Punti di vista da un altro pianeta

lunedì 28 ottobre 2013

Elegia dei sensi perduti (forse per sempre)

Quando qualcuno chiedeva a George Mallory perché voleva andare in cima all'Everest - cosa che provò a fare per ben tre volte prima di restarne vittima nel 1924 - lui rispondeva: «Perché è lì». Così, semplicemente. Una risposta all'apparenza quasi ingenua, ma perfetta per tracciare gli smisurati contorni di un gesto epico, come quello dell'esplorazione, della conquista, dello spingersi oltre i confini conosciuti, dell'arrivare dove nessuno è mai giunto prima anche a rischio della vita, la cui utilità è dunque - di fatto - tutta e solo culturale.

Perché andare sulla Luna? «Perché è lì». Perché conquistare il Polo Sud? «Perché è lì». Perché andare su Marte? «Perché è lì». Eppure, oggi, alle orecchie della maggioranza quel «Perché è lì» è una risposta che suona incomprensibile come la frase astrusa di una lingua dimenticata, in quanto fa parte di una grammatica concettuale ormai colonizzata, rimodellata, stravolta da nuovi paradigmi. Una società in cui la tecnologia ha abituato l'umanità a vedere svelata ogni cosa con lo sforzo di un clic, e che in questo modo ha smarrito il senso di ogni mitologia (e dunque di ogni immaginazione), trova insensato il gesto della conquista fine a se stessa, perché la conquista ha proprio a che vedere, prima di ogni altra cosa, con il mistero, la mitologia e l'immaginazione. E questa lacuna la si ritrova tanto più radicata nelle giovani generazioni, programmate negli ultimi vent'anni al principio assoluto dell'utilitarismo-a-tutti-i-costi. Insomma, tu sei lì che - magari - gli parli davvero di esplorazione di Marte e loro ti guardano con il punto interrogativo che gli oscilla piano sulla testa, finché la domanda a un certo punto te la fanno: «Ma a che cosa serve andare su Marte?»

E tu allora, certo, puoi provare a parlargli dell'importanza della ricerca della vita e del come solo un equipaggio - e non un robot - potrebbe riuscire a compierla, del fatto che in fin dei conti, pur con tutte le difficoltà del caso, Marte è l'unico pianeta che l'uomo potrebbe abitare, puoi provare anche a buttare lì come ultima carta (ma non ultima in ordine di importanza) il valore supremo della conoscenza. Ma alla fine puoi stare certo/a che non li avrai convinti, perché tutti questi discorsi alle loro orecchie avranno sempre e comunque più d'una sfumatura accessoria, aleatoria, opzionale. Perché lo sforzo sarebbe titanico e il rischio a esso proporzionato, a fronte di quale reale ritorno? La tua risposta dovrebbe essere, semplicemente: «Perché è lì». Ma se non sono recepite le altre, figuriamoci questa.

Quello che più dovrebbe angosciare, però, è quello che questa perdita implica, perché di autentica perdita si tratta. Perché perdere il senso della conquista e dell'esplorazione, è perdere il senso del mistero, nell'illusione che non ce ne sia più neanche uno (o, ancora peggio, che non ci sia più alcun bisogno di svelare quello che ancora c'è, perché in fondo non è poi così importante), è perdere il senso dell'evoluzione e dell'elevazione umana come nell'assurda presunzione di avere già raggiunto il massimo (o, ancora peggio, che non ci sia più alcun bisogno di spingerci oltre, perché in fondo non è poi così importante), e dunque è perdere il senso del futuro e della nostra speranza in esso.

Ma è anche (soprattutto?) perdere il senso del mandala, ovvero dell'impegno alla realizzazione dell'impresa, ambiziosa, meravigliosa, strabiliante ancorché effimera, in quanto non portatrice di alcun ritorno materiale, perché oggi conta ormai più la meta che il percorso, più la retribuzione finale che l'esperienza, più lo sponsor che il gesto. Come perdere il senso dell'importanza della cultura, anzi quello della vita stesso.

