Perchรฉ narrare, anche (o soprattutto) la prosaicitร della nostra vita, significa tre cose. La prima รจ il consolidamento nella memoria dello scorrere continuo del tempo, un modo per riafferrare un passato che ci sfugge in continuazione e sul quale abbiamo bisogno di mettere delle bandierine che traccino i contorni di quello che siamo. La seconda รจ la costruzione di una mitologia personale, qualcosa che affranchi i meri accadimenti dal piano della realtร e li riporti, solo per il fatto di essere scelti per essere narrati (magari farciti dalla marmellata dell'iperbole), su un piano piรน alto, piรน importante, piรน degno, e con essi anche il narratore e la sua esistenza. La terza รจ la messa in comune di qualcosa di nostro che, grazie all'interesse dell'interlocutore, ma basta anche solo presunto tale, funge per noi - per dirla con David Foster Wallace - da antidoto contro la solitudine.
ร da questa scintilla, in breve, che scaturisce la letteratura, come un banale versione 2.0 di quest'intimo bisogno primordiale. La letteratura, semplicemente, allarga quest'orizzonte, lo schematizza, lo istituzionalizza, lo professionalizza, e mette un grandangolo (o un microscopio) di fronte al panorama circostante, oppure chiude gli occhi ed esplora universi alternativi per arricchire l'esperienza (e l'esistenza) di chi scrive e di chi legge, di chi narra e di chi ascolta, in quanto consente di vivere piรน vite nel tempo di una sola. Insomma, noi siamo i nostri racconti ben piรน di quello che crediamo. E per fare una buona crostata, la pasta frolla รจ tutto.
Se non hai niente da raccontare, non stai vivendo.
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