Punti di vista da un altro pianeta

giovedì 20 ottobre 2016

Nobel a Dylan: come una specie di controcampo

Il Premio Nobel per la Letteratura a Bob Dylan ha scatenato la corsa all'opinione di moltitudini di gente che ascolta musica, ma non legge letteratura e di gente che legge letteratura, ma non ascolta musica. E sì, anche di qualcuno che talvolta fa entrambe le cose e che talvolta le fa pure contemporaneamente. Per quanto mi riguarda mi ritrovo tra coloro che trova discutibile l'assegnazione del Premio al cantante americano e ho letto in giro numerose efficaci discussioni a suffragio di questa opinione. Ma non voglio aggiungere ulteriori banali argomentazioni a qualcosa di già ampiamente sviscerato spesso con arguzia e intelligenza. Quello che voglio fare è esporvi la questione sotto un altro aspetto, anche perché il Nobel, che Dylan decida di presentarsi o meno il prossimo 10 dicembre a Stoccolma, ormai è stato assegnato. L'aspetto sul quale dunque voglio farvi soffermare e che potrebbe illuminare di luce diversa l'intera questione, è valutare le conseguenze di questa scelta. Perché ogni scelta ha delle conseguenze ed esse finiscono forse per essere più importanti delle stesse ragioni che hanno portato a quella scelta e che sono state così tanto dibattute in questi ultimi giorni.
Ebbene, credo che questa decisione abbia delle conseguenze sostanzialmente su sei soggetti:
1) Bob Dylan;
2) il mondo letterario;
3) l'industria editoriale;
4) l'industria discografica;
5) il pubblico (sia esso di lettori o di ascoltatori di canzoni);
6) l'Accademia svedese.
Valutiamole brevemente una alla volta.

1) Bob Dylan
Il vincitore di un Premio Nobel guadagna oggi 8.000.000 SEK (corone svedesi), ovvero, al cambio di oggi, 825.130€. Questa dunque è la cifra che l'Accademia erogherà a Bob Dylan, euro più euro meno. Pensate che questo cambierà la sua vita? Si ritiene che Bob Dylan abbia venduto in carriera circa 100 milioni di dischi. Questo, per lo meno, è l'ordine di grandezza. Siamo sui livelli di Lady Gaga, Bon Jovi e Rod Stewart, per intendersi. D'accordo, distanti dai Beatles, i Rolling Stones e Michael Jackson, ma comunque un livello di tutto rispetto. Ora, pensate che gli ottocentomila e rotti euro facciano qualche differenza per Bob Dylan? No. Pensate quello che volete, ma Bob Dylan è (già) ricco. Pensate che il premio lo renda più famoso? No. Bob Dylan è già strafamoso. Dunque, pensatela come volete, ma l'attribuzione del Premio è per Bob Dylan qualcosa di ridondante sia rispetto al suo conto in banca, sia nei confronti della sua fama mondiale. Come ha detto Leonard Cohen: "Dare il Nobel a Dylan è stato come dare all'Everest una medaglia perché è il monte più alto del mondo."

2) Il mondo letterario
Va detto che, tranne rari casi (tipo, per esempio, il buon vecchio Don DeLillo, ma del resto come altro avrebbe potuto rispondere un americano candidato allo stesso Premio?), sembra che la categoria "scrittori" si sia scagliata contro la scelta dell'Accademia svedese come un unico coro di dissenso. A costoro è stato replicato parlando di "gente che rosica", o di gente che vive questa scelta come uno "scippo alla categoria". Siamo nei territori delle opinioni, dunque se perfino Ventura è diventato CT della Nazionale, significa che alla fine va bene tutto. Va osservato che però con quest'assegnazione l'Accademia non ha fatto un bel servizio al "romanzo", inteso quest'ultimo come modalità espressiva per l'analisi, l'indagine e la descrizione della realtà e della società, del presente e di quello che ci aspetta nel futuro, perché nei confronti del pubblico il "romanzo" esce da questo Nobel, se non proprio con le ossa rotte, quanto meno con l'occhio nero di un'espressione artistica depotenziata.

3) L'industria editoriale
Conseguenza diretta di quanto sopra, in un mondo dove c'è sempre bisogno di un incentivo alla lettura, la decisione dell'Accademia di premiare un cantante (che nel 99,999% dei casi si ascolta e non si legge), è perdere l'occasione di dare un pur piccolo impulso alla lettura e all'industria editoriale, a partire da chi i libri li pubblica, fino ad arrivare a chi i libri li vende. Le librerie sono state contente che il Premio sia stato assegnato a un cantante? No. Proveranno a consolarsi con le sue biografie e i libri coi testi delle sue canzoni. Ma temo non sarà la stessa cosa.

4) L'industria discografica
Pare invece che l'assegnazione del Nobel a Bob Dylan abbia aumentato del 512% gli ascolti su Spotify. Ebbene, questo è un effetto collaterale del tutto involontario al Premio, ancorché prevedibilissimo. Non credo che gli accademici di Svezia abbiano degli interessi in Spotify, ma resta il fatto che di questo aspetto ne traggono beneficio i soci di Spotify Ltd. Lo stesso vale per le vendite di dischi attraverso altre piattaforme o supporti che, ci possiamo scommettere, risulteranno incrementate in maniera significativa almeno finché durerà l'Effetto Nobel.

5) Il pubblico (sia esso di lettori o di ascoltatori di canzoni)
Al di là delle scaramucce dei primi giorni tra sostenitori e detrattori, cosa cambierà per il pubblico questo Nobel? Ci avrà fatto conoscere qualcuno di nuovo? Ci metteremo ad ascoltare Bob a tutto spiano? Analizzeremo la sua opera poetica? L'opinione mia è che, passato l'effetto emozione/nostalgia che sostiene il punto precedente, tutto tornerà (esattamente) come prima. Chi apprezzava Bob Dylan e lo considerava un dio, continuerà ad apprezzarlo e a considerarlo un dio; chi lo considerava solo un gran cantautore, continuerà a considerarlo solo un gran cantautore; a chi, infine, di Bob non gliene è mai fregato un cazzo, difficilmente il Nobel cambierà le prospettive. Insomma per il pubblico, la scelta di questo Nobel è stata la cosa più inutile della Terra.

