Punti di vista da un altro pianeta

giovedì 20 ottobre 2016

Nobel a Dylan: come una specie di controcampo

Il Premio Nobel per la Letteratura a Bob Dylan ha scatenato la corsa all'opinione di moltitudini di gente che ascolta musica, ma non legge letteratura e di gente che legge letteratura, ma non ascolta musica. E sì, anche di qualcuno che talvolta fa entrambe le cose e che talvolta le fa pure contemporaneamente. Per quanto mi riguarda mi ritrovo tra coloro che trova discutibile l'assegnazione del Premio al cantante americano e ho letto in giro numerose efficaci discussioni a suffragio di questa opinione. Ma non voglio aggiungere ulteriori banali argomentazioni a qualcosa di già ampiamente sviscerato spesso con arguzia e intelligenza. Quello che voglio fare è esporvi la questione sotto un altro aspetto, anche perché il Nobel, che Dylan decida di presentarsi o meno il prossimo 10 dicembre a Stoccolma, ormai è stato assegnato. L'aspetto sul quale dunque voglio farvi soffermare e che potrebbe illuminare di luce diversa l'intera questione, è valutare le conseguenze di questa scelta. Perché ogni scelta ha delle conseguenze ed esse finiscono forse per essere più importanti delle stesse ragioni che hanno portato a quella scelta e che sono state così tanto dibattute in questi ultimi giorni.
Ebbene, credo che questa decisione abbia delle conseguenze sostanzialmente su sei soggetti:
1) Bob Dylan;
2) il mondo letterario;
3) l'industria editoriale;
4) l'industria discografica;
5) il pubblico (sia esso di lettori o di ascoltatori di canzoni);
6) l'Accademia svedese.
Valutiamole brevemente una alla volta.

1) Bob Dylan
Il vincitore di un Premio Nobel guadagna oggi 8.000.000 SEK (corone svedesi), ovvero, al cambio di oggi, 825.130€. Questa dunque è la cifra che l'Accademia erogherà a Bob Dylan, euro più euro meno. Pensate che questo cambierà la sua vita? Si ritiene che Bob Dylan abbia venduto in carriera circa 100 milioni di dischi. Questo, per lo meno, è l'ordine di grandezza. Siamo sui livelli di Lady Gaga, Bon Jovi e Rod Stewart, per intendersi. D'accordo, distanti dai Beatles, i Rolling Stones e Michael Jackson, ma comunque un livello di tutto rispetto. Ora, pensate che gli ottocentomila e rotti euro facciano qualche differenza per Bob Dylan? No. Pensate quello che volete, ma Bob Dylan è (già) ricco. Pensate che il premio lo renda più famoso? No. Bob Dylan è già strafamoso. Dunque, pensatela come volete, ma l'attribuzione del Premio è per Bob Dylan qualcosa di ridondante sia rispetto al suo conto in banca, sia nei confronti della sua fama mondiale. Come ha detto Leonard Cohen: "Dare il Nobel a Dylan è stato come dare all'Everest una medaglia perché è il monte più alto del mondo."

2) Il mondo letterario
Va detto che, tranne rari casi (tipo, per esempio, il buon vecchio Don DeLillo, ma del resto come altro avrebbe potuto rispondere un americano candidato allo stesso Premio?), sembra che la categoria "scrittori" si sia scagliata contro la scelta dell'Accademia svedese come un unico coro di dissenso. A costoro è stato replicato parlando di "gente che rosica", o di gente che vive questa scelta come uno "scippo alla categoria". Siamo nei territori delle opinioni, dunque se perfino Ventura è diventato CT della Nazionale, significa che alla fine va bene tutto. Va osservato che però con quest'assegnazione l'Accademia non ha fatto un bel servizio al "romanzo", inteso quest'ultimo come modalità espressiva per l'analisi, l'indagine e la descrizione della realtà e della società, del presente e di quello che ci aspetta nel futuro, perché nei confronti del pubblico il "romanzo" esce da questo Nobel, se non proprio con le ossa rotte, quanto meno con l'occhio nero di un'espressione artistica depotenziata.

3) L'industria editoriale
Conseguenza diretta di quanto sopra, in un mondo dove c'è sempre bisogno di un incentivo alla lettura, la decisione dell'Accademia di premiare un cantante (che nel 99,999% dei casi si ascolta e non si legge), è perdere l'occasione di dare un pur piccolo impulso alla lettura e all'industria editoriale, a partire da chi i libri li pubblica, fino ad arrivare a chi i libri li vende. Le librerie sono state contente che il Premio sia stato assegnato a un cantante? No. Proveranno a consolarsi con le sue biografie e i libri coi testi delle sue canzoni. Ma temo non sarà la stessa cosa.

4) L'industria discografica
Pare invece che l'assegnazione del Nobel a Bob Dylan abbia aumentato del 512% gli ascolti su Spotify. Ebbene, questo è un effetto collaterale del tutto involontario al Premio, ancorché prevedibilissimo. Non credo che gli accademici di Svezia abbiano degli interessi in Spotify, ma resta il fatto che di questo aspetto ne traggono beneficio i soci di Spotify Ltd. Lo stesso vale per le vendite di dischi attraverso altre piattaforme o supporti che, ci possiamo scommettere, risulteranno incrementate in maniera significativa almeno finché durerà l'Effetto Nobel.

