Punti di vista da un altro pianeta

venerdì 8 novembre 2013

Illusione e doping dell'informazione

L'informazione non esiste. L'informazione è un miraggio. L'informazione è qualcosa di virtuale che ci fanno credere essere reale, che ci hanno abituati a credere tale, che ci hanno educati a considerare importante, a seguire, a esserne dipendenti. Ci hanno abituato che è cosa buona sapere tutto, ed è cosa più buona saperlo prima, anche se non ci fa vincere niente saperlo prima, anche se questo tutto non ci tocca, non ci importa, non ci serve, non dà alcun valore aggiunto alle nostre vite, perché l'informazione (o almeno la stragrande maggioranza di essa) è un'illusione.

Gli aspetti da considerare sono due, di cui uno in qualche modo discende dall'altro. Innanzitutto l'informazione, anche quella seria, quella esposta con le sopracciglia aggrottate e lo sguardo compito, ha la dolciastra confezione del gossip. La natura sostanzialmente lucrativa dei mezzi di informazione fa privilegiare ciò che vende: il sensazionalismo, il pettegolezzo, lo scoop, lo choc. Dunque le notizie vengono tagliate col filtro del sensazionalismo e del pettegolezzo, mentre lo scoop e lo choc vengono sottolineati anche (soprattutto) quando non sussistono (per esempio il portale Libero.it è maestro in questo, ma anche Repubblica.it non scherza), distorcendo la stessa percezione del lettore rispetto a quale dovrebbe essere una notizia davvero importante e quindi sminuendo il concetto di importanza di un fatto.

Il secondo, e conseguenza del primo, è la disintegrazione totale dei contenuti. Le notizie, specie quelle della cronaca politica, a un'analisi neanche troppo approfondita risultano completamente vuote. Nascondendosi dietro l'alibi della semplicità e del proposito di raggiungere il maggior numero di utenti possibile, l'informazione viene privata di tutti i concetti davvero informativi (difficili?) e viene propinato il suo aspetto più istintivamente attraente: il gossip. Quando viene approvato, o respinto, o proposto un provvedimento (che sia il ddl sul femminicidio o la proposta di abolizione del reato di clandestinità), nei relativi articoli giornalistici voi non troverete mai la spiegazione di che cosa prevede in dettaglio la legge o il provvedimento, ma troverete solo la diatriba politica, il ping-pong tra le fazioni, l'insulto irritante, il battibecco sterile, la pernacchia umida, senza che venga messa in luce la sostanza, il vero nodo del contendere (se mai ce ne sia davvero uno), senza che venga messo in condizione il pubblico di farsi davvero un'idea e capire. L'opinione dunque che l'informato si fa del provvedimento non è mai nel merito del provvedimento stesso, ma risulta essere di tipo calcistico, legata al tifo per il miglior insulto, per la fazione che suscita la maggior simpatia, per il tono di scherno maggiormente riuscito. È di matrice cabarettistica, insomma.

Qualcuno punta il dito contro il pubblico, giustificando questo modus informandi con il fatto che il concetto stesso di "approfondimento" allontana il grande pubblico, pigro e mediamente ignorante, allo stesso modo - indulgente - con cui la televisione spazzatura giustifica se stessa. Eppure mi chiedo come sarebbe un mondo in cui ci fosse solo informazione seria, obiettiva e circostanziata, un mondo in cui nessuno potesse essere tentato dai profumi inebrianti della merda mediatica, dalle tette inutili, dagli urli e dalle parolacce sputacchiate sui microfoni. Ma purtroppo è come il doping. Se non ci fosse, tutto sarebbe più vero, più leale e tutti sarebbero comunque alla pari. Ma siccome nessuno è immune alla tentazione di voler vincere facile, e nessuno è sicuro che nessun altro lo userà, alla fine diventa necessario che lo usino tutti.

martedì 5 novembre 2013

La scelta (di un libro) ai tempi dell'e-book

In fatto di scelta, è chiaro che se voi avete già le idee chiare nella vostra zucca, libro o e-book che sia, le cose non cambiano granché. Ma la prima impressione (personale) è che, in mancanza di contromisure, l'e-book tenda a essere lievemente penalizzante nel momento in cui vi trovate a decidere se scegliere/comprare un libro imprevisto, come (quante volte vi sarà successo?) quando gironzolate per una libreria a curiosare come esploratori senza bussola, né stelle, intorno ai banchi o su per gli scaffali, prendendo in mano i libri come i cioccolatini di Forrest Gump, semplicemente lasciandovi attrarre da un autore, un titolo, una copertina, un'edizione, di cui non avevate mai sentito parlare prima, finché una volta giunti alla cassa vi accorgete che ve ne sono rimasti attaccati alle mani uno o due. Certo, la rete e i siti come Amazon, IBS ecc. cercano di sostituire quell'attività (invero assai appagante) con varie strategie che si riassumono in proposte di offerta giornaliere o quasi, però ho la sensazione che il potere dell'esperienza fisica dell'acquisto librario sia un valore aggiunto non trascurabile, con la mancanza del quale il mercato editoriale - specialmente per gli autori non noti - in qualche modo già deve, ma dovrà sempre più in futuro, fare i conti.