6) L'Accademia svedese
Come escono da questa storia coloro che il Premio lo hanno attribuito? Di certo hanno rivendicato al mondo una forte, fortissima autonomia di giudizio. Per la serie, noi siamo l'Accademia svedese e facciamo quello che ci pare, in barba alle vostre previsioni ed eventualmente anche alla vostra stessa idea di letteratura. Secondariamente l'Accademia ha rivendicato anche il diritto di decidere che cosa è Letteratura. In altre parole ha rivendicato su di sé un potere culturale enorme, che forse non aveva, o che forse aveva ma, negli anni, aveva perduto. In terzo luogo, la scelta ha fatto sì che il mondo parlasse dell'Accademia in una maniera straordinaria, spropositata, smodata. Se avesse vinto – poniamo – il buon vecchio Don DeLillo, si sarebbero accorti della sua esistenza solo coloro che entrano in libreria. Così, al contrario, tutti si sono interessati al Premio come forse non è mai accaduto nella sua storia. E questo fermento, come uno yogurt a lunghissima scadenza, promette di sopravvivere almeno fino al prossimo anno, quando, visti i trascorsi del 2016, saremo tutti ancora più interessati a sapere chi l'Accademia avrà scelto per il Premio Nobel per la Letteratura 2017.

Quindi, insomma, alla fine chi credete che ci abbia guadagnato di più?

domenica 4 settembre 2016

Dindalé, come quel “chissenefrega” di cui abbiamo bisogno tutti

Una cosa bisogna dirla subito. I racconti brevi per gli autori (soprattutto quelli esordienti o emergenti) sono un'arma a doppio taglio e lo è anche il modo con cui normalmente vengono pubblicati: le raccolte. Da un lato il racconto è una narrazione complessivamente più semplice da gestire e dalla quale è richiesto all'autore un tempo minore per pervenirne a un'opera compiuta, dall'altro però - proprio per la sua brevità - il racconto ha bisogno di sprigionare tutta la sua forza linguistica e tematica in poche pagine, perché il lettore è questo che chiede a un (bel) racconto breve. Quindi, in pratica, da un lato l'autore di racconti si semplifica la vita, dall'altro però se la complica e non di poco. Ma non è solo questo. Quando un autore emergente pubblica oggi una raccolta di narrativa breve, mediamente ci mette tutti o almeno la gran parte dei racconti che ha scritto. Quello che voglio dire è che, in questi casi, non si tratta quasi mai di "antologie", ovvero di raccolte di testi scelti tra una messe molto più vasta, magari anche in base a un filtro basato sull'apprezzamento ricevuto dal pubblico nel corso di anni grazie ai riscontri su altre pubblicazioni, anche perché purtroppo questa modalità in Italia non è (più) possibile, perché di fatto in Italia il singolo racconto non ha vetrine e non ha mercato, non sapendo bene se la prima mancanza è causa della seconda, o viceversa. Dunque gli autori, sia quelli emergenti, che quelli già affermati, che vogliono cimentarsi con la narrativa breve, devono compilare delle raccolte i cui contenuti non sono già passati al vaglio del pubblico, dunque con il rischio di avere, nell’ambito dello stesso volume, una certa disomogeneità di testi. Considerazione questa, che è amplificata enormemente dalla soggettività del lettore, per cui alla fine è sempre piuttosto difficile trovare una raccolta di narrativa che ci soddisfi in toto. C'è sempre fisiologicamente qualche racconto che si apprezza meno degli altri e questo finisce per depotenziare sempre in qualche misura l'oggetto letterario chiamato "raccolta di racconti", chiunque ne sia l'autore, beninteso. E questo è un ulteriore rischio intrinseco cui l'autore di una raccolta di racconti si espone solo per il tipo di proposta letteraria che fa. A questo punto, prima di andare al sodo, devo aggiungere anche un'altra cosa. Personalmente non amo troppo la narrativa breve. Pochissima narrativa breve mi soddisfa quanto un bel romanzo. Tra gli italiani mi viene da citare Buzzati (inarrivabile) e, in qualche misura, Calvino (il cosmicomico). Per dire, il celebrato e obiettivamente geniale Landolfi non mi fa proprio impazzire. Mentre tra gli stranieri, trovo Carver piuttosto noiosetto, apprezzo a corrente alternata Bukowski e Cheever, mentre adoro quasi tutto Saunders e Chiang e parecchio Wallace (quando non esagera).

