo di essere spiritoso non basta, anzi spesso sortisce l'effetto opposto (per lo meno nella versione italiana, ma questi sono aspetti in cui la traduzione può aver giocato a sfavore).

Altra scelta che non mi è piaciuta, anche se ne capisco la funzione nel contesto, è quello di rinunciare alla coerenza strutturale del diario, e passare di tanto in tanto a una narrazione in terza persona incentrata su altri punti di vista come i personaggi della NASA sulla Terra e i suoi compagni che lo hanno abbandonato sul Pianeta Rosso e che sono in viaggio verso casa, tutti che - naturalmente - contribuiscono a cercare di trovare un modo per salvare la vita al protagonista. Avendo Weir deciso di scrivere il romanzo sotto forma di diario, avrei apprezzato maggiormente che ne avesse mantenuto la struttura fino in fondo. Questo avrebbe dato maggior personalità e originalità al testo. Ma forse, da esordiente, Weir ha avuto timore di non riuscire a tenere una narrazione tesa e proficua fino in fondo dal solo punto di vista diaristico, decisamente più difficile da gestire. Infine, nonostante un finale che non vi svelo, ma che concede un po' troppo al clichè della spettacolarità cinematografica, ma che confesso ho letto con rinnovato piacere dopo una parte centrale che mi ha annoiato per i motivi già esposti, avrei decisamente dato alle fiamme l'ultimissima pagina, ingenua e moraleggiante, disgustosamente politically correct.

Nel complesso, dunque, mi sento di affermare che L'uomo di Marte è un romanzo discreto, che a seconda di come si prendono i tecnicismi davvero eccessivi (ovvero da quanto è il grado geek del lettore) può risultare più o meno gradevole. Ma in ogni caso siamo abbastanza distanti da qualcosa di veramente eccezionale. Qualcuno, oltre che a Gravity, ha voluto paragonarlo ad Apollo 13 per rigore scientifico e per una vicenda di sopravvivenza nello spazio, una sopravvivenza inevitabilmente legata alla capacità dell'uomo di saper padroneggiare scienza e tecnologia, e per questo ritiene che L'uomo di Marte abbia le potenzialità per essere un ottimo film. Ebbene, certo, non si può dire che non ci siano similitudini, ma al di là di quello che sarà capace di fare Ridley Scott (scostandosi eventualmente - e sperabilmente - dal romanzo), Apollo 13 aveva dalla sua qualcosa che L'uomo di Marte non ha. Qualcosa di cui ogni spettatore di Apollo 13 era consapevole prima di iniziarne la visione. Come una lente amplificatrice di interesse ed emozioni posta di fronte agli occhi e al cuore. Qualcosa su cui L'uomo di Marte non potrà contare. La forza della vita vera, la potenza della biografia.

L'incipit.

Giornale di bordo: Sol 6

Sono spacciato di brutto.
Questa è la mia ponderata valutazione.
Spacciato.
Sono passati solo sei giorni dall'inizio di quelli che sarebbero dovuti essere i più gloriosi due mesi della mia vita e sono finito in un incubo.
Non so nemmeno chi leggerà questo diario. Immagino che prima o poi qualcuno lo troverà. Magari di qui a cent'anni.
Per la cronaca... Non sono morto a Sol 6. Così crede senza dubbio il resto dell'equipaggio e non posso biasimarli. Forse decreteranno una giornata di lutto nazionale in mia memoria e sulla mia pagina di Wikipedia ci sarà scritto: "Mark Watney è l'unico essere umano morto su Marte".