martedì 15 ottobre 2013

lunedì 14 ottobre 2013

Sonata romantica per treno e e-book

Scompartimento di seconda classe. Appena fuori della stazione, il treno riprende la sua corsa, entrando e uscendo dalle gallerie con quel suo ritmo da tango sbagliato. Stai leggendo un epub sul tuo SonyPRS: La notte dell'oracolo di Paul Auster. La porta scorrevole si apre e qualcuno prende posto dal finestrino, proprio di fronte a te. Le scarpe entrano nel tuo campo visivo. Sportive, con qualche lustrino. Lasci un attimo il buon vecchio Paul e sollevi lo sguardo. La tipa, poco trucco, capelli e occhi scuri, auricolari, qualche lentiggine e una bocca che potrebbe anche essere capace di bei sorrisi. I vostri sguardi si sfiorano per un attimo, come particelle di polvere nella casualità di correnti aeree indipendenti. Poi lei ributta la testa nel suo borsone e tu ritorni al buon vecchio Paul. Ma per qualche ragione resti sempre sulla stessa frase, avanti e indietro, come quei trenini da bambini che quando finiscono contro il muro, non c'è verso che si schiodino da lì senza prenderli di peso.

Poco dopo anche la tipa estrae il suo e-book, un Kindle, e attacca a leggere. Intanto il ballo ferroviario continua il suo ritmico corteggiar di rotaie. Ogni tanto alzi lo sguardo e solo alla terza volta ti accorgi che daresti qualcosa perché lo facesse anche lei. Ma non lo fa. E allora, prima che il rischio che lo faccia diventi troppo alto, ti ributti sulla pagina, riflettendo che se lei facesse la stessa cosa, tu non te ne accorgeresti, a meno che il caso non portasse le particelle di polvere in una nuova rotta di collisione. Ma questo non succede neanche ai successivi tentativi e i paragrafi continuano a scorrere come un regionale con troppe fermate. La distrazione è costante. Sei sempre stato un timido e anche lei potrebbe esserlo. Le ragazze con cui ci hai provato ti sono sempre state presentate, non ti sei mai dovuto buttare nel vuoto di un discorso attaccato dal nulla.

Il treno giungerà a destinazione e nemmeno i 35 minuti di ritardo («Ci scusiamo coi gentili passeggeri...») saranno stati sufficienti a far decidere uno dei due a lanciarsi. Perché anche a lei, lui piaceva e anche lei aveva alzato gli occhi molte volte sperando in una concomitanza di granelli. Invece i due scenderanno e ognuno andrà per la sua strada, inghiottiti dai loro destini metropolitani senza nemmeno l'abbozzo di un Ciao. Ma c'è un Universo Alternativo in cui quel giorno, su quel treno, i due si sono conosciuti e tre anni più tardi sono andati a vivere insieme. È seguito un matrimonio, un mutuo, due bambini, tre cani (non tutti contemporaneamente), una cassa integrazione e un cancro. Ma oggi se ne vanno ancora in giro per mano. Quel giorno, sul treno, Roberto e Valeria stavano leggendo lo stesso libro.

Nell'Universo Alternativo non esistono gli e-book.

giovedì 10 ottobre 2013

Bara (bianca) con orsetto

E poi ci sono gli orsetti. Quelli che sono spuntati sulle bare bianche dei bambini morti nella tragedia di Lampedusa. Ma cosa cazzo se ne fanno adesso quei bambini, chiusi dentro una bara inchiodata, di un orsetto? Con quegli orsetti di pezza, sinonimo mondiale di cucciolosa tenerezza, quei bambini avrebbero voluto giocarci, inventarsi delle storie, dormirci abbracciati la notte per cercare un conforto, un salvagente (è il caso di dirlo) alle cose brutte (incomprensibili) del mondo. Invece tocca loro guardarli dal lato sbagliato del coperchio. Dunque qual è il messaggio che chi ha deciso di mettere lì quegli orsetti tutti uguali, ha voluto mandare?

È tradizione antica e di tutte le culture che la bara del morto venga ornata di fiori o di testimonianze di affetto di coloro che restano da questa parte. E non si può escludere che nel caso dei bimbi di Lampedusa la cosa non sia stata fatta con lo stesso (nobile) intento. Ma nel caso avrei almeno voluto vedere una processione di superstiti posare gli orsetti su quelle bare. Invece gli orsetti sono spuntati come funghi sulle bare nell'hangar dell'aeroporto dell'isola, quindi non credo che i superstiti abbiano avuto qualcosa a che vedere con questa comparsa, ma piuttosto ritengo sia stata una qualche decisione delle autorità incaricate di allestire la camera ardente.