A tutto ciò intravedo due principali conseguenze che tenderanno a realizzarsi, peraltro entrambe positive per il lettore, improntate alla compensazione (risarcimento?) - almeno parziale - di ciò che l'esperienza dell'acquisto del libro fisico toglierà. La prima è il doverosissimo crollo del prezzo dell'e-book, ancora oggi mediamente (e assurdamente) troppo alto rispetto alla corrispondente edizione cartacea, vista anche la mancanza dei costi vivi di stampa e distribuzione. Una stima media sommaria che ho fatto, escludendo le offerte speciali, si attesta oggi intorno a circa il 25% in meno. Questo significa che se un libro cartaceo lo paghi 10,00€, il suo omologo virtuale (peraltro con tutti i problemi, niente affatto banali, legati alla reale proprietà dell'oggetto ecc.) adesso ti costa 7,50€. Ancora troppo. Penso che un prezzo sensato per una nuova edizione dovrebbe attestarsi almeno intorno al 50/60% in meno rispetto all'edizione cartacea, un obiettivo che è già molto vicino nel mercato americano tradizionalmente molto più avanti di quello italiano. Questo potrebbe portare il lettore a essere più indulgente nell'acquisto di un libro, anche in caso di non completa convinzione. Insomma, se un libro ti viene offerto a 2€, puoi anche pensare di comprarlo senza esserne troppo informato o non esserne completamente convinto: ti basterà solo un po' di (sana) curiosità.

La seconda è la necessità dell'incremento della qualità dell'informazione libraria in rete. E questo, nel marasma incontrollato e incontrollabile dell'offerta già presente di recensioni sul web, può sembrare un paradosso (o un'autentica follia), ma a mio avviso non lo è perché, a dispetto di questo, è difficilissimo trovare in rete recensioni serie, competenti e soprattutto intellettualmente oneste, dunque complessivamente affidabili. Si passa dalla pigra (e odiosa) ricopiatura del comunicato stampa o della quarta di copertina, che davvero non aggiungono alcun valore aggiunto, al pezzo scritto per melliflua piaggeria, fino alla repellente recensione-di-scambio, che dunque mai potranno essere davvero critiche e in qualche modo utili. E questo è un machete valido sempre, ma soprattutto nell'intricato (e variegato) bosco degli autori sconosciuti e/o pseudoesordienti. La rete può essere un mezzo potente a disposizione di tutti, se utilizzato almeno con passione vera, magari anche con un po' di talento. Specialmente nel momento in cui l'e-book in qualche modo ha contribuito a livellare le possibilità tra grandi e piccoli autori. Ma è anche un oceano molto salato. Chi millanta, o non ha i numeri, per quanto si sbracci, non riuscirà mai a galleggiarvi sul serio. Autori, editori, lettori e recensori sono avvisati.

lunedì 4 novembre 2013

Esercizio di bibliopsicologia comparata

Quando un lettore tiene in mano un libro, di carta intendo, al di là dell'annosa e (un po') stucchevole faccenda delle sensazioni (mi riferisco ai soliti irriducibili nostalgici, cultori della fisicità del libro cartaceo in termini di profumo, fruscio, grana della carta ecc.), c'è un ulteriore fattore tutt'altro che trascurabile che viene percepito in modo molto diverso e che tende a condizionare, ancorché per lo più inconsapevolmente, l'opinione che il lettore ha del libro cartaceo rispetto al suo omologo prodotto in formato digitale. Mi piace chiamarlo il peso-della-stampa.

Si tratta di quell'automatica consapevolezza che il lettore ha del valore materiale di un oggetto, in questo caso il libro, ovvero che per creare ciò che ha in mano è stato necessario un investimento. Tutta la faccenda insomma è costata dei soldi a qualcuno (NB che nella fattispecie non è l'autore) e si sa che dai soldi non ci si separa mai a cuor leggero. In altre parole qualcuno da qualche parte avrà ritenuto che valesse la pena rischiare un piccolo (o grande) gruzzolo per portare alla luce del mondo (tutte) quelle parole impresse sulla carta, nell'estrema speranza di guadagnarci qualcosa (normalmente è così, o almeno così dovrebbe essere). E questo risulta direttamente proporzionale alla dimensione del volume e al pregio dell'edizione (carta, colori, copertina ecc.). Quindi in buona sostanza tanto più il lettore percepisce un alto valore dell'oggetto nel suo complesso, tanto più d'istinto è portato ad attribuire un alto valore anche al suo contenuto. E tutti sappiamo nostro malgrado quanto questa percezione possa essere beffardamente fallace in ogni settore del commercio (e non), ma ancora di più in ambito editoriale.

Nel caso dell'e-book, invece, tutto questo non esiste. Il contenitore non esiste. Nemmeno il fiocco esiste. E se da un lato i soli costi di editing (si spera), di traduzione (se necessario) e di impaginazione (per forza) restano presenti in entrambe le versioni, dall'altro l'e-book non è gravato da alcun altro costo diretto (niente stampa e niente distribuzione, anche se quest'ultimo costo - pur essendo il più determinante della filiera editoriale - resta invisibile, e dunque ininfluente, agli occhi del lettore di libri cartacei). Per certuni questo potrà essere interpretato finalmente come un sintomo di purezza dell'e-book, che rimane pertanto immune da qualsiasi contaminazione materiale potenzialmente ingannevole, ma analogamente penalizza tutte quelle modalità estetiche cui comunque il lettore non si può del tutto sottrarre quando (pre)giudica - nel bene e nel male - un libro cartaceo, ovvero spesso quando si trova a sceglierlo senza molti altri parametri a disposizione.