5) Il pubblico (sia esso di lettori o di ascoltatori di canzoni)
Al di là delle scaramucce dei primi giorni tra sostenitori e detrattori, cosa cambierà per il pubblico questo Nobel? Ci avrà fatto conoscere qualcuno di nuovo? Ci metteremo ad ascoltare Bob a tutto spiano? Analizzeremo la sua opera poetica? L'opinione mia è che, passato l'effetto emozione/nostalgia che sostiene il punto precedente, tutto tornerà (esattamente) come prima. Chi apprezzava Bob Dylan e lo considerava un dio, continuerà ad apprezzarlo e a considerarlo un dio; chi lo considerava solo un gran cantautore, continuerà a considerarlo solo un gran cantautore; a chi, infine, di Bob non gliene è mai fregato un cazzo, difficilmente il Nobel cambierà le prospettive. Insomma per il pubblico, la scelta di questo Nobel è stata la cosa più inutile della Terra.

6) L'Accademia svedese
Come escono da questa storia coloro che il Premio lo hanno attribuito? Di certo hanno rivendicato al mondo una forte, fortissima autonomia di giudizio. Per la serie, noi siamo l'Accademia svedese e facciamo quello che ci pare, in barba alle vostre previsioni ed eventualmente anche alla vostra stessa idea di letteratura. Secondariamente l'Accademia ha rivendicato anche il diritto di decidere che cosa è Letteratura. In altre parole ha rivendicato su di sé un potere culturale enorme, che forse non aveva, o che forse aveva ma, negli anni, aveva perduto. In terzo luogo, la scelta ha fatto sì che il mondo parlasse dell'Accademia in una maniera straordinaria, spropositata, smodata. Se avesse vinto – poniamo – il buon vecchio Don DeLillo, si sarebbero accorti della sua esistenza solo coloro che entrano in libreria. Così, al contrario, tutti si sono interessati al Premio come forse non è mai accaduto nella sua storia. E questo fermento, come uno yogurt a lunghissima scadenza, promette di sopravvivere almeno fino al prossimo anno, quando, visti i trascorsi del 2016, saremo tutti ancora più interessati a sapere chi l'Accademia avrà scelto per il Premio Nobel per la Letteratura 2017.

Quindi, insomma, alla fine chi credete che ci abbia guadagnato di più?

domenica 4 settembre 2016

Dindalé, come quel “chissenefrega” di cui abbiamo bisogno tutti

Una cosa bisogna dirla subito. I racconti brevi per gli autori (soprattutto quelli esordienti o emergenti) sono un'arma a doppio taglio e lo è anche il modo con cui normalmente vengono pubblicati: le raccolte. Da un lato il racconto è una narrazione complessivamente più semplice da gestire e dalla quale è richiesto all'autore un tempo minore per pervenirne a un'opera compiuta, dall'altro però - proprio per la sua brevità - il racconto ha bisogno di sprigionare tutta la sua forza linguistica e tematica in poche pagine, perché il lettore è questo che chiede a un (bel) racconto breve. Quindi, in pratica, da un lato l'autore di racconti si semplifica la vita, dall'altro però se la complica e non di poco. Ma non è solo questo. Quando un autore emergente pubblica oggi una raccolta di narrativa breve, mediamente ci mette tutti o almeno la gran parte dei racconti che ha scritto. Quello che voglio dire è che, in questi casi, non si tratta quasi mai di "antologie", ovvero di raccolte di testi scelti tra una messe molto più vasta, magari anche in base a un filtro basato sull'apprezzamento ricevuto dal pubblico nel corso di anni grazie ai riscontri su altre pubblicazioni, anche perché purtroppo questa modalità in Italia non è (più) possibile, perché di fatto in Italia il singolo racconto non ha vetrine e non ha mercato, non sapendo bene se la prima mancanza è causa della seconda, o viceversa. Dunque gli autori, sia quelli emergenti, che quelli già affermati, che vogliono cimentarsi con la narrativa breve, devono compilare delle raccolte i cui contenuti non sono già passati al vaglio del pubblico, dunque con il rischio di avere, nell’ambito dello stesso volume, una certa disomogeneità di testi. Considerazione questa, che è amplificata enormemente dalla soggettività del lettore, per cui alla fine è sempre piuttosto difficile trovare una raccolta di narrativa che ci soddisfi in toto. C'è sempre fisiologicamente qualche racconto che si apprezza meno degli altri e questo finisce per depotenziare sempre in qualche misura l'oggetto letterario chiamato "raccolta di racconti", chiunque ne sia l'autore, beninteso. E questo è un ulteriore rischio intrinseco cui l'autore di una raccolta di racconti si espone solo per il tipo di proposta letteraria che fa. A questo punto, prima di andare al sodo, devo aggiungere anche un'altra cosa. Personalmente non amo troppo la narrativa breve. Pochissima narrativa breve mi soddisfa quanto un bel romanzo. Tra gli italiani mi viene da citare Buzzati (inarrivabile) e, in qualche misura, Calvino (il cosmicomico). Per dire, il celebrato e obiettivamente geniale Landolfi non mi fa proprio impazzire. Mentre tra gli stranieri, trovo Carver piuttosto noiosetto, apprezzo a corrente alternata Bukowski e Cheever, mentre adoro quasi tutto Saunders e Chiang e parecchio Wallace (quando non esagera).