L'uomo di Marte, di Andy Weir (2013 - Newton Compton Editori, trad. Tullio Dobner, 379 pagg., 9,90€)

PS: Il Sol è il nome del giorno marziano.

venerdì 9 gennaio 2015

Il complotto come mitologia del male

Quando accadono cose troppo brutte per essere vere, è allora che scatta puntuale l'ipotesi di complotto. Perché il complotto consola, il complotto giustifica, la natura maligna e perversa del complotto riesce in qualche modo a darci ragione di cose che altrimenti faremmo fatica a disciplinare. Perché il complotto è prima di tutto un antidoto a una realtà che stordisce da quanto è brutta, una realtà che fa schifo, che fa vomitare, che fa orrore, che avvelena. Per questo c'è il complotto, perché non si può credere di fare parte di quella stessa realtà. Dunque si genera una finzione, il complotto, uno spazio cognitivo consolatorio in cui l'orrore sta su un piano diverso, più credibile, in qualche modo più accettabile, forse anche perché inevitabile. Ma soprattutto, il complotto conferisce una giustificazione e una complessità al male che nello stesso tempo ci allontana e ci separa da esso. Invece il male è stupido, il male è noioso, il male è molto più banale e prosaico di quanto si possa immaginare. Proprio come la vita di tutti noi.

giovedì 8 gennaio 2015

Charlie Hebdo, ovvero della penna e della spada

A Parigi tre musulmani irrompono nella redazione di Charlie Hebdo armati fino ai denti e fanno una strage. Il motivo? Per qualcosa che è stato scritto, ovvero perché qualcuno, con l'inchiostro, ha impresso su della carta qualcosa che da qualcun altro è ritenuto offensivo. Ora non ci vuole un politologo, sociologo, antropologo, ecc, ma basta un semplice marziano, per affermare che si tratta di un'azione orrenda, sintomo di un oscurantismo civile, culturale e morale, che solo un barbaro estremismo religioso può inculcare nei suoi adepti. Tuttavia si può fare qualche breve considerazione che vada oltre il solo problema del diritto alla libertà di espressione contro cui si pongono azioni di stampo nazista come questa.

Partiamo proprio dal concetto di offensivo. In linea generale non è detto sia semplice definire il punto in cui si situa il confine tra "rispetto" e "offesa", sebbene nel caso dell'Islam questo sia invero abbastanza chiaro, per lo meno circa il divieto delle rappresentazione delle icone sacre. Ma a questo la religione non interessa, perché la religione decide. È infatti prerogativa della religione assolvere la funzione morale nella comunità e dunque ergersi nel contempo a Legge e Giudice e nel fare questo la religione, nella sua divina presunzione di possedere la Verità, non si pone mai il problema di discriminare i destinatari del suo messaggio, chi crede e chi no. Dunque succede che la religione cerchi di imporre sempre e comunque il rispetto della sua propria morale ovunque a chiunque. Ma se per chi crede e si identifica con quei principi morali ciò è legittimo, anzi "naturale", perché dovrebbe esserlo per chi crede, ma non si identifica appieno coi principi morali, oppure per l'infedele che non crede affatto o crede ad altro?

Ma il peccato, ovvero la trasgressione del principio morale, non dovrebbe essere qualcosa che mette esclusivamente le azioni del singolo a confronto con i suoi propri principi morali (quelli in cui crede)? Dove sta il diritto dell'ortodosso di ergersi a giudice delle azioni altrui? Non dovrebbero forse le azioni impure dell'infedele costituire di per se stesse già una condanna all'inferno senza il bisogno di ulteriori scomuniche o efferate giustizie sommarie? Eppure, armi a parte, non è forse questo lo stesso modo di porsi che la Chiesa Cattolica ha nei confronti degli omosessuali, dei divorziati, di chi vuole abortire o di chi desidera procreare con la fecondazione eterologa? Non è forse lo stesso principio dell'imposizione indiscriminata di una morale, nonostante quella supposta trasgressione non tolga alcunché a chi cerca di imporla?

Lo so, direte voi, ma quelli se ne vanno in giro ad ammazzare la gente, i preti no (anche se ci sono state delle vignette non proprio leggere come questa quassù, sui preti pedofili)! Ebbene, se una volta si diceva che ne ferisce più la penna della spada, questo è senza dubbio un elemento a merito di chi scrive e disegna, e in questo modo combatte per la libertà, ma è anche un modo per dire che nella sua depravata attitudine di ergersi a giudice e a guida morale anche nei confronti di tutti, per sua natura la religione impartisce sofferenze indicibili, capaci di straziare delle vite, con proiettili e parole.

Il marziano è tornato.

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