/continua (domani)

lunedì 28 ottobre 2013

Elegia dei sensi perduti (forse per sempre)

Quando qualcuno chiedeva a George Mallory perché voleva andare in cima all'Everest - cosa che provò a fare per ben tre volte prima di restarne vittima nel 1924 - lui rispondeva: «Perché è lì». Così, semplicemente. Una risposta all'apparenza quasi ingenua, ma perfetta per tracciare gli smisurati contorni di un gesto epico, come quello dell'esplorazione, della conquista, dello spingersi oltre i confini conosciuti, dell'arrivare dove nessuno è mai giunto prima anche a rischio della vita, la cui utilità è dunque - di fatto - tutta e solo culturale.

Perché andare sulla Luna? «Perché è lì». Perché conquistare il Polo Sud? «Perché è lì». Perché andare su Marte? «Perché è lì». Eppure, oggi, alle orecchie della maggioranza quel «Perché è lì» è una risposta che suona incomprensibile come la frase astrusa di una lingua dimenticata, in quanto fa parte di una grammatica concettuale ormai colonizzata, rimodellata, stravolta da nuovi paradigmi. Una società in cui la tecnologia ha abituato l'umanità a vedere svelata ogni cosa con lo sforzo di un clic, e che in questo modo ha smarrito il senso di ogni mitologia (e dunque di ogni immaginazione), trova insensato il gesto della conquista fine a se stessa, perché la conquista ha proprio a che vedere, prima di ogni altra cosa, con il mistero, la mitologia e l'immaginazione. E questa lacuna la si ritrova tanto più radicata nelle giovani generazioni, programmate negli ultimi vent'anni al principio assoluto dell'utilitarismo-a-tutti-i-costi. Insomma, tu sei lì che - magari - gli parli davvero di esplorazione di Marte e loro ti guardano con il punto interrogativo che gli oscilla piano sulla testa, finché la domanda a un certo punto te la fanno: «Ma a che cosa serve andare su Marte?»

E tu allora, certo, puoi provare a parlargli dell'importanza della ricerca della vita e del come solo un equipaggio - e non un robot - potrebbe riuscire a compierla, del fatto che in fin dei conti, pur con tutte le difficoltà del caso, Marte è l'unico pianeta che l'uomo potrebbe abitare, puoi provare anche a buttare lì come ultima carta (ma non ultima in ordine di importanza) il valore supremo della conoscenza. Ma alla fine puoi stare certo/a che non li avrai convinti, perché tutti questi discorsi alle loro orecchie avranno sempre e comunque più d'una sfumatura accessoria, aleatoria, opzionale. Perché lo sforzo sarebbe titanico e il rischio a esso proporzionato, a fronte di quale reale ritorno? La tua risposta dovrebbe essere, semplicemente: «Perché è lì». Ma se non sono recepite le altre, figuriamoci questa.

Quello che più dovrebbe angosciare, però, è quello che questa perdita implica, perché di autentica perdita si tratta. Perché perdere il senso della conquista e dell'esplorazione, è perdere il senso del mistero, nell'illusione che non ce ne sia più neanche uno (o, ancora peggio, che non ci sia più alcun bisogno di svelare quello che ancora c'è, perché in fondo non è poi così importante), è perdere il senso dell'evoluzione e dell'elevazione umana come nell'assurda presunzione di avere già raggiunto il massimo (o, ancora peggio, che non ci sia più alcun bisogno di spingerci oltre, perché in fondo non è poi così importante), e dunque è perdere il senso del futuro e della nostra speranza in esso.

Ma è anche (soprattutto?) perdere il senso del mandala, ovvero dell'impegno alla realizzazione dell'impresa, ambiziosa, meravigliosa, strabiliante ancorché effimera, in quanto non portatrice di alcun ritorno materiale, perché oggi conta ormai più la meta che il percorso, più la retribuzione finale che l'esperienza, più lo sponsor che il gesto. Come perdere il senso dell'importanza della cultura, anzi quello della vita stesso.

martedì 15 ottobre 2013

lunedì 14 ottobre 2013

Sonata romantica per treno e e-book

Scompartimento di seconda classe. Appena fuori della stazione, il treno riprende la sua corsa, entrando e uscendo dalle gallerie con quel suo ritmo da tango sbagliato. Stai leggendo un epub sul tuo SonyPRS: La notte dell'oracolo di Paul Auster. La porta scorrevole si apre e qualcuno prende posto dal finestrino, proprio di fronte a te. Le scarpe entrano nel tuo campo visivo. Sportive, con qualche lustrino. Lasci un attimo il buon vecchio Paul e sollevi lo sguardo. La tipa, poco trucco, capelli e occhi scuri, auricolari, qualche lentiggine e una bocca che potrebbe anche essere capace di bei sorrisi. I vostri sguardi si sfiorano per un attimo, come particelle di polvere nella casualità di correnti aeree indipendenti. Poi lei ributta la testa nel suo borsone e tu ritorni al buon vecchio Paul. Ma per qualche ragione resti sempre sulla stessa frase, avanti e indietro, come quei trenini da bambini che quando finiscono contro il muro, non c'è verso che si schiodino da lì senza prenderli di peso.

Poco dopo anche la tipa estrae il suo e-book, un Kindle, e attacca a leggere. Intanto il ballo ferroviario continua il suo ritmico corteggiar di rotaie. Ogni tanto alzi lo sguardo e solo alla terza volta ti accorgi che daresti qualcosa perché lo facesse anche lei. Ma non lo fa. E allora, prima che il rischio che lo faccia diventi troppo alto, ti ributti sulla pagina, riflettendo che se lei facesse la stessa cosa, tu non te ne accorgeresti, a meno che il caso non portasse le particelle di polvere in una nuova rotta di collisione. Ma questo non succede neanche ai successivi tentativi e i paragrafi continuano a scorrere come un regionale con troppe fermate. La distrazione è costante. Sei sempre stato un timido e anche lei potrebbe esserlo. Le ragazze con cui ci hai provato ti sono sempre state presentate, non ti sei mai dovuto buttare nel vuoto di un discorso attaccato dal nulla.