Tutto questo per dire cosa? Innanzitutto che pubblicare una raccolta di racconti sembra semplice, e in qualche misura lo è, ma pubblicarne una apprezzabile non lo è affatto. In secondo luogo che io con i racconti sono un rompiballe. Così, quando mi sono accostato a Dindalé (ma cosa diamine è 'sto Dindalé?) di Armando Vertorano sono partito con un certo scetticismo, che non è un pregiudizio, ma è comunque un posizione di attesa guardinga, del tipo: ok, sei tu che devi dimostrarmi qualcosa: vediamo cosa sai fare! Dico subito che l'idea del Dindalé, che Vertorano doverosamente spiega all'inizio del libro, mi è piaciuta moltissimo. Ha dentro qualcosa di molto umano e di familiare, un tocco speciale, sia nell'idea in sé, sia nel modo con cui viene presentata, ovvero quel modo particolare che sua madre usava (o usa ancora?) per rispondergli "chisseneimporta!" a fronte di una sua richiesta di bambino, una maniera molto elegante, ma anche dal suono esotico o magico nel suo essere espressa attraverso una formula inventata (e quindi in questo modo anche affettuosa, perché espressione di un linguaggio segreto di cui solo gli interlocutori sono depositari del significato), per dirgli "ma lascia perdere!". Di certo era un modo molto furbo per chiudere le questioni. Se fosse un gioco di ruolo, come si dovrebbe rispondere a un Dindalé? Sembra l'arma definitiva! Partendo da questo concetto e ampliandolo alla vita di tutti i giorni, a quei muri che la vita adulta ci chiede a volte di scavalcare, a volte di abbattere, dopo magari esserci schiantati, Vertorano confeziona una raccolta di racconti davvero particolare, perché partendo da situazioni minimaliste ci attesta quasi sempre un elemento di più o meno lieve surrealismo con il quale fa deragliare il racconto su binari solo leggermente paralleli alla realtà, ma con il quale catalizza la forza delle sue storie. Per dire, avete mai pensato che se smettessimo di lavarci, potremmo vivere per sempre (Sia maledetta l'acqua)? Oppure che un colpo di tosse possa diventare un'opera d'arte (Il colpo di tosse)? O ancora come potrebbe fare il turista un cieco (Il turista)? O ancora cosa fare se andassi a cercare un navigatore perché ti sei perso, ma trovassi tutt'altro (Dialogo tra un venditore di navigatori e un tizio che si è perso, un racconto equidistante tra Buzzati e Leopardi)? Ma ce ne sono anche altri dove il surrealismo è più delicato, tipo quello del camionista il quale nel corso di una consegna importante, a un certo punto fa una deviazione assurda (che non vi dico quale, ma il titolo del racconto è Venere) o quello in cui lo scrittore chiede al proprio editor cosa fare della propria vita come fosse il finale di un libro (Il finale)? E poi ci sono quelli in cui il surrealismo è quasi assente, sostituito però da una certa dose di ironia. Sono racconti quasi calati nella cronaca quotidiana, come quello del politico costretto a qualcosa di impensabile per riparare a un errore imperdonabile (L'altro lato di dio) o quello che si addentra nei pericolosi territori dei pettegolezzi da ufficio (Gli occhi addosso). Come si può evincere da queste piccole indicazioni, si nota già subito uno dei maggiori pregi della raccolta: quello di spaziare nei temi più disparati. Leggendoli, insomma, non si rischia mai il deja vu e questo è molto importante, perché conferisce sempre nuova freschezza alla lettura. Se poi dovessi attribuire un aggettivo allo stile di Vertorano, direi "delicato". L'autore affronta infatti la narrazione sempre con una sensibilità in punta di piedi, un modo che di tanto in tanto forse lo fa diventare un tantino troppo colloquiale, ma questo sono venialità soggettive. Al di là del fatto che, come dicevo inizialmente, ci sono stati dei racconti che ho apprezzato di più, probabilmente per predilezione personale (quelli, appunto, illuminati dal surrealismo), se devo trovare un appunto complessivo, è l'impressione che Vertorano abbia qua è là tirato indietro la mano sul più bello. Spesso infatti (sempre?) i racconti terminano in un'atmosfera sospesa che, se a volte ho trovato deliziosa e contestuale, altre mi ha lasciato un po' appeso alla voglia di vedere appioppata una bella zampata finale. Ma forse, ripensandoci, è proprio quello che Vertorano si aspetta dal suo lettore. Che anche lui, insomma, alla fine sia portato a far risuonare il suo bel Dindalé sui tetti del mondo!

Dindalé. Conti di poco conto, di Armando Vertorano (Pesci rossi goWare).

venerdì 15 luglio 2016

La polarizzazione della paura (come una passeggiata mano nella mano sul lungomare)