Tutto questo per dire cosa? Innanzitutto che pubblicare una raccolta di racconti sembra semplice, e in qualche misura lo è, ma pubblicarne una apprezzabile non lo è affatto. In secondo luogo che io con i racconti sono un rompiballe. Così, quando mi sono accostato a Dindalé (ma cosa diamine è 'sto Dindalé?) di Armando Vertorano sono partito con un certo scetticismo, che non è un pregiudizio, ma è comunque un posizione di attesa guardinga, del tipo: ok, sei tu che devi dimostrarmi qualcosa: vediamo cosa sai fare! Dico subito che l'idea del Dindalé, che Vertorano doverosamente spiega all'inizio del libro, mi è piaciuta moltissimo. Ha dentro qualcosa di molto umano e di familiare, un tocco speciale, sia nell'idea in sé, sia nel modo con cui viene presentata, ovvero quel modo particolare che sua madre usava (o usa ancora?) per rispondergli "chisseneimporta!" a fronte di una sua richiesta di bambino, una maniera molto elegante, ma anche dal suono esotico o magico nel suo essere espressa attraverso una formula inventata (e quindi in questo modo anche affettuosa, perché espressione di un linguaggio segreto di cui solo gli interlocutori sono depositari del significato), per dirgli "ma lascia perdere!". Di certo era un modo molto furbo per chiudere le questioni. Se fosse un gioco di ruolo, come si dovrebbe rispondere a un Dindalé? Sembra l'arma definitiva! Partendo da questo concetto e ampliandolo alla vita di tutti i giorni, a quei muri che la vita adulta ci chiede a volte di scavalcare, a volte di abbattere, dopo magari esserci schiantati, Vertorano confeziona una raccolta di racconti davvero particolare, perché partendo da situazioni minimaliste ci attesta quasi sempre un elemento di più o meno lieve surrealismo con il quale fa deragliare il racconto su binari solo leggermente paralleli alla realtà, ma con il quale catalizza la forza delle sue storie. Per dire, avete mai pensato che se smettessimo di lavarci, potremmo vivere per sempre (Sia maledetta l'acqua)? Oppure che un colpo di tosse possa diventare un'opera d'arte (Il colpo di tosse)? O ancora come potrebbe fare il turista un cieco (Il turista)? O ancora cosa fare se andassi a cercare un navigatore perché ti sei perso, ma trovassi tutt'altro (Dialogo tra un venditore di navigatori e un tizio che si è perso, un racconto equidistante tra Buzzati e Leopardi)? Ma ce ne sono anche altri dove il surrealismo è più delicato, tipo quello del camionista il quale nel corso di una consegna importante, a un certo punto fa una deviazione assurda (che non vi dico quale, ma il titolo del racconto è Venere) o quello in cui lo scrittore chiede al proprio editor cosa fare della propria vita come fosse il finale di un libro (Il finale)? E poi ci sono quelli in cui il surrealismo è quasi assente, sostituito però da una certa dose di ironia. Sono racconti quasi calati nella cronaca quotidiana, come quello del politico costretto a qualcosa di impensabile per riparare a un errore imperdonabile (L'altro lato di dio) o quello che si addentra nei pericolosi territori dei pettegolezzi da ufficio (Gli occhi addosso). Come si può evincere da queste piccole indicazioni, si nota già subito uno dei maggiori pregi della raccolta: quello di spaziare nei temi più disparati. Leggendoli, insomma, non si rischia mai il deja vu e questo è molto importante, perché conferisce sempre nuova freschezza alla lettura. Se poi dovessi attribuire un aggettivo allo stile di Vertorano, direi "delicato". L'autore affronta infatti la narrazione sempre con una sensibilità in punta di piedi, un modo che di tanto in tanto forse lo fa diventare un tantino troppo colloquiale, ma questo sono venialità soggettive. Al di là del fatto che, come dicevo inizialmente, ci sono stati dei racconti che ho apprezzato di più, probabilmente per predilezione personale (quelli, appunto, illuminati dal surrealismo), se devo trovare un appunto complessivo, è l'impressione che Vertorano abbia qua è là tirato indietro la mano sul più bello. Spesso infatti (sempre?) i racconti terminano in un'atmosfera sospesa che, se a volte ho trovato deliziosa e contestuale, altre mi ha lasciato un po' appeso alla voglia di vedere appioppata una bella zampata finale. Ma forse, ripensandoci, è proprio quello che Vertorano si aspetta dal suo lettore. Che anche lui, insomma, alla fine sia portato a far risuonare il suo bel Dindalé sui tetti del mondo!

Dindalé. Conti di poco conto, di Armando Vertorano (Pesci rossi goWare).

venerdì 15 luglio 2016

La polarizzazione della paura (come una passeggiata mano nella mano sul lungomare)