Il treno giungerà a destinazione e nemmeno i 35 minuti di ritardo («Ci scusiamo coi gentili passeggeri...») saranno stati sufficienti a far decidere uno dei due a lanciarsi. Perché anche a lei, lui piaceva e anche lei aveva alzato gli occhi molte volte sperando in una concomitanza di granelli. Invece i due scenderanno e ognuno andrà per la sua strada, inghiottiti dai loro destini metropolitani senza nemmeno l'abbozzo di un Ciao. Ma c'è un Universo Alternativo in cui quel giorno, su quel treno, i due si sono conosciuti e tre anni più tardi sono andati a vivere insieme. È seguito un matrimonio, un mutuo, due bambini, tre cani (non tutti contemporaneamente), una cassa integrazione e un cancro. Ma oggi se ne vanno ancora in giro per mano. Quel giorno, sul treno, Roberto e Valeria stavano leggendo lo stesso libro.

Nell'Universo Alternativo non esistono gli e-book.

giovedì 10 ottobre 2013

Bara (bianca) con orsetto

E poi ci sono gli orsetti. Quelli che sono spuntati sulle bare bianche dei bambini morti nella tragedia di Lampedusa. Ma cosa cazzo se ne fanno adesso quei bambini, chiusi dentro una bara inchiodata, di un orsetto? Con quegli orsetti di pezza, sinonimo mondiale di cucciolosa tenerezza, quei bambini avrebbero voluto giocarci, inventarsi delle storie, dormirci abbracciati la notte per cercare un conforto, un salvagente (è il caso di dirlo) alle cose brutte (incomprensibili) del mondo. Invece tocca loro guardarli dal lato sbagliato del coperchio. Dunque qual è il messaggio che chi ha deciso di mettere lì quegli orsetti tutti uguali, ha voluto mandare?

È tradizione antica e di tutte le culture che la bara del morto venga ornata di fiori o di testimonianze di affetto di coloro che restano da questa parte. E non si può escludere che nel caso dei bimbi di Lampedusa la cosa non sia stata fatta con lo stesso (nobile) intento. Ma nel caso avrei almeno voluto vedere una processione di superstiti posare gli orsetti su quelle bare. Invece gli orsetti sono spuntati come funghi sulle bare nell'hangar dell'aeroporto dell'isola, quindi non credo che i superstiti abbiano avuto qualcosa a che vedere con questa comparsa, ma piuttosto ritengo sia stata una qualche decisione delle autorità incaricate di allestire la camera ardente.

E proprio quell'omologazione dei quattro orsetti tutti uguali, nuovi di zecca, magari comprati col 3x2 al più vicino discount da qualche addetto del Comune in fretta e furia a beneficio dei media, dunque non un giocattolo che quei bambini si erano portati da casa, magari come unico bagaglio verso un orizzonte incognito, che probabilmente non erano nemmeno in grado di comprendere, anzi probabilmente faceva paura, mi dà la netta sensazione di un odioso (e schifoso nella sua zuccherosa retorica) spettacolo allestito dall'Italia a beneficio del mondo.

Come se adesso all'Italia di quei bambini importasse qualcosa. Se non importava niente di loro prima che annegassero (e le leggi in vigore stanno lì a dimostrarlo), perché dovrebbe importare qualcosa adesso?

mercoledì 9 ottobre 2013

Il piacere di un bambino morto

Prendete una strage. Una qualunque, purché con un bel numero di vittime innocenti. Più sono i corpi, nel fango, sul mare, o sotto le macerie, meglio è. Come la sciagura di Lampedusa di qualche giorno fa, o come l'ecatombe del Vajont, di cui proprio oggi, 9 ottobre 2013, ricorre il cinquantesimo anniversario. Dopodiché prestate bene orecchio a come i media, telegiornali su tutti, riportano la notizia delle vittime. Sempre e comunque verrà evidenziato il numero di donne e, soprattutto, bambini. Nel caso del disastro del Vajont, per dire, il numero di morti stimati fu 1918, di cui 487 bambini. E vedrete che i telegiornali non mancheranno mai di rimarcarlo. Perché?

Forse il valore della vita di un essere umano viene contabilizzato in base a quanti anni ha potenzialmente ancora davanti a sé? O non è invece vero che tutte le vite, di fronte a una tragedia di simili proporzioni, sono uguali? Se nel Vajont i bambini fossero stati solo 3, o se anche non ce ne fosse stato nessuno, la tragedia sarebbe stata meno tragica?

Invece i media non mancano mai di porre l'accento sul fatto che tra le vittime c'erano "donne e bambini", snocciolando i numeri, possibilmente, se impressionanti. Altrimenti restano sul vago, ma non rinunciano mai all'occasione di solleticare l'emozione dello spettatore, l'empatia, la compassione. Anche senza la necessità di spingerlo alla lacrima, beninteso. Anche perché spesso lo spettatore è comunque troppo distante per commuoversi.

