Punti di vista da un altro pianeta

venerdì 24 giugno 2011

Dentro il fuoco della storia

Si capisce subito, fin dalle primissime righe, che ci si trova a che fare con qualcosa di ambizioso. Perché non è da tutti avere il coraggio di cimentarsi - e di portarlo avanti per quasi 50 pagine - con quello che avrebbe potuto essere il modo di articolare il pensiero e il linguaggio di un uomo del neolitico. E soprattutto aprirci un romanzo, mettendo così il lettore subito di fronte a un alto muro (invero anche un po' scivoloso) da scavalcare. Ma chi conosce Alan Moore sa che non è il tipo che si metta in gioco per una cosuccia da poco e che in genere alla fine ne vale la pena. Quindi bisogna non farsi scoraggiare e andare avanti. Si verrà ripagati.

Chi conosce Alan Moore, poi, non è detto che sappia che, uno dei più grandi autori di fumetti degli ultimi abbondanti trent'anni, ha scritto anche un romanzo. Che poi, l'avrete già intuito, non è un romanzo secondo i canoni. E avrebbe potuto esserlo, forse, con di mezzo uno che ha tirato fuori opere come V per Vendetta e From Hell, che per la trasposizione cinematografica del suo capolavoro Watchmen, pare non abbia voluto un quattrino, né i credits riconosciuti sullo schermo, e che al suo quarantesimo compleanno si è autoproclamato "mago"? La voce del fuoco rispecchia in tutto e per tutto l'unicità e la complessità del suo creatore e per questo leggerlo diventa un'esperienza che va oltre la semplice fiction, perché guardandosi indietro, a lettura ultimata, ci si ritrova di fronte a un quadro vertiginoso, una commistione tra immaginazione e storia, leggenda e realtà, narrazione e cronaca, un mosaico che suggerisce molto più di quello che dicono le sue tessere, dove tutti gli elementi si fondono per donare al lettore una percezione superiore (e inedita) di quella che è la storia dell'uomo.

Perché ne La voce del fuoco il protagonista non è un essere vivente, bensì è un luogo: Northampton, dove Moore è nato e vive e di cui nel romanzo viene percorsa la storia dal 4000 a.C. fino alla fine del XX secolo, attraverso il racconto di vicende umane, spesso truci e violente, quasi sempre in qualche modo collegate tra loro, anche solo per un sottile, labile accidente come una lunga lingua di fuoco. Così se le strade, le architetture e le vestigia di Northampton testimoniano il suo lungo percorso dentro la storia, i personaggi che l'hanno abitata e vissuta e in qualche modificata nelle varie epoche (ragazzini preistorici e soldati romani, streghe e cavalieri templari, teste mozzate e giudici un po' troppo arzilli), secondo la narrazione di Moore ne costituiscono una sorta di anima immortale universale, in una storia che attraverso il tempo diventa mito e il mito, attraverso l'evocazione di una scrittura mirabile e miracolosa come una formula magica, diventa racconto.

Se poi uno di voi vuole sapere esplicitamente «di che parla 'sto libro», è facile rispondere, poiché si può lasciare la parola direttamente a Mr. Moore che, nell'ultimo capitolo, dedicato alla contemporaneità raccontata proprio in prima persona dall'autore, risponde alla stessa domanda posta da suo fratello:
"Parla del messaggio essenziale che le labbra irrigidite di chi è stato decapitato riescono ancora ad articolare, del documento che cani neri spettrali hanno scritto col loro piscio sui nostri sogni peggiori. Parla dell'arte di resuscitare i morti per farci rivelare quello che sanno. È un ponte, una zona di passaggio, un punto logoro nel velo che separa il nostro mondo dagli inferi, tra i mattoni e il mito, tra la verità e la finzione, una garza sdrucita non più spessa di una pagina. Racconta quanto sia potente la glossolalia delle streghe, rivela la grande revisione magica che esse hanno operato sui testi in cui noi ora viviamo. Ma non sono cose che si possano dire a voce."
Bisogna leggerle.

La voce del fuoco, di Alan Moore (Edizioni BD).

martedì 21 giugno 2011

Una secessione (verde) non si nega a nessuno

No, dico, allora fateli provare, 'sti leghisti, 'sti padani. Cosa vi costa? Stanno lì, a gridare al vento slogan (verdi) che non sanno nemmeno che cosa significano. «Secessione!» urlano dal prato affumicato di salamelle arrostite, così tanto per dire qualcosa, come quelli che ululano «Alé-oò!» allo stadio. Il fatto che non sia mica tanto la stessa cosa, non sono certo che loro lo sappiano. Dunque perché non dargliela, una chance?