La strage di Nizza è la realizzazione pratica dell'incubo, perché se nei casi - tremendi - che ci sono stati finora tu, che te ne stavi a guardare i fatti da distante, davanti al PC o alla tivù, ti potevi raccontare che sì, però ci vogliono le armi, che sì, però ci vuole l'esplosivo, che sì, però ci sono state falle nella sicurezza, che sì, però è un caso isolato, che sì, però le probabilità di finire coinvolti in una cosa del genere sono comunque risibili, che sì, però però però, tutte storie con cui ti raccontavi che in fondo quello che vedevi era un mondo che non apparteneva proprio al tuo mondo, come in quei libri di Philip K. Dick, tu che al mattino ti alzi in un piccolo quartiere nemmeno tanto centrale di Genova, un poco sulle alture, che il mare non lo vedi proprio bene, ma una strisciolina di orizzonte azzurro quella sì, e spesso ci sono anche dei bei tramonti laggiù a ovest, e poi dai da mangiare ai tuoi gatti, li accarezzi, loro si sfregano un po', le code dritte di soddisfazione, dopodiché prendi il tuo mezzo e attraversi la città, quattro chilometri e mezzo di Sopraelevata e la Lanterna lì, come un baluardo rassicurante, anche se non sei un navigante, la garanzia di una storia, di una tradizione, di quello che sei, di quello che siamo un po' tutti qui, di quello che abbiamo imparato a essere, o ci hanno insegnato, di qualcosa che non può mica cambiare, se la Lanterna è lì, da quanto?, novecento anni?, non lo sai neanche bene, qualcosa vorrà pur dire, ma non importa, perché intanto la macchina (o lo scooter o il bus) va un po' per conto suo a quest'ora in cui hai ancora lembi di sonno che svolazzano impigliati alle ciglia, e così arrivi al tuo ufficio e inizi la giornata, leggi le email, parli coi colleghi, una discussione, un caffè alla macchinetta, la mensa, la sbobba, la qualità mi pare scaduta, vero?, altro caffè, altri discorsi, qualche email, telefonate e la giornata prosegue nel tuo piccolo mondo che, però, non appartiene a quel mondo là, quello dei corpi a terra con i lenzuoli bianchi sopra, obitori a cielo aperto, come miniere di morte, visto che te ne torni a casa, alla peggio un po' di coda, una pasta al pesto in famiglia davanti al quiz, che provi anche tu a rispondere alle domande e se ci riesci è come se avessi vinto, mentre i gatti gironzolano affettuosi, e poi, visto che è una sera d'estate e fa caldo, non ci starebbe male un gelato, ma uno buono, non soltanto una manciata di grassi da appendere agli addominali e degli zuccheri da sciogliere nel sangue già denso e opulento di suo, e magari ci aggiungi anche due passi, voi due, mano nella mano, come fidanzatini, sul lungomare a Boccadasse (così simile a quello di Nizza), dove vi siete sposati, ormai sono quasi undici anni, mamma mia!, e vedi la chiesa e senti la sua mano e capisci che è ancora come quel giorno, anche se tu non è che ci credevi molto a questa cosa del rito (e nemmeno adesso, a dire il vero), però ci voleva comunque un sigillo, qualcosa che conferisse solennità a un momento che entrambi ritenete sacro, qualcosa in più di un semplice contratto tra due persone, due firme e via, si va casa a scopare, ma comunque non prima di aver leccato fino in fondo questo cono al cioccolato e pistacchio, che il caldo scioglie troppo in fretta e ti impiastriccia un po' le dita e, mentre passeggi al margine della risacca, scopri che una goccia è finita sulla tua maglietta fresca di bucato, ma che cazzo!, come un bambino di due anni, come quelli lì che giocano vicino ai banchetti che vendono braccialetti, quello dei croccanti e dello zucchero filato, e gli africani con i loro teli sistemati e le file di occhiali, borse, che una volta c'erano i CD e i DVD, ma ormai quelli non tirano più, i Ray-Ban taroccati invece, quelli ormai sono una tradizione, come quella di venire qui a farsi due vasche al tramonto, e difatti c'è parecchia gente stasera, fin troppi per i tuoi gusti che non ami le folle, e mentre dai il primo morso al biscotto e vedi i fanali che sfrecciano per Corso Italia, pensi: se adesso una di queste salisse sul marciapiede farebbe una strage, cosa ci vuole?, non c'è nemmeno bisogno di un Kalashnikov o di un mattoncino di C4, tutti quanti giriamo armati, un veicolo in velocità (e non serve nemmeno una gran velocità) è una bomba, soprattutto se, come questi qui, non hai paura di morire, non ti importa di morire, anzi sei convinto che la morte sia una specie di biglietto per riscuotere per un premio, non c'è la storia delle vergini?, quante erano? cinquanta? settanta? ottanta?, che poi quando si fanno saltare in aria le donne il premio invece qual è?, forse non doversi mettere più il velo?, o essere finalmente libere?, così mentre maledici la gelataia che ti ha messo prima il pistacchio mentre tu avresti voluto finire col cioccolato, cominci a guardarti intorno come se qualcuno avesse cosparso il mondo di una patina invisibile che ne altera la percezione e pensi che ogni lenzuolo bianco lasciato sul selciato da questa guerriglia - perché pur nella sua atipicità, questa è comunque una specie nuova di guerriglia - è una goccia che riempie la vasca della nostra paura, della nostra intolleranza, della nostra islamofobia, fa alzare di qualche grado il nostro braccio a puntare il dito contro i fenomeni migratori, fa scoprire sempre un po' di più i nostri denti contro le barbe lunghe, i caftani, il progetto della moschea e, nella nostra ignoranza e nella variegatezza di un fenomeno così complesso da comprendere o anche solo da circoscrivere, sollecita domande sul nostro futuro, sugli anni che verranno, come questa situazione verrà risolta, se mai questa situazione verrà risolta, perché qui non basta mandare una flotta, un esercito, sganciare qualche bomba da qualche parte, fare finta che abbiano armi di distruzione di massa e asfaltare un pezzettino di mondo (e poi firmare qualche contratto miliardario per ricostruirlo), mettere in conto qualche danno collaterale, perché qualcuno alla fine si deve sempre sacrificare per il bene
superiore, anche se il bene superiore è sempre il nostro, ma poi a un certo punto bene o male la finiremo, no?, no, magari questa cosa non finisce, nel senso che noi non la vedremo finire, perché non è una guerra normale che poi a un certo punto uno non ce la fa più e alza bandiera bianca e ci si trova tutti insieme in un bel posto a firmare un pezzo di carta e a mangiare qualche pasticcino, questo è qualcosa di diverso da tutto quello abbiamo sperimentato in passato, per cui la Storia non ci insegna niente, come se poi la Storia ci avesse mai insegnato qualcosa, quella Storia che ci urla - inutile negarlo - che tra le peggiori nefandezze ci sono sempre state di mezzo le religioni, quelle religioni che vogliono sempre imporre la loro visione della vita e del mondo a tutti quanti, quella Storia lì stavolta non ci aiuta, siamo in territori oscuri e avanziamo mettendo i piedi a caso, e sono territori pieni di buche, tagliole, abissi e mine antiuomo, territori inquinati di odio, un odio generalizzato, indiscriminato, che ha la forma del muro contro muro, sempre e comunque, perché è più semplice, è più comodo odiare tutti, è più conservativo, meglio tutti quanti, che dover impegnarsi a distinguere questi da quelli, che non è facile, che è faticoso, che magari anche il tuo fruttivendolo (marocchino), quello che ieri ti ha venduto un melone davvero squisito, domani pomeriggio sale su un autobus in centro e si fa saltare, così con la stessa naturalezza con cui alla mattina ha scelto dalla cassetta i pomodori per la signora Rossi, che li vuole belli sodi, meglio se un po' verdi, ma non troppo mi raccomando, che altrimenti sono troppo acidi, del resto lo dicono tutti che è una cagacazzo la signora Rossi, non sorprende che sia rimasta zitella, sempre a lamentarsi, come quando la becchi dal panettiere (egiziano) che questo è troppo cotto e quello è troppo pallido, quello è troppo unto e quello l'ultima volta era troppo salato, e l'altro giorno mentre cercava gli spiccioli nel portafoglio l'hai sentita bofonchiare che la badante (russa) del padre si frega gli yogurt dal frigo, così mentre addenti la punta finale del tuo cono che sa di pistacchio, ma avresti voluto che sapesse di cioccolato, ti rendi conto che l'unica soluzione che abbiamo, l'unico tipo di resistenza che possiamo mettere in atto noi, persone comuni, quelle che a centinaia, a migliaia, a milioni creano la società e il mondo intero come le gocce formano un mare, è quella della cultura e della conoscenza, perché solo la vera cultura e la vera conoscenza ci permettono di capire che il mondo è più complesso di quello che sembra, che il fruttivendolo (marocchino) è uno come te, che vuole solo fare la sua vita, dignitosa, che anche lui cerca un po' di felicità, né più né meno di te, e ne ha tutto il diritto, che anche se a intervalli regolari srotola un tappetino e si rivolge verso sud est intonando "Allahu Akbar!", non gli viene neanche in mente di salire sull'autobus in centro a farsi saltare in aria, come pure coloro che qualche giorno fa, mentre andavi al lavoro, hai incrociato per strada con le tuniche a festa che andavano a celebrare la fine del Ramadan, insomma la cultura - per te, per noi - è la vera resistenza, oggi, perché la cultura è quella che ci protegge dai populismi, dalle giustizie sommarie, dai demagoghi, dall'informazione falsa e tendenziosa, da Libero e da Il Giornale, ma anche da Repubblica, dalle bufale, dalle scie chimiche, dalle stronzate sui vaccini, dalla frottola che non siamo mai stati sulla Luna, dalla mancanza di rispetto e da tutte le -fobie culturali, la cultura ci aiuta a scegliere governanti migliori, ma anche a esserlo, gli stessi che devono prendere distanze dalle connivenze occulte, dalle lobby delle armi, dall'affarismo senza scrupoli, dallo sfruttamento capitalista, la cultura ci dà gli strumenti per capire che non sempre quello che pensiamo sia meglio, sia davvero meglio e quello che pensiamo vada a nostro svantaggio, sia davvero peggio, e che forse per stare un po' meglio tutti, qualcuno dovrà stare un po' peggio di così, quando un po' peggio di così magari significherà solo non cambiarsi l'iPhone ogni anno, non andare a mangiare fuori tutte le settimane, o non avere i fondi neri alle Cayman e un armadio pieno di vestiti griffati, perché il mondo, la politica, la società sono assai più complessi e variegati di un gelato vaniglia e amarena, e pensare di capire e giudicare le mosse per migliorarlo (il mondo, non il gelato) è ben più difficile che dire che Conte ha sbagliato a non portare a Balotelli all'Europeo, perché ti senti un sacco bene a riempirti la bocca con la storia della tolleranza, ma "tollerare" significa sopportare e "tollerare" non è abbastanza, non lo è più, anzi non lo è mai stato, perché dobbiamo stare tutti molto attenti alle parole che usiamo, ai significati che hanno, a quelli che gli attribuiamo o che ci insegnano ad attribuire loro, perché le parole ci definiscono, mettono la cornice intorno a quello che pensiamo e, dunque, a quello che siamo, perché hai un bel raccontarti la faccenda tutta rose e fiori dell'essere umani, del recuperare la nostra umanità, quando l'umanità è (anche) quella della tratta degli schiavi, della caccia alle streghe, del massacro di Srebrenica, dei lager in Corea del Nord, del branco di minorenni che violenta una ragazza, non è che lì – come in tanti altri posti, o fasi della Storia, o momenti della cronaca – si sia persa l'umanità, no, è che l'umanità è (anche) quella, esattamente come quella di un uomo che si mette al volante di un camion e fa una strage ricordandoci che il terrorismo si chiama così proprio per quel motivo che stai pensando adesso, e l'unico modo che abbiamo, noi, per combatterlo è sapere, essere convinti, pensare con tutte le nostre cellule, che il nostro diritto alla felicità non può essere pagato con il diritto alla felicità altrui, sia egli il nostro vicino di casa che tiene lo stereo troppo alto, Kaamil che sogna di fare il tassista ad Aleppo o la piccola Indira che cuce i nostri jeans per sedici ore al giorno in un sobborgo di Dacca.