Ma quel piccolo tic interiore causato dall'essere costretti (inutilmente) a porre l'attenzione al numero di bambini morti, crea nello spettatore una reazione emotiva che, in quanto tale, e per quanto piccola (non importa se collegata a un evento negativo), viene istintivamente percepita dallo spettatore come una cosa buona (illude lo spettatore alla partecipazione e alla non-indifferenza, quando in realtà allo spettatore non frega un accidente di quelle vittime) e crea così una connessione di solidarietà e fiducia con chi l'ha catalizzata, rinsaldando il legame dello spettatore con il media stesso, che è proprio lo scopo (ultimo) che il media vuole.

venerdì 4 ottobre 2013

Breaking Bad, un po’ Delitto e un po’ Castigo (no spoiler)

La serie TV Breaking Bad, almeno negli USA, è giunta al capolinea qualche giorno fa, accompagnata nelle settimane precedenti alle ultime puntate da un'eco crescente che ha fatto emergere una serie cominciata e proseguita in sordina (a dispetto di premi su premi raccolti nelle varie stagioni), in quello che di fatto è: un vero e proprio fenomeno clamoroso che l'ha portata a essere unanimemente considerata una delle migliori serie TV mai prodotte, qualcosa in grado di influenzare sia l'immaginario popolare che il modo di fare narrazione televisiva.

La vicenda umana di Walter White è un'epica al contrario, una cristallina discesa all'inferno senza ritorno, alimentata prima dalla prospettiva della buona azione, poi confessata dalla realtà di uno sfrenato, velenoso, imbattibile orgoglio. Nel mezzo, cinque stagioni di lento apprendistato al male, prima semplicemente rimbalzato come conseguenza passiva delle proprie azioni, poi meditato e pianificato con attiva consapevolezza. Ma in fondo la vita non sono tanto le azioni, quanto le loro conseguenze. E dunque Breaking Bag trova la sua cifra nel drammatico confronto continuo delle scelte di W.W. con le ripercussioni (spesso - sempre? - dolorose) che esse hanno non tanto su di lui, quanto piuttosto su coloro che lo circondano, moglie, figli, parenti, complici, amici e nemici.

Sorretto da una continuity fenomenale e da una scrittura solidissima, da personaggi dalle caratterizzazioni magistrali (tutti quanti, non solo i protagonisti), con pochissime e irrilevanti sbavature, per non parlare delle straordinarie prove attoriali, Breaking Bad racconta il viaggio in un tunnel in cui tutti potremmo entrare e, una volta dentro, in cui tutti potremmo essere W.W., segno che in fondo il male, quello vero, quello che implica il Dolore impartito con il massimo del cinismo agli altri, è solo un passo avanti a noi, dietro l'angolo più vicino, nel panorama della nostra coda dell'occhio, a volte anche solo come una non-azione (e qui chi ha visto la serie sa perfettamente di cosa parlo: l'azione peggiore commessa del protagonista è proprio una non-azione).

Ma più di ogni altra cosa, Breaking Bad è un capolavoro assoluto. Non bisogna avere paura di usare queste parole per una serie TV. Perché Breaking Bad non ha niente da invidiare alla forza di Delitto e Castigo di Dostoevskij. Non ha niente di meno. E non si deve pensare che solo il fatto di essere un prodotto per il piccolo schermo (con gli stacchi pubblicitari e tutto quanto il resto), piuttosto che letterario, ne sminuisca il valore. Anzi, piuttosto lo aumenta. Perché in un'epoca dominata dal glamour e dal glitter, dall'apparenza e dall'effetto speciale, Breaking Bad (un telefilm dove non c'è nemmeno una gnocca protagonista) pianta i suoi denti nell'animo dell'Uomo e ce lo rovescia sul tavolo della cucina all'ora di cena, mostrandoci tutta la sua capacità di ferocia e implacabilità e facendoci inorridire come di fronte ai miasmi della nostra stessa autopsia. Gente, se non è un capolavoro questo...

giovedì 3 ottobre 2013

La sindrome dell'autoscrittore

Se, come da sempre sostengo, l'introduzione delle tecnologie di wordprocessing, dagli antidiluviani WordStar su MS-DOS, agli avanzatissimi Word e OpenOffice, è stata l'introduzione del Male nel mondo letterario, avendo favorito la moltiplicazione del numero di (pseudo)scrittori in circolazione - provate a scrivere un romanzo a mano o con una Lettera 22, poi ne riparliamo -, l'arrivo dei Social Network, coniugato alla diffusione dell'ebook (e dunque alla sciagurata possibilità dell'autopubblicazione indiscriminata), è stato l'equivalente dell'evocazione della Bestia e di tutte le sue legioni di diavoli.

Perché ormai, se siete connessi a Twitter, Facebook, gruppi, pagine fan, ma anche a forum, blog eccetera, e vi interessate in qualche modo di letteratura ad ampio spettro, difficilmente riuscirete a scansare le legioni di sconosciuti autoscrittori cavalletta che, come l'ottava piaga d'Egitto, ti inseguono brandendo la segnalazione delle loro (imperdibili!) opere come asce. Seguono recensioni (sempre entusiastiche!), statistiche di vendita di Amazon (sempre ai primi posti!), estratti (mozzafiato!) e offerte speciali (presto, presto che scadono!). E lasciamo perdere i (penosi) booktrailer, grazie.

Ora, premessa l'odiosità di questo comportamento, invito tutti costoro - ma anche coloro che pensassero di seguirne le antipatiche orme - i quali avessero la (smisurata) fortuna di leggere questo post, di riflettere per un momento su cosa spinge un lettore (vero) a comprare un libro (vero). Esercizio tutt'altro che peregrino. Innanzitutto credo sia necessario distinguere tra diverse categorie di autori. Per esigenze di brevità, mi limiterò a tre significative: (1) gli autori famosi ai più (e affermati), (2) gli autori sconosciuti ai più (ma affermati), (3) gli autori sconosciuti ai più (ma esordienti, o comunque non affermati).

