Punti di vista da un altro pianeta

martedì 7 giugno 2016

"Flemma", Paolacci e il labirinto di una generazione

Flemma. Lo leggi e ti spiazza. Lo leggi e ti sorprende. Lo leggi e dici "Cazzo, come scrive bene questo qui". Lo leggi e poi lo rileggi, perché come diceva qualcuno (chi?, aiutatemi), solo i libri che meritano di essere riletti, meritano di essere letti una prima volta. E quello di Antonio Paolacci merita di essere letto e riletto, perché il suo è il viaggio pazzesco, originale, nitido e acuminato di una generazione che cerca disperatamente un modo di essere, uno scopo, che si guarda allo specchio e cerca di capire che cosa è quell'immagine lì, un viaggio che vi resterà appiccicato addosso come solo i libri veri riescono a fare.

Non è semplice parlare di Flemma, opera prima di Antonio Paolacci, uscita nel 2007 per Perdisa del compianto Luigi Bernardi e rieditato una manciata di mesi fa per Morellini Editore. Perché Flemma è un romanzo intenso e corale con una sfuggente struttura a mosaico, a ragnatela, un pugno di personaggi indimenticabili, ciascuno immerso nella propria storia e nel proprio dramma personale, nella propria inquietudine, nella propria "flemma", appunto, come una sorta di depressione vagante o di dedalo malinconico dai quali i personaggi vorrebbero uscire, e un quadro che emerge soltanto verso la fine, quando le tessere giungono a composizione e il disegno d'insieme si chiarisce.

Flemma, per esempio, è la storia (soprattutto) di Davide, attore che offre monologhi improvvisati nei Centri Sociali, monologhi che urlano tutta l'angoscia di non trovare una strada, una collocazione nel mondo, una capacità di amare, nonostante la voglia disperata di trovarle, tutte queste cose, compreso l'essere amati, come risposte implorate a un mondo muto, indifferente a un'intera generazione che forse non sa neanche farle, le domande giuste. Ma è anche la storia di Chiara, fumettista, angosciata, desiderosa di morte, come di una via di uscita da un tunnel disegnato da lei stessa; di Macaco, vent'enne, immerso in una vita di silenziose assenze familiari e sguardi che parlano di disillusione e di incapacità di cambiare un destino già segnato dal fallimento, come un peccato originale senza possibilità di battesimo; di Luca tredicenne che si scopre omosessuale e che dovrà fare i conti con questa realtà nei confronti di un gruppo, che ci mette niente a trasformarsi in branco.

Curiosamente, su tutto aleggia la figura di Julian Jaynes e del suo celebre Il crollo della mente bicamerale e l'origine della coscienza, come un etereo filo conduttore, un curioso catalizzatore di considerazioni relative alla nostra personalità, a quello che facciamo e al perché lo facciamo, alle decisioni che prendiamo e al perché le prendiamo. In pratica, al perché siamo quello che siamo, ovvero alla difficoltà a capire noi stessi. In fondo, come dice Paolacci, "pensare a se stessi, a ciò che si compie, che si dice, che si considera, alle decisioni che si prendono e a tutto ciò che si sta vivendo nel frattempo, è come usare una torcia elettrica in una stanza buia."

Insomma, è una specie di strada (forse) senza uscita quella che tratteggia Paolacci con la grande abilità di un narratore capace di tessere una tela facendoci vedere solo un filamento alla volta, anche se l'apice – a mio avviso – lo raggiunge nei monologhi di Davide (specialmente l'ultimo, davvero eccezionale), da cui emerge con forza espressiva davvero notevole l'esperienza drammaturgica dell'autore. Così, come mosche, si resta impigliati nel suo ingranaggio che ci mostra l'incapacità di trovare un compromesso tra la voglia di ribellione allo status quo e il seguire le orme delle generazioni passate, tra il cercare se stessi e il non sapere da che parte guardare, tra il soddisfare i desideri e seguire gli istinti di questa nostra carne e il rischio che tutto questo ci porti all'autodistruzione.

Ultima notazione. Nonostante, come dicevo, la prima uscita di Flemma sia datata 2007, leggendolo a nove anni di distanza (sebbene quest'edizione sia stata rivisitata dall'autore, ma non mi è dato sapere in che misura) non ho percepito alcun tipo di invecchiamento. Forse è segno che i tempi non sono cambiati in maniera sostanziale. O forse, piuttosto, è sintomo che questo romanzo ci parla a un livello molto più profondo e intimo rispetto alle contingenze secolari, perché ci sbatte in faccia la fatica di esistere e di essere umani, ci mostra dall'alto il labirinto nel quale fin dall'adolescenza ci ritroviamo senza che nessuno ci abbia mai detto quello che dobbiamo fare, ci mette nudi di fronte alle contraddizioni attraverso cui tutti - in qualche modo - siamo costretti a passare, quelle che fanno parte del diventare adulti e che ci spingono a trovare il nostro posto nel mondo o di distruggerci nel tentativo.

Flemma, di Antonio Paolacci, 186 pagg., 11,90€ - Morellini Editore

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