martedì 14 giugno 2016

La connotazione umana (come un requiem)

Di fronte a un massacro delle proporzioni di quello di [Milano], resti sgomento e incredulo. Pare impossibile per una mente normale delineare i contorni di una violenza così fredda, inaudita, efferata, deviata. O meglio, è possibile farlo, ma nel momento in cui fai il tentativo, se proprio hai voglia di provarci, ti senti piombare dentro a un teatro dell'orrore, in cui il palcoscenico è l'intero pianeta, uno snuff movie in cui siamo tutti comparse che ignorano una sceneggiatura quasi casuale, scritta da un autore pazzo. E ti prende una vertigine, una nausea profonda, un senso di shock, l'incapacità di sopportare, di credere, perché quello non può essere, perché fa parte di una categoria (senti)mentale che non ti appartiene. L'orrore quotidiano, lo Cthulhu che non ha bisogno di essere risvegliato dalle viscere del pianeta o di provenire da un'altra galassia, ma che vive dietro la porta accanto alla nostra, si veste con le polo che vestiamo anche noi, sgranocchia le nostre stesse patatine, magari nell'ascensore scambia con noi impressioni sull'ultima puntata della serie tv ("Hai visto Hodor?"), porta perfino il nostro stesso profumo, al punto che un cieco potrebbe facilmente scambiarci l'uno con l'altra. Insomma, i suoi tentacoli immondi non li vedi, eppure ci sono eccome.