La strage di Nizza è la realizzazione pratica dell'incubo, perché se nei casi - tremendi - che ci sono stati finora tu, che te ne stavi a guardare i fatti da distante, davanti al PC o alla tivù, ti potevi raccontare che sì, però ci vogliono le armi, che sì, però ci vuole l'esplosivo, che sì, però ci sono state falle nella sicurezza, che sì, però è un caso isolato, che sì, però le probabilità di finire coinvolti in una cosa del genere sono comunque risibili, che sì, però però però, tutte storie con cui ti raccontavi che in fondo quello che vedevi era un mondo che non apparteneva proprio al tuo mondo, come in quei libri di Philip K. Dick, tu che al mattino ti alzi in un piccolo quartiere nemmeno tanto centrale di Genova, un poco sulle alture, che il mare non lo vedi proprio bene, ma una strisciolina di orizzonte azzurro quella sì, e spesso ci sono anche dei bei tramonti laggiù a ovest, e poi dai da mangiare ai tuoi gatti, li accarezzi, loro si sfregano un po', le code dritte di soddisfazione, dopodiché prendi il tuo mezzo e attraversi la città, quattro chilometri e mezzo di Sopraelevata e la Lanterna lì, come un baluardo rassicurante, anche se non sei un navigante, la garanzia di una storia, di una tradizione, di quello che sei, di quello che siamo un po' tutti qui, di quello che abbiamo imparato a essere, o ci hanno insegnato, di qualcosa che non può mica cambiare, se la Lanterna è lì, da quanto?, novecento anni?, non lo sai neanche bene, qualcosa vorrà pur dire, ma non importa, perché intanto la macchina (o lo scooter o il bus) va un po' per conto suo a quest'ora in cui hai ancora lembi di sonno che svolazzano impigliati alle ciglia, e così arrivi al tuo ufficio e inizi la giornata, leggi le email, parli coi colleghi, una discussione, un caffè alla macchinetta, la mensa, la sbobba, la qualità mi pare scaduta, vero?, altro caffè, altri discorsi, qualche email, telefonate e la giornata prosegue nel tuo piccolo mondo che, però, non appartiene a quel mondo là, quello dei corpi a terra con i lenzuoli bianchi sopra, obitori a cielo aperto, come miniere di morte, visto che te ne torni a casa, alla peggio un po' di coda, una pasta al pesto in famiglia davanti al quiz, che provi anche tu a rispondere alle domande e se ci riesci è come se avessi vinto, mentre i gatti gironzolano affettuosi, e poi, visto che è una sera d'estate e fa caldo, non ci starebbe male un gelato, ma uno buono, non soltanto una manciata di grassi da appendere agli addominali e degli zuccheri da sciogliere nel sangue già denso e opulento di suo, e magari ci aggiungi anche due passi, voi due, mano nella mano, come fidanzatini, sul lungomare a Boccadasse (così simile a quello di Nizza), dove vi siete sposati, ormai sono quasi undici anni, mamma mia!, e vedi la chiesa e senti la sua mano e capisci che è ancora come quel giorno, anche se tu non è che ci credevi molto a questa cosa del rito (e nemmeno adesso, a dire il vero), però ci voleva comunque un sigillo, qualcosa che conferisse solennità a un momento che entrambi ritenete sacro, qualcosa in più di un semplice contratto tra due persone, due firme e via, si va casa a scopare, ma comunque non prima di aver leccato fino in fondo questo cono al cioccolato e pistacchio, che il caldo scioglie troppo in fretta e ti impiastriccia un po' le dita e, mentre passeggi al margine della risacca, scopri che una goccia è finita sulla tua maglietta fresca di bucato, ma che cazzo!, come un bambino di due anni, come quelli lì che giocano vicino ai banchetti che vendono braccialetti, quello dei croccanti e dello zucchero filato, e gli africani con i loro teli sistemati e le file di occhiali, borse, che una volta c'erano i CD e i DVD, ma ormai quelli non tirano più, i Ray-Ban taroccati invece, quelli ormai sono una tradizione, come quella di venire qui a farsi due vasche al tramonto, e difatti c'è parecchia gente stasera, fin troppi per i tuoi gusti che non ami le folle, e mentre dai il primo morso al biscotto e vedi i fanali che sfrecciano per Corso Italia, pensi: se adesso una di queste salisse sul marciapiede farebbe una strage, cosa ci vuole?, non c'è nemmeno bisogno di un Kalashnikov o di un mattoncino di C4, tutti quanti giriamo armati, un veicolo in velocità (e non serve nemmeno una gran velocità) è una bomba, soprattutto se, come questi qui, non hai paura di morire, non ti importa di morire, anzi sei convinto che la morte sia una specie di biglietto per riscuotere per un premio, non c'è la storia delle vergini?, quante erano? cinquanta? settanta? ottanta?, che poi quando si fanno saltare in aria le donne il premio invece qual è?, forse non doversi mettere più il velo?, o essere finalmente libere?, così mentre maledici la gelataia che ti ha messo prima il pistacchio mentre tu avresti voluto finire col cioccolato, cominci a guardarti intorno come se qualcuno avesse cosparso il mondo di una patina invisibile che ne altera la percezione e pensi che ogni lenzuolo bianco lasciato sul selciato da questa guerriglia - perché pur nella sua atipicità, questa è comunque una specie nuova di guerriglia - è una goccia che riempie la vasca della nostra paura, della nostra intolleranza, della nostra islamofobia, fa alzare di qualche grado il nostro braccio a puntare il dito contro i fenomeni migratori, fa scoprire sempre un po' di più i nostri denti contro le barbe lunghe, i caftani, il progetto della moschea e, nella nostra ignoranza e nella variegatezza di un fenomeno così complesso da comprendere o anche solo da circoscrivere, sollecita domande sul nostro futuro, sugli anni che verranno, come questa situazione verrà risolta, se mai questa situazione verrà risolta, perché qui non basta mandare una flotta, un esercito, sganciare qualche bomba da qualche parte, fare finta che abbiano armi di distruzione di massa e asfaltare un pezzettino di mondo (e poi firmare qualche contratto miliardario per ricostruirlo), mettere in conto qualche danno collaterale, perché qualcuno alla fine si deve sempre sacrificare per il bene
superiore, anche se il bene superiore è sempre il nostro, ma poi a un certo punto bene o male la finiremo, no?, no, magari questa cosa non finisce, nel senso che noi non la vedremo finire, perché non è una guerra normale che poi a un certo punto uno non ce la fa più e alza bandiera bianca e ci si trova tutti insieme in un bel posto a firmare un pezzo di carta e a mangiare qualche pasticcino, questo è qualcosa di diverso da tutto quello abbiamo sperimentato in passato, per cui la Storia non ci insegna niente, come se poi la Storia ci avesse mai insegnato qualcosa, quella Storia che ci urla - inutile negarlo - che tra le peggiori nefandezze ci sono sempre state di mezzo le religioni, quelle religioni che vogliono sempre imporre la loro visione della vita e del mondo a tutti quanti, quella Storia lì stavolta non ci aiuta, siamo in territori oscuri e avanziamo mettendo i piedi a caso, e sono territori pieni di buche, tagliole, abissi e mine antiuomo, territori inquinati di odio, un odio generalizzato, indiscriminato, che ha la forma del muro contro muro, sempre e comunque, perché è più semplice, è più comodo odiare tutti, è più conservativo, meglio tutti quanti, che dover impegnarsi a distinguere questi da quelli, che non è facile, che è faticoso, che magari anche il tuo fruttivendolo (marocchino), quello che ieri ti ha venduto un melone davvero squisito, domani pomeriggio sale su un autobus in centro e si fa saltare, così con la stessa naturalezza con cui alla mattina ha scelto dalla cassetta i pomodori per la signora Rossi, che li vuole belli sodi, meglio se un po' verdi, ma non troppo mi raccomando, che altrimenti sono troppo acidi, del resto lo dicono tutti che è una cagacazzo la signora Rossi, non sorprende che sia rimasta zitella, sempre a lamentarsi, come quando la becchi dal panettiere (egiziano) che questo è troppo cotto e quello è troppo pallido, quello è troppo unto e quello l'ultima volta era troppo salato, e l'altro giorno mentre cercava gli spiccioli nel portafoglio l'hai sentita bofonchiare che la badante (russa) del padre si frega gli yogurt dal frigo, così mentre addenti la punta finale del tuo cono che sa di pistacchio, ma avresti voluto che sapesse di cioccolato, ti rendi conto che l'unica soluzione che abbiamo, l'unico tipo di resistenza che possiamo mettere in atto noi, persone comuni, quelle che a centinaia, a migliaia, a milioni creano la società e il mondo intero come le gocce formano un mare, è quella della cultura e della conoscenza, perché solo la vera cultura e la vera conoscenza ci permettono di capire che il mondo è più complesso di quello che sembra, che il fruttivendolo (marocchino) è uno come te, che vuole solo fare la sua vita, dignitosa, che anche lui cerca un po' di felicità, né più né meno di te, e ne ha tutto il diritto, che anche se a intervalli regolari srotola un tappetino e si rivolge verso sud est intonando "Allahu Akbar!", non gli viene neanche in mente di salire sull'autobus in centro a farsi saltare in aria, come pure coloro che qualche giorno fa, mentre andavi al lavoro, hai incrociato per strada con le tuniche a festa che andavano a celebrare la fine del Ramadan, insomma la cultura - per te, per noi - è la vera resistenza, oggi, perché la cultura è quella che ci protegge dai populismi, dalle giustizie sommarie, dai demagoghi, dall'informazione falsa e tendenziosa, da Libero e da Il Giornale, ma anche da Repubblica, dalle bufale, dalle scie chimiche, dalle stronzate sui vaccini, dalla frottola che non siamo mai stati sulla Luna, dalla mancanza di rispetto e da tutte le -fobie culturali, la cultura ci aiuta a scegliere governanti migliori, ma anche a esserlo, gli stessi che devono prendere distanze dalle connivenze occulte, dalle lobby delle armi, dall'affarismo senza scrupoli, dallo sfruttamento capitalista, la cultura ci dà gli strumenti per capire che non sempre quello che pensiamo sia meglio, sia davvero meglio e quello che pensiamo vada a nostro svantaggio, sia davvero peggio, e che forse per stare un po' meglio tutti, qualcuno dovrà stare un po' peggio di così, quando un po' peggio di così magari significherà solo non cambiarsi l'iPhone ogni anno, non andare a mangiare fuori tutte le settimane, o non avere i fondi neri alle Cayman e un armadio pieno di vestiti griffati, perché il mondo, la politica, la società sono assai più complessi e variegati di un gelato vaniglia e amarena, e pensare di capire e giudicare le mosse per migliorarlo (il mondo, non il gelato) è ben più difficile che dire che Conte ha sbagliato a non portare a Balotelli all'Europeo, perché ti senti un sacco bene a riempirti la bocca con la storia della tolleranza, ma "tollerare" significa sopportare e "tollerare" non è abbastanza, non lo è più, anzi non lo è mai stato, perché dobbiamo stare tutti molto attenti alle parole che usiamo, ai significati che hanno, a quelli che gli attribuiamo o che ci insegnano ad attribuire loro, perché le parole ci definiscono, mettono la cornice intorno a quello che pensiamo e, dunque, a quello che siamo, perché hai un bel raccontarti la faccenda tutta rose e fiori dell'essere umani, del recuperare la nostra umanità, quando l'umanità è (anche) quella della tratta degli schiavi, della caccia alle streghe, del massacro di Srebrenica, dei lager in Corea del Nord, del branco di minorenni che violenta una ragazza, non è che lì – come in tanti altri posti, o fasi della Storia, o momenti della cronaca – si sia persa l'umanità, no, è che l'umanità è (anche) quella, esattamente come quella di un uomo che si mette al volante di un camion e fa una strage ricordandoci che il terrorismo si chiama così proprio per quel motivo che stai pensando adesso, e l'unico modo che abbiamo, noi, per combatterlo è sapere, essere convinti, pensare con tutte le nostre cellule, che il nostro diritto alla felicità non può essere pagato con il diritto alla felicità altrui, sia egli il nostro vicino di casa che tiene lo stereo troppo alto, Kaamil che sogna di fare il tassista ad Aleppo o la piccola Indira che cuce i nostri jeans per sedici ore al giorno in un sobborgo di Dacca.