Perché gridare parole così per loro è come bere la pozione di Panoramix, è l'unione-che-fa-la-forza, è avere un grande obiettivo comune, provocare, inebriarsi con il profumo della rivoluzione, sentire sotto le dita il profilo tondo e vellutato del manico del coltello pronto a bucare il salvagente (verde) che tiene a galla il governo, il paese intero, è chiedere qualcosa di impossibile in previsione poi di lamentarsi e sparare a zero su tutti quelli che avranno messo loro i bastoni tra le ruote. E' farsi così belli e gonfiare il petto (verde) in previsione delle prossime elezioni (anticipate).

Nel frattempo, non hanno gli occhi di coloro che sanno davvero quello che stanno dicendo. E non è colpa del Recioto alla spina. Danno fiato alle corde vocali (verdi), senza rendersi conto che a furia di ampolle, l'acqua del Po gli ha alluvionato il cervello e come al solito nessuno gli rimborserà i danni. Perché se avessero davvero in mente quello che significa la parola secessione, non la direbbero tanto alla leggera. Non è come dire «Baso baso!» al matrimonio della putèla Teresina. Forse piuttosto come invocare «Stupro stupro!» alla sua festa di compleanno.

Non capiscono che secessione significa separazione di territori e quindi anche di persone, che significa "confini", che significa "divisioni", che significa stabilire chi sta di qua e chi di là, che poi finisce che tuo padre, tua sorella, la tua fidanzata come d'incanto si ritrovano in un'altra nazione, con tutto quello che questo significa, compresa l'incognita di quello che servirà per passare di là, se ci vorrà il visto o magari il permesso di soggiorno per andare a bagnarsi i ciapp in Liguria. E poi dove lo mettiamo il confine (verde)? Come lo stabiliamo? Con i fucili e la cavalleria, o le parolacce e le mucche delle quote latte? A dire il vero quelli del pratone di Püntìda sembravano più avvezzi al taleggio e alla polenta e osei, che non ai forconi e alla polvere da sparo, anche se non è difficile immaginare che molti di loro uno schioppo appeso in salotto ce l'abbiano, vicino alla testa del capriolo.

E allora concedete loro un bel referendum delle regioni, tanto ormai i referendum vanno alla grande, e contatevi, vedete chi ci sta, provate a tracciare sul serio un confine vero, di quelli che ci stanno bene poi coi cavalli di frisia e il filo spinato. Insomma, smettetela di darvi addosso, voi da una parte e loro dall'altra. Ditegli ok, dategliela una possibilità (verde), che ci provino, ma per davvero. Sono certo che solo così si renderanno conto una buona volta delle putanade che van a scorézar intorno, 'sti sboròn, ostregheta!

sabato 18 giugno 2011

Referendum: illusione accarezzata e occasione sprecata

Scemati i livelli di adrenalina da percentuali, passata la sbornia da quorum e i suoi postumi, rientrati perfino i crampi alle dita delle mani insorti a furia di segnare la "V" di vittoria, è il momento di guardare indietro e provare a valutare che cosa è successo. Il risultato "tecnico" del referendum lo sanno tutti. Hanno vinto i SI per circa il 95%, le quattro norme sono state abrogate, con un quorum raggiunto grazie più o meno a 28 milioni di italiani che si sono recati alle urne. E detta così sembra una roba biblica. Anche stando all'entusiasmo che ha gasato le piazze dopo i risultati, s'è percepita un'atmosfera di attraversamento del Mar Rosso, come una fuga riuscita dall'Egitto del faraone-despota. Ma temo che tutto questo sia il frutto di un'autoillusione, come un miraggio nel deserto del Sinai.

A fronte della strumentalizzazione e della manipolazione con cui questi referendum sono stati impregnati fino a farli considerare non più dei quesiti nudi e crudi sull'abrogazione di norme specifiche, quali i referendum tecnicamente sono, bensì un sondaggio sull'operato del governo (in effetti tutte le norme abrogate erano state approvate da governi presieduti da Silvio Berlusconi) e direttamente sulla figura del Premier, almeno grazie al quesito sul legittimo impedimento, a ben vedere non mi pare ci sia proprio granché da festeggiare. Perché come dicevo nel mio post precedente, era il quorum il vero obiettivo, e ne sono ancora convinto, ma il 54,8% degli aventi diritto è sì un quorum, ma un ben misero risultato a fronte dell'importanza di quello che veniva chiesto, a fronte di quello che veniva sperato, a fronte del segnale che si sperava di ottenere e del significato che si era voluto attribuire al tutto, a fronte del 45,2% (circa 23 milioni di italiani) che invece ha dimostrato di non importargliene un bel fico secco. Ci sarebbe voluto almeno un 75/80% di votanti per dimostrare che la sveglia era davvero suonata. Invece è stato un semplice sbadiglio e non è abbastanza per sapere se l'Italia sta per svegliarsi del tutto o se invece si è già girata dall'altra parte.