A tutti i lettori capita di leggere molti libri della categoria (1), da Wallace a Auster, da Dostoevskij a Melville ecc. ecc. ce ne sono a bizzeffe. Del resto, se sei un lettore (vero), serio e appassionato, e dunque ti informi, parli, discuti, cerchi, sei curioso, ami sperimentare, nel labirinto dell'editoria scoprirai anche scrittori della categoria (2) meno conosciuti, ma ugualmente validissimi, ancorché non illuminati dai riflettori della ribalta. In fondo queste due categorie coincidono nel fatto che si tratta comunque di scrittori che hanno raggiunto una legittimazione del pubblico a stare lì in base alla qualità del loro lavoro. Se però tu sei uno scrittore della categoria (3) - e non sei nemmeno mio amico - perché io dovrei acquistare un libro tuo, piuttosto che di uno dei milioni di altri sconosciuti come te, e dedicarti tempo prezioso (e insostituibile) della mia vita?

Comprare un libro, ancorché un ebook da pochi centesimi, significa comunque sborsare dei soldi, e nel caso dei libri i soldi si tirano fuori perché possiedono un qualche tipo di garanzia. Una garanzia che (parlo soprattutto della narrativa), se non è data dall'autore stesso in quanto sconosciuto, può anche essere solo sottoscritta implicitamente dalla casa editrice, di cui abbiamo imparato a fidarci perché sappiamo essere garante di scelte editoriali di qualità, o dalla collana, o dal curatore (se si è lettori così sofisticati da tenere d'occhio queste cose). Difficile che, in mancanza di uno di questi aspetti, si prenda in mano un libro di narrativa. Figuriamoci dunque quando c'è di mezzo l'autopubblicazione, in cui i tre suddetti aspetti sono del tutto assenti.

E allora? Allora, cari autoscrittori, che raramente perdete l'occasione di proclamarvi tali, considerate che si legge chi piace come scrive, chi piace cosa scrive, temi, stili, prospettive. Si legge chi in qualche modo si è imparato a stimare, direttamente, o perché qualcuno di cui ci fidiamo ci ha assicurato che in qualche modo può valerne la pena. Una specie di sponsor, insomma. Ma autorevole. Vi piaccia o no è così che in qualche modo funziona. Tutto il resto, fidatevi, è sollecitazione all'indisponenza (dunque controproducente) e un'illusione di possibilità di successo che invece è tempo prezioso buttato nel cesso.

martedì 1 ottobre 2013

Quell'ultima fetta della torta Barilla

Supponiamo per un momento che Mr. Barilla non sia l'idiota che è apparso a molti (ma non tutti). Dopodiché proviamo a fare quest'esercizio. Immaginiamo che Barilla l'altro giorno non abbia parlato a vanvera ai microfoni della Zanzara, ma lo abbia fatto in seguito a una ben precisa strategia, pianificata con il suo Direttore Marketing e approvata dal CDA, in quanto risultato inequivocabile di approfonditi (e costosi, dunque veri) studi di settore, ricerche di mercato, sondaggi di opinione e analisi psicosociologiche comparate, in base ai quali sarebbe redditizio dal punto di vista del mercato schierarsi dalla parte di quella fetta della torta dei consumatori costituita dagli omofobi.

Però quando si entra in territori del genere non è il caso di esagerare. Dunque magari non proprio coloro che gli omosessuali li prenderebbero a sprangate, li brucerebbero in piazza o si augurerebbero per loro la castrazione chimica obbligatoria, che peraltro (si spera) sono pochi e quindi poco rilevanti dal punto di vista delle quote di mercato di Macine e Galletti. Allora però nemmeno quelli che dicono che "l'AIDS è la giusta punizione divina" oppure "sì, vabbè, però devi ammettere che sono contro natura, perché la natura è per la riproduzione". Costoro saranno un po' di più naturalmente, ma di certo ancora non abbastanza da influenzare Farfalle e Rigatoni. A 'sto punto, pertanto, neanche coloro cui gli LGBT fanno schifo o che "però dovrebbero fare qualcosa perché, è inutile girarci intorno, questi sono ma-la-ti". Sebbene il loro numero sarà ancora un tantino più elevato, non ci sarà da preoccuparsi per Pasta Voiello e Pavesini (sì, pure loro). E dunque, infine, neppure coloro che li chiamano ricchioni/ossi buchi/culi sfranti/ecc. ecc., o che si danno di gomito alle spalle del collega che lo sanno tutti che "gli piace prenderlo in culo", i quali, benché saranno decisamente molti di più, di certo non è gente che mangia pasta o prodotti da forno.