martedì 14 giugno 2016

La connotazione umana (come un requiem)

Di fronte a un massacro delle proporzioni di quello di [Milano], resti sgomento e incredulo. Pare impossibile per una mente normale delineare i contorni di una violenza così fredda, inaudita, efferata, deviata. O meglio, è possibile farlo, ma nel momento in cui fai il tentativo, se proprio hai voglia di provarci, ti senti piombare dentro a un teatro dell'orrore, in cui il palcoscenico è l'intero pianeta, uno snuff movie in cui siamo tutti comparse che ignorano una sceneggiatura quasi casuale, scritta da un autore pazzo. E ti prende una vertigine, una nausea profonda, un senso di shock, l'incapacità di sopportare, di credere, perché quello non può essere, perché fa parte di una categoria (senti)mentale che non ti appartiene. L'orrore quotidiano, lo Cthulhu che non ha bisogno di essere risvegliato dalle viscere del pianeta o di provenire da un'altra galassia, ma che vive dietro la porta accanto alla nostra, si veste con le polo che vestiamo anche noi, sgranocchia le nostre stesse patatine, magari nell'ascensore scambia con noi impressioni sull'ultima puntata della serie tv ("Hai visto Hodor?"), porta perfino il nostro stesso profumo, al punto che un cieco potrebbe facilmente scambiarci l'uno con l'altra. Insomma, i suoi tentacoli immondi non li vedi, eppure ci sono eccome.

Da questo punto di vista non c'è un massacro peggiore degli altri. Tutte le vittime sono uguali. Sono cuori che sbattono a mille all'ora contro un muro che non doveva essere lì. Quindi, se volete davvero l'uguaglianza, non dite che tra i 93 morti del Bataclan, i 77 di Breivik, i 49 del Pulse e i [62] del [Veg's World] c'è differenza, solo perché questi ultimi erano [vegani]. No, miei cari: non c'è nessuna differenza. Il veleno fondamentalista che porta alla carneficina è sempre privo di senso per chi sta dalla parte sbagliata del kalašnikov. Può essere il dio in cui credi, il tipo di sesso che fai, la squadra per cui tifi o, appunto, quello che [mangi]. La cosa curiosa e paradossale è che ognuna di queste cose è privata e non influenza in alcun modo le vite altrui. Perché dunque è così difficile accettarlo? Perché è così difficile portare rispetto per le idee e i modi di vivere di chi non è Noi Stessi? Semplice: perché ci piace sentirci sempre maledettamente superiori agli altri, un istinto animale non molto diverso dalla fame o dalla fregola di scopare. Fa parte della lotta per la nostra supremazia all'interno del branco e dobbiamo cogliere ogni occasione per affermarla, dimostrarla, rimarcarla, rinforzarla. Dobbiamo. Avere. Semplicemente. Sempre. Ragione. Ma questo non ci basta. No, miei cari. Abbiamo anche bisogno di imporre agli altri la nostra visione, affinché la conferma dell'affermazione del nostro orgoglioso primato, sia completa, totale, definitiva, perché non possiamo sopportare di vivere in un mondo dove qualcuno possa avere l'ardire di pensarla diversamente da noi, mettendo così in dubbio la veridicità assoluta delle nostre idee e, quindi, se è vero che noi siamo quello che pensiamo, della nostra stessa identità. Insomma, è quasi un'istanza necessaria quella di ergerci sempre e comunque a giudici assoluti di questioni sempre e comunque opinabili, al punto da dover – quasi nostro malgrado – insultare, castigare, punire, eliminare gli altri, perché la loro sola esistenza minaccia l'autorevolezza e la legittimità delle nostre idee e dunque mette in dubbio quello che ci rende quello che siamo. Insomma, basterebbe il rispetto. Invece facciamo soltanto schifo.