E proprio quell'omologazione dei quattro orsetti tutti uguali, nuovi di zecca, magari comprati col 3x2 al più vicino discount da qualche addetto del Comune in fretta e furia a beneficio dei media, dunque non un giocattolo che quei bambini si erano portati da casa, magari come unico bagaglio verso un orizzonte incognito, che probabilmente non erano nemmeno in grado di comprendere, anzi probabilmente faceva paura, mi dà la netta sensazione di un odioso (e schifoso nella sua zuccherosa retorica) spettacolo allestito dall'Italia a beneficio del mondo.

Come se adesso all'Italia di quei bambini importasse qualcosa. Se non importava niente di loro prima che annegassero (e le leggi in vigore stanno lì a dimostrarlo), perché dovrebbe importare qualcosa adesso?

mercoledì 9 ottobre 2013

Il piacere di un bambino morto

Prendete una strage. Una qualunque, purché con un bel numero di vittime innocenti. Più sono i corpi, nel fango, sul mare, o sotto le macerie, meglio è. Come la sciagura di Lampedusa di qualche giorno fa, o come l'ecatombe del Vajont, di cui proprio oggi, 9 ottobre 2013, ricorre il cinquantesimo anniversario. Dopodiché prestate bene orecchio a come i media, telegiornali su tutti, riportano la notizia delle vittime. Sempre e comunque verrà evidenziato il numero di donne e, soprattutto, bambini. Nel caso del disastro del Vajont, per dire, il numero di morti stimati fu 1918, di cui 487 bambini. E vedrete che i telegiornali non mancheranno mai di rimarcarlo. Perché?

Forse il valore della vita di un essere umano viene contabilizzato in base a quanti anni ha potenzialmente ancora davanti a sé? O non è invece vero che tutte le vite, di fronte a una tragedia di simili proporzioni, sono uguali? Se nel Vajont i bambini fossero stati solo 3, o se anche non ce ne fosse stato nessuno, la tragedia sarebbe stata meno tragica?

Invece i media non mancano mai di porre l'accento sul fatto che tra le vittime c'erano "donne e bambini", snocciolando i numeri, possibilmente, se impressionanti. Altrimenti restano sul vago, ma non rinunciano mai all'occasione di solleticare l'emozione dello spettatore, l'empatia, la compassione. Anche senza la necessità di spingerlo alla lacrima, beninteso. Anche perché spesso lo spettatore è comunque troppo distante per commuoversi.

Ma quel piccolo tic interiore causato dall'essere costretti (inutilmente) a porre l'attenzione al numero di bambini morti, crea nello spettatore una reazione emotiva che, in quanto tale, e per quanto piccola (non importa se collegata a un evento negativo), viene istintivamente percepita dallo spettatore come una cosa buona (illude lo spettatore alla partecipazione e alla non-indifferenza, quando in realtà allo spettatore non frega un accidente di quelle vittime) e crea così una connessione di solidarietà e fiducia con chi l'ha catalizzata, rinsaldando il legame dello spettatore con il media stesso, che è proprio lo scopo (ultimo) che il media vuole.

venerdì 4 ottobre 2013

Breaking Bad, un po’ Delitto e un po’ Castigo (no spoiler)

La serie TV Breaking Bad, almeno negli USA, è giunta al capolinea qualche giorno fa, accompagnata nelle settimane precedenti alle ultime puntate da un'eco crescente che ha fatto emergere una serie cominciata e proseguita in sordina (a dispetto di premi su premi raccolti nelle varie stagioni), in quello che di fatto è: un vero e proprio fenomeno clamoroso che l'ha portata a essere unanimemente considerata una delle migliori serie TV mai prodotte, qualcosa in grado di influenzare sia l'immaginario popolare che il modo di fare narrazione televisiva.

La vicenda umana di Walter White è un'epica al contrario, una cristallina discesa all'inferno senza ritorno, alimentata prima dalla prospettiva della buona azione, poi confessata dalla realtà di uno sfrenato, velenoso, imbattibile orgoglio. Nel mezzo, cinque stagioni di lento apprendistato al male, prima semplicemente rimbalzato come conseguenza passiva delle proprie azioni, poi meditato e pianificato con attiva consapevolezza. Ma in fondo la vita non sono tanto le azioni, quanto le loro conseguenze. E dunque Breaking Bag trova la sua cifra nel drammatico confronto continuo delle scelte di W.W. con le ripercussioni (spesso - sempre? - dolorose) che esse hanno non tanto su di lui, quanto piuttosto su coloro che lo circondano, moglie, figli, parenti, complici, amici e nemici.