domenica 12 giugno 2011

Referendum: ciò che importa (per me)

Lo confesso (ed è il motivo per cui non ne ho parlato fino a ora): non mi interessa un accidente se vincono i SI o i NO. Nella maggioranza dei casi i referendum sono battaglie - sì - spesso importanti, ma assumono sempre i connotati di strumenti di lotta politica e, trattando sovente di questioni molto tecniche, alla fine vengono malamente semplificati a beneficio della sollecitazione emozionale dell'elettore che così può trovare facilmente identificazione nella battaglia che il politico dice di fare per lui. Inoltre non credo che in fin dei conti quelli proposti stavolta siano quesiti tali da cambiare sul serio in maniera significativa la vita dei cittadini, come al contrario sono stati altri referendum nella recente storia d'Italia. Penso a quello sul divorzio, quello sull'aborto, quello davvero storico sulla monarchia/repubblica, ma anche - per esempio - quello sulla fecondazione assistita, andato tristemente deserto.

Del resto sono convinto che il nucleare in Italia non riuscirebbero a farlo in ogni caso. Ci sono molti altri motivi in grado di mettere i bastoni tra le ruote del nucleare italiano, TAV docet. In secondo luogo ho la tendenza a ritenere (magari sbagliando) che l'acqua finirebbe per essere gestita in un modo non molto dissimile da quanto viene già fatto adesso. In fondo ci sono già state numerose "privatizzazioni" tra le aziende municipalizzate che gestivano l'acqua pubblica fino a pochi anni fa, ma non so se qualcuno si è accorto della differenza. Altra faccenda - mi rendo conto - è quella circa la remunerazione dell'acqua, che sembrerebbe implicare la possibilità concessa alle ditte private che gestiscono i servizi, di aumentare le bollette agli utenti senza l'obbligo di reinvestimento dei capitali, quindi al solo scopo di lucro. Orbene, il fatto che si possa guadagnare (il giusto) a fronte dell'erogazione di un certo tipo di servizio, non mi pare a priori uno scandalo, anche per un bene primario come l'acqua. Altrimenti chi glielo fa fare ai gestori? Da quello che ho letto a riguardo, tra le altre cose non sembra che questo aumento possa essere applicato in maniera indiscriminata, come paventato in giro, ma solo in ragione del 7% (una tantum?) che non è certamente poco, ma che in fin dei conti - per esempio - cambierebbe di soli 7 € una bolletta di 100 €. E per un paese di fortissimi consumatori (leggi spendaccioni) di acqua minerale in bottiglia, mi sembra una battaglia che ha perlomeno un retrogusto vagamente paradossale. Infine il legittimo impedimento, referendum evidentemente formulato ad hoc a beneficio (anzi, a maleficio) del caro Presidente del Consiglio. Pensate che il nostro non abbia già pronta nel cassetto della sua scrivania di Palazzo Grazioli tutta una nuova serie di norme per cercare di pararsi le chiappe dai tentativi dei giudici di applicare la Legge e fare giustizia? La mia sensazione dunque è che il legittimo impedimento sia per lui poco più di un prurito in mezzo alla schiena, di quelli che non ci si riesce bene ad arrivare. Quindi secondo me alla fine il punto non sta nella vittoria dei SI.