mercoledì 8 giugno 2016

Real Mars Tour 2016 - LA SPEZIA e TORINO

Week-end intensissimo, quello che si profila, per il Real Mars Tour 2016. Venerdì 10 Giugno alle ore 18:30 sarò infatti a La Spezia presso la Libreria LIBeRI TUTTI a presentare Real Mars ai lettori spezzini in compagnia di Enrico De Somma. Il giorno successivo alle ore 17 sarò invece ospite del celebre Mu.Fant., il MuseoLab del Fantastico e della Fantascienza di Torino. A tale proposito, va detto che la giornata di Sabato 11 Giugno sarà particolarmente speciale perché vedrà l'inaugurazione della super mostra dedicata al 50° Anniversario della nascita di Star Trek, con un programma dunque che sarà particolarmente nutrito. Eccolo:

Ore 15:30: inaugurazione e presentazione della moastra: Star Trek 50 anni! con Silvia Casolari, Davide Monopoli e Stefanie Groener
Ore 16:00: Roddenberry e le origini di Star Trek. A cura di Stefanie Groener
Ore 16:30: Star Trek: l'esplorazione antropologica e l'evoluzione della prima direttiva. A cura di Francesca Zannella.
Ore 17:00: Sogni ed esplorazioni spaziali: Alessandro Vietti presenta il suo nuovo romanzo Real Mars. Interviene l'editore Giorgio Raffaelli. Modera Paolo Bertetti.
Ore 18:00: Il "dramma" delle maglie rosse! Proiezioni commentate a cura di Stefanie Groener.

Insomma, riassumendo:
Venerdì 10 giugno, ore 18:30, Libreria LIBeRI TUTTI, via N. Tommaseo 49 - La Spezia
Sabato 11 giugno, ore 17, Mu.Fant., Via Reiss Romoli 49 bis - Torino

Spero di vedere qualcuno di voi.

martedì 7 giugno 2016

"Flemma", Paolacci e il labirinto di una generazione

Flemma. Lo leggi e ti spiazza. Lo leggi e ti sorprende. Lo leggi e dici "Cazzo, come scrive bene questo qui". Lo leggi e poi lo rileggi, perché come diceva qualcuno (chi?, aiutatemi), solo i libri che meritano di essere riletti, meritano di essere letti una prima volta. E quello di Antonio Paolacci merita di essere letto e riletto, perché il suo è il viaggio pazzesco, originale, nitido e acuminato di una generazione che cerca disperatamente un modo di essere, uno scopo, che si guarda allo specchio e cerca di capire che cosa è quell'immagine lì, un viaggio che vi resterà appiccicato addosso come solo i libri veri riescono a fare.

Non è semplice parlare di Flemma, opera prima di Antonio Paolacci, uscita nel 2007 per Perdisa del compianto Luigi Bernardi e rieditato una manciata di mesi fa per Morellini Editore. Perché Flemma è un romanzo intenso e corale con una sfuggente struttura a mosaico, a ragnatela, un pugno di personaggi indimenticabili, ciascuno immerso nella propria storia e nel proprio dramma personale, nella propria inquietudine, nella propria "flemma", appunto, come una sorta di depressione vagante o di dedalo malinconico dai quali i personaggi vorrebbero uscire, e un quadro che emerge soltanto verso la fine, quando le tessere giungono a composizione e il disegno d'insieme si chiarisce.

Flemma, per esempio, è la storia (soprattutto) di Davide, attore che offre monologhi improvvisati nei Centri Sociali, monologhi che urlano tutta l'angoscia di non trovare una strada, una collocazione nel mondo, una capacità di amare, nonostante la voglia disperata di trovarle, tutte queste cose, compreso l'essere amati, come risposte implorate a un mondo muto, indifferente a un'intera generazione che forse non sa neanche farle, le domande giuste. Ma è anche la storia di Chiara, fumettista, angosciata, desiderosa di morte, come di una via di uscita da un tunnel disegnato da lei stessa; di Macaco, vent'enne, immerso in una vita di silenziose assenze familiari e sguardi che parlano di disillusione e di incapacità di cambiare un destino già segnato dal fallimento, come un peccato originale senza possibilità di battesimo; di Luca tredicenne che si scopre omosessuale e che dovrà fare i conti con questa realtà nei confronti di un gruppo, che ci mette niente a trasformarsi in branco.

Curiosamente, su tutto aleggia la figura di Julian Jaynes e del suo celebre Il crollo della mente bicamerale e l'origine della coscienza, come un etereo filo conduttore, un curioso catalizzatore di considerazioni relative alla nostra personalità, a quello che facciamo e al perché lo facciamo, alle decisioni che prendiamo e al perché le prendiamo. In pratica, al perché siamo quello che siamo, ovvero alla difficoltà a capire noi stessi. In fondo, come dice Paolacci, "pensare a se stessi, a ciò che si compie, che si dice, che si considera, alle decisioni che si prendono e a tutto ciò che si sta vivendo nel frattempo, è come usare una torcia elettrica in una stanza buia."

Insomma, è una specie di strada (forse) senza uscita quella che tratteggia Paolacci con la grande abilità di un narratore capace di tessere una tela facendoci vedere solo un filamento alla volta, anche se l'apice – a mio avviso – lo raggiunge nei monologhi di Davide (specialmente l'ultimo, davvero eccezionale), da cui emerge con forza espressiva davvero notevole l'esperienza drammaturgica dell'autore. Così, come mosche, si resta impigliati nel suo ingranaggio che ci mostra l'incapacità di trovare un compromesso tra la voglia di ribellione allo status quo e il seguire le orme delle generazioni passate, tra il cercare se stessi e il non sapere da che parte guardare, tra il soddisfare i desideri e seguire gli istinti di questa nostra carne e il rischio che tutto questo ci porti all'autodistruzione.

Ultima notazione. Nonostante, come dicevo, la prima uscita di Flemma sia datata 2007, leggendolo a nove anni di distanza (sebbene quest'edizione sia stata rivisitata dall'autore, ma non mi è dato sapere in che misura) non ho percepito alcun tipo di invecchiamento. Forse è segno che i tempi non sono cambiati in maniera sostanziale. O forse, piuttosto, è sintomo che questo romanzo ci parla a un livello molto più profondo e intimo rispetto alle contingenze secolari, perché ci sbatte in faccia la fatica di esistere e di essere umani, ci mostra dall'alto il labirinto nel quale fin dall'adolescenza ci ritroviamo senza che nessuno ci abbia mai detto quello che dobbiamo fare, ci mette nudi di fronte alle contraddizioni attraverso cui tutti - in qualche modo - siamo costretti a passare, quelle che fanno parte del diventare adulti e che ci spingono a trovare il nostro posto nel mondo o di distruggerci nel tentativo.