Da questo punto di vista non c'è un massacro peggiore degli altri. Tutte le vittime sono uguali. Sono cuori che sbattono a mille all'ora contro un muro che non doveva essere lì. Quindi, se volete davvero l'uguaglianza, non dite che tra i 93 morti del Bataclan, i 77 di Breivik, i 49 del Pulse e i [62] del [Veg's World] c'è differenza, solo perché questi ultimi erano [vegani]. No, miei cari: non c'è nessuna differenza. Il veleno fondamentalista che porta alla carneficina è sempre privo di senso per chi sta dalla parte sbagliata del kalašnikov. Può essere il dio in cui credi, il tipo di sesso che fai, la squadra per cui tifi o, appunto, quello che [mangi]. La cosa curiosa e paradossale è che ognuna di queste cose è privata e non influenza in alcun modo le vite altrui. Perché dunque è così difficile accettarlo? Perché è così difficile portare rispetto per le idee e i modi di vivere di chi non è Noi Stessi? Semplice: perché ci piace sentirci sempre maledettamente superiori agli altri, un istinto animale non molto diverso dalla fame o dalla fregola di scopare. Fa parte della lotta per la nostra supremazia all'interno del branco e dobbiamo cogliere ogni occasione per affermarla, dimostrarla, rimarcarla, rinforzarla. Dobbiamo. Avere. Semplicemente. Sempre. Ragione. Ma questo non ci basta. No, miei cari. Abbiamo anche bisogno di imporre agli altri la nostra visione, affinché la conferma dell'affermazione del nostro orgoglioso primato, sia completa, totale, definitiva, perché non possiamo sopportare di vivere in un mondo dove qualcuno possa avere l'ardire di pensarla diversamente da noi, mettendo così in dubbio la veridicità assoluta delle nostre idee e, quindi, se è vero che noi siamo quello che pensiamo, della nostra stessa identità. Insomma, è quasi un'istanza necessaria quella di ergerci sempre e comunque a giudici assoluti di questioni sempre e comunque opinabili, al punto da dover – quasi nostro malgrado – insultare, castigare, punire, eliminare gli altri, perché la loro sola esistenza minaccia l'autorevolezza e la legittimità delle nostre idee e dunque mette in dubbio quello che ci rende quello che siamo. Insomma, basterebbe il rispetto. Invece facciamo soltanto schifo.

mercoledì 8 giugno 2016

Real Mars Tour 2016 - LA SPEZIA e TORINO

Week-end intensissimo, quello che si profila, per il Real Mars Tour 2016. Venerdì 10 Giugno alle ore 18:30 sarò infatti a La Spezia presso la Libreria LIBeRI TUTTI a presentare Real Mars ai lettori spezzini in compagnia di Enrico De Somma. Il giorno successivo alle ore 17 sarò invece ospite del celebre Mu.Fant., il MuseoLab del Fantastico e della Fantascienza di Torino. A tale proposito, va detto che la giornata di Sabato 11 Giugno sarà particolarmente speciale perché vedrà l'inaugurazione della super mostra dedicata al 50° Anniversario della nascita di Star Trek, con un programma dunque che sarà particolarmente nutrito. Eccolo:

Ore 15:30: inaugurazione e presentazione della moastra: Star Trek 50 anni! con Silvia Casolari, Davide Monopoli e Stefanie Groener
Ore 16:00: Roddenberry e le origini di Star Trek. A cura di Stefanie Groener
Ore 16:30: Star Trek: l'esplorazione antropologica e l'evoluzione della prima direttiva. A cura di Francesca Zannella.
Ore 17:00: Sogni ed esplorazioni spaziali: Alessandro Vietti presenta il suo nuovo romanzo Real Mars. Interviene l'editore Giorgio Raffaelli. Modera Paolo Bertetti.
Ore 18:00: Il "dramma" delle maglie rosse! Proiezioni commentate a cura di Stefanie Groener.

Insomma, riassumendo:
Venerdì 10 giugno, ore 18:30, Libreria LIBeRI TUTTI, via N. Tommaseo 49 - La Spezia
Sabato 11 giugno, ore 17, Mu.Fant., Via Reiss Romoli 49 bis - Torino

Spero di vedere qualcuno di voi.

martedì 7 giugno 2016

"Flemma", Paolacci e il labirinto di una generazione

Flemma. Lo leggi e ti spiazza. Lo leggi e ti sorprende. Lo leggi e dici "Cazzo, come scrive bene questo qui". Lo leggi e poi lo rileggi, perché come diceva qualcuno (chi?, aiutatemi), solo i libri che meritano di essere riletti, meritano di essere letti una prima volta. E quello di Antonio Paolacci merita di essere letto e riletto, perché il suo è il viaggio pazzesco, originale, nitido e acuminato di una generazione che cerca disperatamente un modo di essere, uno scopo, che si guarda allo specchio e cerca di capire che cosa è quell'immagine lì, un viaggio che vi resterà appiccicato addosso come solo i libri veri riescono a fare.