Sorretto da una continuity fenomenale e da una scrittura solidissima, da personaggi dalle caratterizzazioni magistrali (tutti quanti, non solo i protagonisti), con pochissime e irrilevanti sbavature, per non parlare delle straordinarie prove attoriali, Breaking Bad racconta il viaggio in un tunnel in cui tutti potremmo entrare e, una volta dentro, in cui tutti potremmo essere W.W., segno che in fondo il male, quello vero, quello che implica il Dolore impartito con il massimo del cinismo agli altri, è solo un passo avanti a noi, dietro l'angolo più vicino, nel panorama della nostra coda dell'occhio, a volte anche solo come una non-azione (e qui chi ha visto la serie sa perfettamente di cosa parlo: l'azione peggiore commessa del protagonista è proprio una non-azione).

Ma più di ogni altra cosa, Breaking Bad è un capolavoro assoluto. Non bisogna avere paura di usare queste parole per una serie TV. Perché Breaking Bad non ha niente da invidiare alla forza di Delitto e Castigo di Dostoevskij. Non ha niente di meno. E non si deve pensare che solo il fatto di essere un prodotto per il piccolo schermo (con gli stacchi pubblicitari e tutto quanto il resto), piuttosto che letterario, ne sminuisca il valore. Anzi, piuttosto lo aumenta. Perché in un'epoca dominata dal glamour e dal glitter, dall'apparenza e dall'effetto speciale, Breaking Bad (un telefilm dove non c'è nemmeno una gnocca protagonista) pianta i suoi denti nell'animo dell'Uomo e ce lo rovescia sul tavolo della cucina all'ora di cena, mostrandoci tutta la sua capacità di ferocia e implacabilità e facendoci inorridire come di fronte ai miasmi della nostra stessa autopsia. Gente, se non è un capolavoro questo...

giovedì 3 ottobre 2013

La sindrome dell'autoscrittore

Se, come da sempre sostengo, l'introduzione delle tecnologie di wordprocessing, dagli antidiluviani WordStar su MS-DOS, agli avanzatissimi Word e OpenOffice, è stata l'introduzione del Male nel mondo letterario, avendo favorito la moltiplicazione del numero di (pseudo)scrittori in circolazione - provate a scrivere un romanzo a mano o con una Lettera 22, poi ne riparliamo -, l'arrivo dei Social Network, coniugato alla diffusione dell'ebook (e dunque alla sciagurata possibilità dell'autopubblicazione indiscriminata), è stato l'equivalente dell'evocazione della Bestia e di tutte le sue legioni di diavoli.

Perché ormai, se siete connessi a Twitter, Facebook, gruppi, pagine fan, ma anche a forum, blog eccetera, e vi interessate in qualche modo di letteratura ad ampio spettro, difficilmente riuscirete a scansare le legioni di sconosciuti autoscrittori cavalletta che, come l'ottava piaga d'Egitto, ti inseguono brandendo la segnalazione delle loro (imperdibili!) opere come asce. Seguono recensioni (sempre entusiastiche!), statistiche di vendita di Amazon (sempre ai primi posti!), estratti (mozzafiato!) e offerte speciali (presto, presto che scadono!). E lasciamo perdere i (penosi) booktrailer, grazie.

Ora, premessa l'odiosità di questo comportamento, invito tutti costoro - ma anche coloro che pensassero di seguirne le antipatiche orme - i quali avessero la (smisurata) fortuna di leggere questo post, di riflettere per un momento su cosa spinge un lettore (vero) a comprare un libro (vero). Esercizio tutt'altro che peregrino. Innanzitutto credo sia necessario distinguere tra diverse categorie di autori. Per esigenze di brevità, mi limiterò a tre significative: (1) gli autori famosi ai più (e affermati), (2) gli autori sconosciuti ai più (ma affermati), (3) gli autori sconosciuti ai più (ma esordienti, o comunque non affermati).