Flemma, di Antonio Paolacci, 186 pagg., 11,90€ - Morellini Editore

martedì 24 maggio 2016

Real Mars Tour 2016 - MILANO

Continua il Real Mars Tour 2016! Come anticipato, sabato prossimo la tappa ci porta a Milano. L'appuntamento è dunque per Sabato 28 Maggio, ore 18:00 presso la Libreria Open - Viale Monte Nero 6 - Milano (MM3 - fermata Porta Romana).

Ci sarò io, insieme con Giorgio Raffaelli e Marco Scarabelli di Zona 42 e insieme parleremo del libro, dei sogni (mai esistiti?) dell'esplorazione spaziale, di media, di scrittura, di quello che siamo noi oggi, di quello che speriamo di essere domani e di tutto quello che passerà per la testa a noi e a voi del pubblico. Nella tappa di Genova ci siamo divertiti tutti parecchio.

Se siete di Milano e dintorni, veniteci a trovare, che la libreria è bellissima e merita la visita e a me farà piacere incontrarvi.

Vi anticipo che le prossime tappe del Real Mars Tour 2016, saranno La Spezia, venerdì 10 giugno prossimo e Torino, domenica 12 giugno. Seguiranno ulteriori dettagli.

mercoledì 11 maggio 2016

Real Mars a Genova: buona la prima!

Nella splendida e suggestiva cornice del "Cavedio" della Libreria Bookowski in vico Valoria 40 a Genova, sabato scorso è andata in scena la prima tappa del Real Mars Tour 2016 davanti a una folta cornice di pubblico. Tutti i posti esauriti e molta gente anche in piedi. Entusiasmo, attenzione e partecipazione! Ecco qui qualche momento di un incontro straordinario:
Prossimo appuntamento a Milano, Libreria Open, sabato 28 maggio 2016 - ore 18.
Stay tuned!

lunedì 2 maggio 2016

Real Mars Tour 2016 - GENOVA

Ci siamo, si parte! A un paio di settimane dall'uscita di Real Mars, cominciamo finalmente il tour di presentazioni che ci porterà in giro per l'Italia nei prossimi mesi. La partenza è - doverosamente - da casa. L'appuntamento è dunque per Sabato 7 Maggio, ore 18:30 presso la Libreria Bookowski - Vico Valoria 40 - Genova.

A fare da padrone di casa ci sarò io, insieme con Giorgio Raffaelli di Zona 42 e insieme parleremo del libro, dei sogni (perduti?) dell'esplorazione spaziale, di media, di quello che siamo noi oggi e di quello che speriamo di essere domani.

Vi anticipo che la prossima tappa del Real Mars Tour 2016, sarà Milano, sabato 28 maggio prossimo. Seguiranno dettagli.

martedì 26 aprile 2016

Petrolio, la meravigliosa schiavitù

Anche questa mattina per andare al lavoro ho costeggiato un pezzo del tratto finale del fiume Polcevera nel quale è avvenuto lo sversamento di petrolio all'indomani del referendum sulle trivelle andato (quasi) deserto. In questi giorni hanno transennato un pezzo di strada per permettere di operare ai mezzi di bonifica, anche se l'impressione che si ha da fuori – magari del tutto sbagliata – non è quella dell'urgenza. Ogni tanto compare anche qualcuno dell'ENPA per cercare di dare salvezza agli animali, in particolare gli uccelli, che sono stati impregnati della grassa onda nera e liquamosa. La gente del quartiere Fegino, la zona da cui è partito lo sversamento, a pochi chilometri da qui, mugugna, dice che l'aria è irrespirabile, che hanno sentito l'esplosione della condotta, che hanno paura, che non se ne può più. Chissà quelli di costoro che non sono andati a votare il giorno prima, che il giorno prima se ne sono sbattuti le palle, che si sono fatti una risata, una gita fuori porta, una mangiata di pasta al pesto, che hanno detto "tanto non serve a niente", cos'hanno pensato il giorno dopo. Probabilmente niente di niente. La gente si assolve sempre. Le colpe sono sempre altrove, non sono mai le nostre.

Ma è sbagliato demonizzare il petrolio. Se vogliamo questo mondo, il mondo come lo conosciamo e nel quale ci piace vivere (vi piace, no, avere l'auto sotto il culo per andare a comprare le sigarette nella tabaccheria a 700 m di distanza e poi scorrazzare con la moto in riviera, lungo il lago, su per i tornanti della montagna, il vento nei capelli, moderni cow-boy di una frontiera immaginata, anche solo per sentirvi liberi e onnipotenti per qualche ora?) dobbiamo tenercelo, il petrolio. Almeno ancora per qualche generazione, finché ce ne sarà (abbastanza per tutti). Sì, d'accordo le rinnovabili. Ma non crediate che costruire una turbina eolica o un pannello solare sia un processo immune dall'utilizzo del petrolio o dei suoi derivati (solo che magari, invece di inquinare qui, inquina là). Sì, d'accordo le auto elettriche, quelle a idrogeno, quelle ad aria compressa, quelle ad acqua e quelle dei Flintstones. Ma benché si possa legittimamente pensare che le lobby petrolifere colluse con la politica remino contro il processo di sviluppo di alternative, il punto è che comunque ci piace così, che va bene così. Andiamo, non dite che non è vero. Va bene così e piace così anche a coloro che sono andati a votare SI al referendum sulle trivelle, figuriamoci a chi non c'è andato o ha votato NO.