Ora, a parte gli LGBT, chi c'è rimasto sulla glassa della torta laggiù?

mercoledì 18 settembre 2013

venerdì 13 settembre 2013

La tenerezza delle rette parallele

Fa un po' tenerezza assistere allo scambio epistolare tra Eugenio Scalfari, colosso (ateo) del giornalismo italiano, e Papa Francesco. Fa un po' tenerezza perché sotto quello smalto di originalità che Scalfari attribuisce alle risposte del Papa, e che dovrebbe (o potrebbe) essere desunto dall'interesse che dovrebbe essere suscitato dalle domande da lui poste, quello che resta è la solita manciata di banali chiacchiere da sagrato o da zerbino quando il parroco viene per benedirti la casa, dentro l'abito talare, la cotta un po' spiegazzata dalla lunga giornata, la stola che sa di muffa e incenso, una valigetta di pelle nera a penzolargli in fondo a un braccio e il chierichetto al seguito (i volantini con la preghiera li tiene lui), che tu hai socchiuso la porta (blindata) giusto quel palmo per dirgli: "Grazie, ma non credo" e lui ti risponde: "Guardi che Dio la ama lo stesso", argomenti per non-udenti che, sotto quella patina di apertura e amicizia (non certo ipocrita, per carità), evidenziano l'incomunicabilità asimmetrica di due mondi. E se l'incomunicabilità non sarebbe un problema, è l'asimmetria a rendere la questione (sempre) alquanto spinosa. Perché a un ateo non interessa convertire il credente, ma la presuntuosa ostinazione del viceversa non potrà mai rinunciare alla sua missione.

lunedì 9 settembre 2013

Femen, ovvero la tetta è il mezzo o il messaggio?

Non ci credo. Non credo alle loro battaglie, ai loro pugni alzati, alle loro smorfie e alle loro urla. Perché le Femen sono (tutte) troppo belle, hanno (tutte) le tette troppo sode, le pance (tutte) troppo piatte, per pensare che non siano attentamente selezionate come modelle disoccupate per passerelle inconsuete. Non si può non osservare che i loro sono veri e propri show e, anche se talvolta vengono realizzati - bisogna ammetterlo - in condizioni estreme e dunque difficili e non prive di rischi e di conseguenze, non possono essere considerate vere e proprie proteste, in quanto l'ostentazione e reiterazione inalterata delle modalità, quelle di esporre il seno nudo e slogan dipinti sul corpo, dà origine almeno a due contraddizioni forti.

Innanzitutto, l'uso ostentato del corpo femminile, vero e proprio marchio di fabbrica delle Femen, trasforma il messaggio femminista nel suo opposto, delegittimandone così l'azione, in quanto la mancanza di un nesso causale forte tra mezzo e messaggio, fa prevalere la strumentalizzazione del corpo al solo scopo mediatico. A cos'altro serve che a ogni performance si mostrino seminude, se non a far cliccare la gente come scimmiette sulle foto che fanno il giro della rete in tempo reale?

In secondo luogo, un movimento di protesta che cerca credibilità non può essere realizzato solo per interposta persona. La protesta spesso è sì catalizzata da un movimento, altrettanto spesso (anzi sempre) guidato da un singolo personaggio di grandissimo carisma, ma poi va in scena con la gente, per le strade, nelle piazze. A centinaia, a migliaia, a milioni. La protesta vera è un'epidemia e vive di contagio e di partecipazione. È così che si diffondono le idee e si cambiano le cose. Chi sono invece quelle donne? Perché protestano? Chi rappresentano? Rispondono: le donne ucraine. Eppure vediamo le Femen manifestare per le istanze più diverse. Passando dal turismo sessuale in India, alla repressione dei media, dal mondo della moda, a Putin, da forum economici mondiali, alla Gazprom, alla discriminazione omosessuale, al Vaticano. Dunque a che titolo fanno quello che fanno? Chi si sente rappresentato dal loro agire? E, soprattutto, a cosa (a chi?) serve quello che fanno?

Senza entrare nel merito delle voci che cominciano a girare, ovvero sul fatto che l'ideologo del movimento femminista sarebbe in realtà un uomo, tale Viktor Svyatskiy, che a proposito della sua creazione avrebbe ammesso: "Gli uomini fanno di tutto per il sesso: io ho creato il gruppo per avere delle donne", o sul fatto che il movimento sarebbe finanziato da tre miliardari e dunque le ragazze lautamente stipendiate, se è vero che il mezzo è il messaggio, tutto ciò che ricorderete delle loro proteste è solo quello su cui vi si posa maggiormente l'attenzione. Delle gran tette. E comincio a credere che non abbiate bisogno di molto altro.

mercoledì 4 settembre 2013

La fisica della feta

La Grecia è un paese fortunato. Già, perché è l'unico paese al mondo, almeno per ora, dove vigono diverse leggi della fisica, ovvero della chimica e della biologia, ovvero della biochimica. Ma è qualcosa di sottile, di misterioso, di esotico. Infatti il fenomeno è stato scoperto solo pochi giorni fa, per uno di quei casi di cosiddetta serendipity, quella sorta di casualità favorevole che mentre stai cercando una cosa, ne scopri un'altra che si rivela più importante. Insomma, è successo che una famiglia stava morendo di fame e, per evitare l'irreparabile, si è spartita l'ultima confezione di feta che teneva in frigorifero e che era scaduta da due giorni. Ebbene, a distanza di ore, stavano ancora tutti benissimo! Nessuno aveva accusato neanche una scorreggina un po' più sonora (o un po' più puzzolente, o un po' più lunga) del solito. Niente.

Grazie alla rete, la voce si è sparsa nel giro di un clic e altri, spinti dalla disperazione, come in una reazione a catena, hanno tentato l'inosabile, con biscotti, riso, crackers, tonno ecc., taluni addirittura con scadenze molto più trascorse, perfino di alcune settimane, e (miracolo!) sono tutti sopravvissuti! Subito la comunità scientifica ellenica si è mobilitata per cercare di spiegare il misterioso fenomeno, ma con scarsi risultati. Nessuno finora è riuscito di preciso a individuarne le cause e se, in effetti, ciò sia in atto da più tempo, magari da mesi, anni o perfino decenni, giacché era qualcosa che non era mai stato osservato prima.