Quello che mi importa, invece, è la proiezione nel cielo di un segno dell'inversione di una tendenza in atto ormai ininterrottamente da sedici anni a questa parte. Pensate che questo periodo, proprio sedici anni, sia casuale? Non vi suggerisce niente? Per questo ciò che vorrei da questo referendum è la prova tangibile di un cambiamento all'interno della coscienza collettiva del tessuto sociale del paese, una sbuffata e un colpo di reni, il distacco del culo dal divano vista TV, la rinuncia al pic-nic domenicale al centro commerciale. Mi piacerebbe avere la dimostrazione che i cittadini hanno (di nuovo) voglia di credere e interessarsi in qualcosa d'altro, oltre che ai polpacci di Ibrahimovic e all'accumulo dei punti sulle tessere sconto, anche magari in una cosa chiamata politica, perché interessarsi di politica significa dimostrare di avere a cuore la propria esistenza in una dimensione collettiva. Mi basterebbe riconoscere un sintomo che sentono di nuovo il bisogno di riconoscersi nello Stato e l'importanza degli strumenti che lo Stato concede loro per esserne coinvolti come parte attiva, che hanno (forse) compreso che l'indifferenza porta all'incuria e l'incuria conduce alla rovina. E dunque, comunque sia, per un futuro diverso o uguale, non importa, vogliono tornare a esercitare il loro diritto a essere davvero liberi. Perché libertà è partecipazione ed è nella partecipazione che la libertà diventa democrazia. Così, quello che stavolta conta davvero, per me, è (solo) che venga raggiunto il quorum, perché mi piace pensare che tutto questo, in ultima analisi, abbia qualcosa a che fare con una rinnovata modalità di intendere il proprio futuro, il proprio interesse, il proprio destino come qualcosa di legato a quello di tutti gli altri. Qualcuno ha l'ardire di pensare che c'entri perfino la speranza.

venerdì 10 giugno 2011

Quando l'Economist gioca coi verbi

La nuova copertina dell'Economist dedicata a Silvio Berlusconi ha fatto il giro del mondo e dei media italiani. Tutti hanno tradotto la frase "The man who screwed an entire country" con "L'uomo che ha fregato un intero paese". E la traduzione è corretta. I media però se ne sono ben guardati dal far notare che, come spesso succede in inglese, il verbo to screw ha anche altri significati oltre a fregare e al suo principale che è avvitare. Nella fattispecie può infatti essere anche inteso nel senso di "avere rapporti sessuali" (proprio poiché la parola screw significa vite e si sa che la vite gira in un buco...), ma con una connotazione decisamente volgare. In questo caso nel parlato quotidiano la migliore parola italiana corrispondente è dunque fottere. Pertanto un'altra traduzione possibile (e legittima) della frase è "L'uomo che ha fottuto un intero paese".

Naturalmente chi ha ideato quel titolo all'Economist ha senza dubbio voluto giocare sull'equivoco del duplice significato del verbo to screw, ma secondo voi su quale dei due significati i lettori anglofoni tenderanno a indugiare di più?

giovedì 9 giugno 2011

Psicanalizzando Buffon

Ora mi pare chiaro che se uno, e non uno qualunque, bensì il portiere-capitano-storico della Nazionale di calcio, campione del mondo, se ne va in giro a snocciolare metafore ardite, credo che la faccenda meriti una breve riflessione. Facendo un passetto indietro per chi non ne fosse al corrente, ieri Buffon ha paragonato il clima da "giustizia sommaria" che si respirerebbe (il condizionale è mio) intorno all'ennesimo scandalo delle scommesse nel calcio e delle partite taroccate, con quello che si respirò a Piazzale Loreto, dove il 29 aprile 1945 i cadaveri di Benito Mussolini, Claretta Petacci, Alessandro Pavolini, Paolo Zerbino e Achille Starace furono appesi a testa in giù ed esposti al pubblico ludibrio, insieme ad altri corpi di altri esponenti fascisti.

Ebbene, innanzitutto credo che Buffon dovrebbe andare a informarsi su come andò davvero la storia, perché tecnicamente in Piazzale Loreto non ci fu alcuna esecuzione, in quanto Mussolini e gli altri furono portati lì già senza vita. In Piazzale Loreto dunque non si praticò alcun linciaggio. Quello semmai si praticò altrove. Ma ci fu il dileggio, il vilipendio, la condivisione pubblica della soddisfatta ammirazione dello spettacolo dei cadaveri, oltraggiati e ortaggiati. Al di là delle complesse ragioni politiche, sociali ed emotive che portarono a questo, su cui non voglio entrare, con ciò non è mia intenzione sminuire l'intrinseca atrocità della situazione. Era solo per dire che la metafora di Buffon non è del tutto pertinente.

Quello che però mi fa arricciare le antenne, è il pensiero della vocina interiore che ha suggerito a Buffon di utilizzare proprio questa similitudine. Insomma, è evidente che il portierone voleva intendere il significato della situazione in senso negativo, ovvero rispetto al fatto che soprattutto i media tendono a praticare una sorta di "giustizia sommaria" informativa a discapito dei giocatori di calcio che sembrano risultare coinvolti nello scandalo delle scommesse, ma sui quali ancora si sta indagando, ovvero ancora non si sa niente di preciso, come peraltro succede mediaticamente con qualsiasi altro "indagato" in qualsiasi altra situazione di natura criminosa (tranne Berlusconi, naturalmente).