Non è semplice parlare di Flemma, opera prima di Antonio Paolacci, uscita nel 2007 per Perdisa del compianto Luigi Bernardi e rieditato una manciata di mesi fa per Morellini Editore. Perché Flemma è un romanzo intenso e corale con una sfuggente struttura a mosaico, a ragnatela, un pugno di personaggi indimenticabili, ciascuno immerso nella propria storia e nel proprio dramma personale, nella propria inquietudine, nella propria "flemma", appunto, come una sorta di depressione vagante o di dedalo malinconico dai quali i personaggi vorrebbero uscire, e un quadro che emerge soltanto verso la fine, quando le tessere giungono a composizione e il disegno d'insieme si chiarisce.

Flemma, per esempio, è la storia (soprattutto) di Davide, attore che offre monologhi improvvisati nei Centri Sociali, monologhi che urlano tutta l'angoscia di non trovare una strada, una collocazione nel mondo, una capacità di amare, nonostante la voglia disperata di trovarle, tutte queste cose, compreso l'essere amati, come risposte implorate a un mondo muto, indifferente a un'intera generazione che forse non sa neanche farle, le domande giuste. Ma è anche la storia di Chiara, fumettista, angosciata, desiderosa di morte, come di una via di uscita da un tunnel disegnato da lei stessa; di Macaco, vent'enne, immerso in una vita di silenziose assenze familiari e sguardi che parlano di disillusione e di incapacità di cambiare un destino già segnato dal fallimento, come un peccato originale senza possibilità di battesimo; di Luca tredicenne che si scopre omosessuale e che dovrà fare i conti con questa realtà nei confronti di un gruppo, che ci mette niente a trasformarsi in branco.

Curiosamente, su tutto aleggia la figura di Julian Jaynes e del suo celebre Il crollo della mente bicamerale e l'origine della coscienza, come un etereo filo conduttore, un curioso catalizzatore di considerazioni relative alla nostra personalità, a quello che facciamo e al perché lo facciamo, alle decisioni che prendiamo e al perché le prendiamo. In pratica, al perché siamo quello che siamo, ovvero alla difficoltà a capire noi stessi. In fondo, come dice Paolacci, "pensare a se stessi, a ciò che si compie, che si dice, che si considera, alle decisioni che si prendono e a tutto ciò che si sta vivendo nel frattempo, è come usare una torcia elettrica in una stanza buia."

Insomma, è una specie di strada (forse) senza uscita quella che tratteggia Paolacci con la grande abilità di un narratore capace di tessere una tela facendoci vedere solo un filamento alla volta, anche se l'apice – a mio avviso – lo raggiunge nei monologhi di Davide (specialmente l'ultimo, davvero eccezionale), da cui emerge con forza espressiva davvero notevole l'esperienza drammaturgica dell'autore. Così, come mosche, si resta impigliati nel suo ingranaggio che ci mostra l'incapacità di trovare un compromesso tra la voglia di ribellione allo status quo e il seguire le orme delle generazioni passate, tra il cercare se stessi e il non sapere da che parte guardare, tra il soddisfare i desideri e seguire gli istinti di questa nostra carne e il rischio che tutto questo ci porti all'autodistruzione.

Ultima notazione. Nonostante, come dicevo, la prima uscita di Flemma sia datata 2007, leggendolo a nove anni di distanza (sebbene quest'edizione sia stata rivisitata dall'autore, ma non mi è dato sapere in che misura) non ho percepito alcun tipo di invecchiamento. Forse è segno che i tempi non sono cambiati in maniera sostanziale. O forse, piuttosto, è sintomo che questo romanzo ci parla a un livello molto più profondo e intimo rispetto alle contingenze secolari, perché ci sbatte in faccia la fatica di esistere e di essere umani, ci mostra dall'alto il labirinto nel quale fin dall'adolescenza ci ritroviamo senza che nessuno ci abbia mai detto quello che dobbiamo fare, ci mette nudi di fronte alle contraddizioni attraverso cui tutti - in qualche modo - siamo costretti a passare, quelle che fanno parte del diventare adulti e che ci spingono a trovare il nostro posto nel mondo o di distruggerci nel tentativo.

Flemma, di Antonio Paolacci, 186 pagg., 11,90€ - Morellini Editore

martedì 24 maggio 2016

Real Mars Tour 2016 - MILANO

Continua il Real Mars Tour 2016! Come anticipato, sabato prossimo la tappa ci porta a Milano. L'appuntamento è dunque per Sabato 28 Maggio, ore 18:00 presso la Libreria Open - Viale Monte Nero 6 - Milano (MM3 - fermata Porta Romana).

Ci sarò io, insieme con Giorgio Raffaelli e Marco Scarabelli di Zona 42 e insieme parleremo del libro, dei sogni (mai esistiti?) dell'esplorazione spaziale, di media, di scrittura, di quello che siamo noi oggi, di quello che speriamo di essere domani e di tutto quello che passerà per la testa a noi e a voi del pubblico. Nella tappa di Genova ci siamo divertiti tutti parecchio.

Se siete di Milano e dintorni, veniteci a trovare, che la libreria è bellissima e merita la visita e a me farà piacere incontrarvi.

Vi anticipo che le prossime tappe del Real Mars Tour 2016, saranno La Spezia, venerdì 10 giugno prossimo e Torino, domenica 12 giugno. Seguiranno ulteriori dettagli.

mercoledì 11 maggio 2016

Real Mars a Genova: buona la prima!