A tutti i lettori capita di leggere molti libri della categoria (1), da Wallace a Auster, da Dostoevskij a Melville ecc. ecc. ce ne sono a bizzeffe. Del resto, se sei un lettore (vero), serio e appassionato, e dunque ti informi, parli, discuti, cerchi, sei curioso, ami sperimentare, nel labirinto dell'editoria scoprirai anche scrittori della categoria (2) meno conosciuti, ma ugualmente validissimi, ancorché non illuminati dai riflettori della ribalta. In fondo queste due categorie coincidono nel fatto che si tratta comunque di scrittori che hanno raggiunto una legittimazione del pubblico a stare lì in base alla qualità del loro lavoro. Se però tu sei uno scrittore della categoria (3) - e non sei nemmeno mio amico - perché io dovrei acquistare un libro tuo, piuttosto che di uno dei milioni di altri sconosciuti come te, e dedicarti tempo prezioso (e insostituibile) della mia vita?

Comprare un libro, ancorché un ebook da pochi centesimi, significa comunque sborsare dei soldi, e nel caso dei libri i soldi si tirano fuori perché possiedono un qualche tipo di garanzia. Una garanzia che (parlo soprattutto della narrativa), se non è data dall'autore stesso in quanto sconosciuto, può anche essere solo sottoscritta implicitamente dalla casa editrice, di cui abbiamo imparato a fidarci perché sappiamo essere garante di scelte editoriali di qualità, o dalla collana, o dal curatore (se si è lettori così sofisticati da tenere d'occhio queste cose). Difficile che, in mancanza di uno di questi aspetti, si prenda in mano un libro di narrativa. Figuriamoci dunque quando c'è di mezzo l'autopubblicazione, in cui i tre suddetti aspetti sono del tutto assenti.

E allora? Allora, cari autoscrittori, che raramente perdete l'occasione di proclamarvi tali, considerate che si legge chi piace come scrive, chi piace cosa scrive, temi, stili, prospettive. Si legge chi in qualche modo si è imparato a stimare, direttamente, o perché qualcuno di cui ci fidiamo ci ha assicurato che in qualche modo può valerne la pena. Una specie di sponsor, insomma. Ma autorevole. Vi piaccia o no è così che in qualche modo funziona. Tutto il resto, fidatevi, è sollecitazione all'indisponenza (dunque controproducente) e un'illusione di possibilità di successo che invece è tempo prezioso buttato nel cesso.

martedì 1 ottobre 2013

Quell'ultima fetta della torta Barilla

Supponiamo per un momento che Mr. Barilla non sia l'idiota che è apparso a molti (ma non tutti). Dopodiché proviamo a fare quest'esercizio. Immaginiamo che Barilla l'altro giorno non abbia parlato a vanvera ai microfoni della Zanzara, ma lo abbia fatto in seguito a una ben precisa strategia, pianificata con il suo Direttore Marketing e approvata dal CDA, in quanto risultato inequivocabile di approfonditi (e costosi, dunque veri) studi di settore, ricerche di mercato, sondaggi di opinione e analisi psicosociologiche comparate, in base ai quali sarebbe redditizio dal punto di vista del mercato schierarsi dalla parte di quella fetta della torta dei consumatori costituita dagli omofobi.

Però quando si entra in territori del genere non è il caso di esagerare. Dunque magari non proprio coloro che gli omosessuali li prenderebbero a sprangate, li brucerebbero in piazza o si augurerebbero per loro la castrazione chimica obbligatoria, che peraltro (si spera) sono pochi e quindi poco rilevanti dal punto di vista delle quote di mercato di Macine e Galletti. Allora però nemmeno quelli che dicono che "l'AIDS è la giusta punizione divina" oppure "sì, vabbè, però devi ammettere che sono contro natura, perché la natura è per la riproduzione". Costoro saranno un po' di più naturalmente, ma di certo ancora non abbastanza da influenzare Farfalle e Rigatoni. A 'sto punto, pertanto, neanche coloro cui gli LGBT fanno schifo o che "però dovrebbero fare qualcosa perché, è inutile girarci intorno, questi sono ma-la-ti". Sebbene il loro numero sarà ancora un tantino più elevato, non ci sarà da preoccuparsi per Pasta Voiello e Pavesini (sì, pure loro). E dunque, infine, neppure coloro che li chiamano ricchioni/ossi buchi/culi sfranti/ecc. ecc., o che si danno di gomito alle spalle del collega che lo sanno tutti che "gli piace prenderlo in culo", i quali, benché saranno decisamente molti di più, di certo non è gente che mangia pasta o prodotti da forno.

Ora, a parte gli LGBT, chi c'è rimasto sulla glassa della torta laggiù?

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