La notizia ha, ovviamente, fatto il giro del mondo e molti sono stati gli incauti che hanno deciso di sperimentare a loro volta la teoria anche altrove, finendo purtroppo non di rado al Pronto Soccorso. Sì, perché ogni volta è stato un fiasco: dalla più semplice ancorché fastidiosa diarrea, al temibile e terribile botulismo. Tutti coloro che, nel resto dell'Europa (ma anche oltreoceano), hanno consumato cibi scaduti anche di poco (quelli con la dicitura "da consumare preferibilmente entro", in accordo alla sindrome greca), in qualche modo hanno accusato malesseri fisici, talvolta anche gravissimi, finché tutti hanno capito che davvero la Grecia ha qualcosa di speciale, come una bolla energetica, una cupola quantica, o un'anomalia eurica, qualcosa, insomma, che in qualche modo vi mantiene all'interno condizioni diverse rispetto al resto dell'Universo. Adesso tutti l'hanno capito e se ne sono dovuti fare una ragione: la Grecia è un paese fortunato.

giovedì 29 agosto 2013

Un'arma è un'arma è un'arma

Eccoci qua, al ritorno dalle vacanze (non le mie, le vostre; della mia prolungata assenza ne parleremo semmai un'altra volta, ma ciò che conta è che ci sono e non ho mai dismesso le antenne), e puntuale come una collezione a fascicoli settimanali di soldatini della Prima guerra di indipendenza dipinti a mano, ci troviamo per le mani un nuovo bello slogan fresco e fragrante come un cocomero per la sete dei media mondiali: "Oscenità morale". Uno di quei bei modi di dire che, le scommesse sono aperte, è destinato a prendere la residenza per molto tempo nel nostro vocabolario. Una di quelle espressioni prêt à penser, per convincervi che lo sia sul serio, un'oscenità morale, dunque per farvi pensare che esista sul serio una differenza specifica tra un'arma chimica e un'altra arma, per esempio, nucleare e che in questo modo le si possa riporre su due piani morali diversi, uno migliore e uno peggiore. Però ammazzano entrambe. E parecchia gente tutta insieme (non di rado innocenti). E, per giunta, la fanno soffrire sempre in modi piuttosto antipatici, sempre che esista un modo simpatico di soffrire.

Voglio dire, lo potrei capire se un'arma nucleare ti uccidesse (è quello per cui è costruita, no?), ma subito prima di farlo, per almeno una decina di secondi, ti facesse - che so - sbellicare dalle risate, di quelle risate che ti capitano sì e no due volte nella vita, che ti devi tenere la pancia, che non riesci a respirare, che hai le lacrime agli occhi e ti senti scoppiare tutto e pensi che non ce la farai mai a sopravvivere, ma tanto in un momento simile non importa granché. E difatti non a caso proprio in quel momento lì, il fungo velenoso ti porta via e di te resta solo il ricordo come una radiografia su un muro. Oppure, meglio ancora, se ti facesse avere l'orgasmo del secolo, una roba atomica, insomma, da andarci proprio fuori di testa. Cioè, tipo che l'Enola Gay arriva lì, sull'obiettivo, ti sgancia il bombone (quanto bello sarebbe se fosse anche di un bel blu-viagra?), ma un attimo prima del fungo, una radiazione sottile o una vibrazione subsonica o quello che volete voi, vi comincia a titillare cazzi e fiche (scusate, ma qui mi ci voleva proprio), che i primi si inturgidiscono tipo incredibile Hulk che nemmeno a quattordici anni e le seconde si allagano tutte che nemmeno il Titanic, perfino quelle delle signore in età che cominciano a guardarsi in giro dietro gli occhiali, una mano davanti alla bocca a forma di O, chiedendosi cosa diamine sta succedendo alle mie mutande ortopediche?, che la loro memoria non è più quella di una volta, e intanto le suore nei confessionali pensano alla miracolosa concessione di una grazia straordinaria e si segnano a ripetizione. Insomma un'intera città che geme e sospira e si bagna e schizza in una strana orgia solitaria, una piccola morte condivisa che funge da degno viatico a quella più grande. Tanto in un momento simile non importa granché. Ecco, così almeno lo capirei. Anch'io direi: 'fanculo alla chimica e diamoci dentro con il nucleare. Per taluni potrebbe essere perfino la chance di una vita.

Del resto, sembra che il numero effettivo delle vittime dell'attacco della scorsa settimana in Siria (1300 secondo le fonti dei ribelli, sempre che sia stato effettuato davvero col gas nervino, cosa su cui sospendo il giudizio non avendo prove dirette) sia stato comunque assai inferiore alla media delle vittime per armi da fuoco negli USA. Pare che la statistica a riguardo (se corrisponde al vero) si aggiri intorno alle 33 vittime al giorno, per un totale di oltre 10.000 morti ammazzati ogni anno. La diluizione nel tempo e la moltiplicazione nello spazio delle dita che premono i grilletti (o i loro equivalenti) cambia qualcosa rispetto a chi d'un tratto si ritrova nella fossa e alle famiglie che vengono precipitate nel baratro del dolore per colpa di qualche squilibrato armato fino ai denti?

Qualunque arma è moralmente oscena e se permettiamo che ci dicano che alcune sono peggiori di altre, significa implicitamente che ci stanno insegnando che alcune sono migliori e, in questo modo, hanno già deposto il seme per convincerci ad accettarle.

giovedì 10 gennaio 2013

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