Tuttavia non si deve dimenticare che le similitudini sono come le moltiplicazioni. In altre parole hanno la proprietà commutativa, ovvero cambiando l'ordine dei fattori, il risultato non cambia. Questo significa che, rispetto all'istinto che ha detto a Buffon di usare questa metafora, a parte gli accidenti cronologico-temporali del caso, si dovrebbe poter dire con piena cognizione di causa - e sempre negativamente - che Mussolini e gli altri in Piazzale Loreto sono stati trattati come lo furono i giocatori nello scandalo delle scommesse. Se dunque dalla prima prospettiva il trattamento riservato ai calciatori veniva distorto, assumendo i contorni di un'enormità disumana, nella seconda, essendo l'accento posto sui giocatori coinvolti nello scandalo, il mettere sullo stesso piano le famiglie di crimini legate alle scommesse, con quelle legate al regime fascista, non fa che minimizzare queste ultime concedendo loro un'illegittima derubricazione, fino a metterle sul piano della pura ipotesi, come per ora sono le altre.

Questo non fa che mettere in luce (una volta per tutte?) l'istinto di Gianluigi Buffon sull'argomento, ovvero quello che lui, nel suo intimo, pensa del fascismo. Dunque non mi pare di esagerare se dico che un'affermazione pubblica come questa dovrebbe essere sufficiente a espellerlo per sempre dalla Nazionale di calcio. Se poi ci aggiungiamo che, anche come portiere, ormai assomiglia più a un totano impastellato nell'olio bollente, il vero mistero è capire che cosa cazzo ci sta ancora a fare lì.

lunedì 6 giugno 2011

Una pippa al giorno toglie il paparazzo di torno

A distanza di quasi quattordici anni, gli inglesi sono ancora sotto shock per la morte della principessa Diana. Ne è la prova l'accordo, finora rispettato, che i tabloid hanno fatto con la casa reale per lasciare in pace gli sposini novelli Will & Kate. Ma per rinunciare a una cosa del genere, ci doveva essere una contropartita. Perché in tutti gli accordi c'è sempre un prezzo da pagare. Ebbene, in questo caso il prezzo si chiama Philippa "Pippa" Middleton, sorella di Kate, ormai salita alla ribalta delle cronache mondane a titolo di rincalzo dell'ormai nobile (e intoccabile) Kate. Ne sono la prova le chiavi di ricerca suggerite da Google nei rispettivi due casi. Per Kate, in testa ci sono "biografia" e "incinta", mentre nel caso di Pippa vanno alla grande "lato b" e "hot".

Dunque non c'è alba ormai, anche in Italia, senza che venga pubblicata una nuova notizia su Pippa e la sua vita, sulle sue scollature, l'offerta per un porno, i suoi bikini e reggiseni, il suo lavoro, la sua presenza tra gli spalti del Roland Garros, in una gara di triathlon a Dunque non c'è alba ormai, anche in Italia, senza che venga pubblicata una nuova notizia su Pippa e la sua vita, sulle sue scollature, sull'offerta per un porno, i suoi bikini e reggiseni, il suo lavoro, la sua presenza tra gli spalti del Roland Garros, la sua partecipazione a una gara di triathlon a Parigi e c'è da credere che, di questo passo, la sua presenza sui media sarà sempre più invasiva al punto che presto farà impallidire le leadership di Paris Hilton, Pamela Anderson e Amy Winehouse, diventando così la vostra nuova beniamina del gossip. Naturalmente non è dato sapere se Pippa è contenta di essere diventata famosa di riflesso e di vivere con il clic degli otturatori a scandirgli la vita nelle orecchie (però potrebbe sembrare un bel modo di compensare l'invidia per la sorella principessa), ma c'è da dire che per lo meno se si troverà a Parigi, a passare a tutta birra sotto il Tunnel dell'Alma, nessuno dovrà preoccuparsi di fare gli scongiuri.

License

Creative Commons License
I testi di questo sito sono pubblicati sotto Licenza Creative Commons.

Statistiche

Blogsphere

Copyright © Il grande marziano Published By Gooyaabi Templates | Powered By Blogger

Design by Anders Noren | Blogger Theme by NewBloggerThemes.com