Nella splendida e suggestiva cornice del "Cavedio" della Libreria Bookowski in vico Valoria 40 a Genova, sabato scorso è andata in scena la prima tappa del Real Mars Tour 2016 davanti a una folta cornice di pubblico. Tutti i posti esauriti e molta gente anche in piedi. Entusiasmo, attenzione e partecipazione! Ecco qui qualche momento di un incontro straordinario:
Prossimo appuntamento a Milano, Libreria Open, sabato 28 maggio 2016 - ore 18.
Stay tuned!

lunedì 2 maggio 2016

Real Mars Tour 2016 - GENOVA

Ci siamo, si parte! A un paio di settimane dall'uscita di Real Mars, cominciamo finalmente il tour di presentazioni che ci porterà in giro per l'Italia nei prossimi mesi. La partenza è - doverosamente - da casa. L'appuntamento è dunque per Sabato 7 Maggio, ore 18:30 presso la Libreria Bookowski - Vico Valoria 40 - Genova.

A fare da padrone di casa ci sarò io, insieme con Giorgio Raffaelli di Zona 42 e insieme parleremo del libro, dei sogni (perduti?) dell'esplorazione spaziale, di media, di quello che siamo noi oggi e di quello che speriamo di essere domani.

Vi anticipo che la prossima tappa del Real Mars Tour 2016, sarà Milano, sabato 28 maggio prossimo. Seguiranno dettagli.

martedì 26 aprile 2016

Petrolio, la meravigliosa schiavitù

Anche questa mattina per andare al lavoro ho costeggiato un pezzo del tratto finale del fiume Polcevera nel quale è avvenuto lo sversamento di petrolio all'indomani del referendum sulle trivelle andato (quasi) deserto. In questi giorni hanno transennato un pezzo di strada per permettere di operare ai mezzi di bonifica, anche se l'impressione che si ha da fuori – magari del tutto sbagliata – non è quella dell'urgenza. Ogni tanto compare anche qualcuno dell'ENPA per cercare di dare salvezza agli animali, in particolare gli uccelli, che sono stati impregnati della grassa onda nera e liquamosa. La gente del quartiere Fegino, la zona da cui è partito lo sversamento, a pochi chilometri da qui, mugugna, dice che l'aria è irrespirabile, che hanno sentito l'esplosione della condotta, che hanno paura, che non se ne può più. Chissà quelli di costoro che non sono andati a votare il giorno prima, che il giorno prima se ne sono sbattuti le palle, che si sono fatti una risata, una gita fuori porta, una mangiata di pasta al pesto, che hanno detto "tanto non serve a niente", cos'hanno pensato il giorno dopo. Probabilmente niente di niente. La gente si assolve sempre. Le colpe sono sempre altrove, non sono mai le nostre.

Ma è sbagliato demonizzare il petrolio. Se vogliamo questo mondo, il mondo come lo conosciamo e nel quale ci piace vivere (vi piace, no, avere l'auto sotto il culo per andare a comprare le sigarette nella tabaccheria a 700 m di distanza e poi scorrazzare con la moto in riviera, lungo il lago, su per i tornanti della montagna, il vento nei capelli, moderni cow-boy di una frontiera immaginata, anche solo per sentirvi liberi e onnipotenti per qualche ora?) dobbiamo tenercelo, il petrolio. Almeno ancora per qualche generazione, finché ce ne sarà (abbastanza per tutti). Sì, d'accordo le rinnovabili. Ma non crediate che costruire una turbina eolica o un pannello solare sia un processo immune dall'utilizzo del petrolio o dei suoi derivati (solo che magari, invece di inquinare qui, inquina là). Sì, d'accordo le auto elettriche, quelle a idrogeno, quelle ad aria compressa, quelle ad acqua e quelle dei Flintstones. Ma benché si possa legittimamente pensare che le lobby petrolifere colluse con la politica remino contro il processo di sviluppo di alternative, il punto è che comunque ci piace così, che va bene così. Andiamo, non dite che non è vero. Va bene così e piace così anche a coloro che sono andati a votare SI al referendum sulle trivelle, figuriamoci a chi non c'è andato o ha votato NO.

Quindi il problema non è e non può essere il petrolio, almeno non rispetto a questo tipo di eventi (poi il petrolio è un ingranaggio decisivo anche in questioni di politica internazionale, ma quelle sono altre e ben più complicate faccende). Il problema è – come sempre – la speculazione, sistematica, che impregna il sistema come una grassa onda nera e liquamosa che però è ben più difficile da bonificare, perché elusiva, sfuggente, endemica, nascosta nelle pieghe di un'immoralità tradizionale, che risiede giusto pochi passi al di là dei confini della legalità, ma quanto basta per fungere da detonatore per l'esplosione di disastri. Gli incidenti che capitano per vera fatalità sono una percentuale irrisoria. Tutti gli altri capitano per scarsa manutenzione, per scarsa sicurezza, per scarso personale, per scarsità di qualcosa che qualcuno aveva previsto dovesse esserci a garanzia dell'incolumità delle persone e dell'ambiente, ma che, a posteriori, in genere si scopre che non c'è (pare che l'impianto IPLOM in questione sia molto vecchio e praticamente senza alcun tipo di sicurezza o piano di emergenza in caso di guasto, nessun allarme, nessuna valvola di intercettazione). E tutti questi fattori riconducono sempre a una sola radice: il risparmio. E il risparmio è anche quello che fa' sì che, magari, a incidente avvenuto, ci siano solo cinque mezzi per la bonifica, invece di cinquanta. E in un settore ricco che non mi risulta conosca crisi come quello petrolifero, risparmiare non significa sopravvivere, risparmiare significa guadagnare di più. Quindi non date la colpa al petrolio, come fosse il muco del demonio pronto a impestarvi. No. Il problema siamo noi. Il problema è che non ne abbiamo mai abbastanza. Come dite? "La colpa è dei petrolieri!"? Avete ragione: le colpe sono sempre altrove, non sono mai le nostre. Però la prossima volta almeno andate a votare.

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