Quindi il problema non è e non può essere il petrolio, almeno non rispetto a questo tipo di eventi (poi il petrolio è un ingranaggio decisivo anche in questioni di politica internazionale, ma quelle sono altre e ben più complicate faccende). Il problema è – come sempre – la speculazione, sistematica, che impregna il sistema come una grassa onda nera e liquamosa che però è ben più difficile da bonificare, perché elusiva, sfuggente, endemica, nascosta nelle pieghe di un'immoralità tradizionale, che risiede giusto pochi passi al di là dei confini della legalità, ma quanto basta per fungere da detonatore per l'esplosione di disastri. Gli incidenti che capitano per vera fatalità sono una percentuale irrisoria. Tutti gli altri capitano per scarsa manutenzione, per scarsa sicurezza, per scarso personale, per scarsità di qualcosa che qualcuno aveva previsto dovesse esserci a garanzia dell'incolumità delle persone e dell'ambiente, ma che, a posteriori, in genere si scopre che non c'è (pare che l'impianto IPLOM in questione sia molto vecchio e praticamente senza alcun tipo di sicurezza o piano di emergenza in caso di guasto, nessun allarme, nessuna valvola di intercettazione). E tutti questi fattori riconducono sempre a una sola radice: il risparmio. E il risparmio è anche quello che fa' sì che, magari, a incidente avvenuto, ci siano solo cinque mezzi per la bonifica, invece di cinquanta. E in un settore ricco che non mi risulta conosca crisi come quello petrolifero, risparmiare non significa sopravvivere, risparmiare significa guadagnare di più. Quindi non date la colpa al petrolio, come fosse il muco del demonio pronto a impestarvi. No. Il problema siamo noi. Il problema è che non ne abbiamo mai abbastanza. Come dite? "La colpa è dei petrolieri!"? Avete ragione: le colpe sono sempre altrove, non sono mai le nostre. Però la prossima volta almeno andate a votare.

venerdì 22 aprile 2016

A.A.A. mostro cerca compagnia

Alla fine il mostro fa lampeggiare quei suoi occhi freddi da squalo, tende il braccio nel saluto nazista e gonfia il petto cantando la sua vittoria. Anders Behring Breivik si è infatti aggiudicato la causa intentata contro lo stato norvegese, accusato dal pluriomicida di avere calpestato i suoi diritti (umani) nel corso della sua prigionia. Ora, stando a quel che si legge in giro, pare che i suoi ultimi quattro anni e rotti di detenzione, Breivik li abbia trascorsi dentro uno spazio articolato in tre celle: un soggiorno, uno studio e una zona per l'esercizio fisico. Sarebbe messo in condizione di cucinarsi il cibo da sé e di farsi il bucato. Avrebbe inoltre a disposizione una televisione, una consolle per videogame e un computer (sebbene non connesso a Internet). Ora, vista da questa prospettiva, sembrerebbe fin troppo facile trovare miniappartamenti in villeggiatura con dotazioni più spartane di così. In quale aspetto, allora, lo stato norvegese ha calpestato i diritti umani del super killer (che - lo ricordo - nel 2011 ha deliberatamente e consapevolmente ucciso 77 persone e per il cui crimine è stato condannato a soli 21 anni di detenzione)? Molto semplice: l'isolamento.

Scopriamo così che, per il tribunale norvegese, il contatto umano è un diritto fondamentale della persona, Sebbene questa persona - nel suo avere ucciso 77 innocenti - abbia calpestato egli stesso il più alto e grande diritto fondamentale di ogni persona, quello alla vita. E questo, inutile dirlo, ci fa incazzare. Ci fa incazzare enormemente. Ha fatto incazzare di brutto me, e immagino abbia fatto incazzare di brutto anche voi. Fa venire voglia di puntare il dito contro quel tribunale, sputare contro lo sputasentenze, aspettarlo sotto casa per chiedergli urlando cosa diavolo gli passa dentro quel suo cazzo di cervello, dirgli che questo pluriassassino - nazista dichiarato e mai pentito - non merita niente, se non sparire inghiottito dalla faccia della Terra e dalla memoria del genere umano. Invece, no. Invece il tribunale ci sbatte in faccia che (anche) il mostro ha dei diritti e, nel ricordarci che il mostro ha dei diritti, ci ricorda che il mostro è un essere umano e, nel ricordarci che il mostro è un essere umano, ci sottolinea che il mostro è come noi, che fa parte della nostra specie e che quindi abbiamo delle cose in comune con lui. Che sia questo che non riusciamo a sopportare?

Il punto è che l'isolamento sarebbe riconducibile a una forma di tortura che avrebbe devastanti effetti a lungo termine sulla psiche di chi vi viene sottoposto. "E ci stiamo a preoccupare della psiche di un neo nazista che ha ucciso 77 persone?" vi chiederete voi e (lo confesso) anche io. Ebbene, la risposta è Sì, perché la Legge, ovvero la giustizia, è garantita da principi oggettivi e non è condizionata dagli aspetti emozionali. Potete certamente ritenere discutibile la pena di soli 21 anni, che dà dunque la possibilità a costui di uscire di prigione a poco più di cinquant'anni, ma anche in questo caso ciò è quello che ha previsto la legge norvegese, ci piaccia o no. Forse dunque penserete che la legge norvegese è risibile, che è un paese di cartapesta, che non sono abituati ad avere a che fare con questioni del genere. Può darsi. E se invece questa sentenza che toglie Breivik dall'isolamento fosse solo un segno di maggiore civiltà? Sempre, beninteso, che il soggetto in questione trovi qualcuno in prigione che abbia voglia stare con lui.

giovedì 21 aprile 2016

L'amore ai tempi del referendum

Non illudetevi. Non è stato l'appello di Renzi. Magari fosse stato così. Renzi si è appropriato di qualcosa su cui lui faceva conto: la pigrizia (fisica e morale), l'indolenza civica, la scarsità di senso dello Stato, la mancanza di consapevolezza dell'essere cittadini, l'oblio di tutto quello che è stato necessario pagare alla Storia per poter avere il diritto di tracciare una X su un foglio di carta. E non è certo questo referendum a far emergere questa triste realtà. Sapete qual è il punto, quello vero? È che la gente (per lo più) se ne sbatte. È tutto qui. Alla gente frega solo di quello che la tocca direttamente, sulla pelle, sulla carne, dentro il sangue e i suoi nervi. Mentre il concetto di voto e - soprattutto - di referendum presuppone una visione più ampia di se stessi all'interno di una comunità di persone che, anche solo per questo motivo, condividono un "bene comune". C’è un senso di solidarietà nel votare a un referendum, un senso che questo paese non ha. Tutto questo non c'è. Non so se è stato perduto o se non c'è mai stato. So che vige il paradigma dell'ognuno per sé, della mia auto in doppia fila, delle tasse che riesco a evadere, delle raccomandazioni che riesco ad avere, dei favori che riesco a ottenere, delle persone in coda che riesco a saltare. Fa tutto parte dello stesso, triste quadro, di quello che siamo diventati o - forse meglio - di quello che non siamo mai stati e (forse) non saremo mai. Italiani.

mercoledì 20 aprile 2016

Real Mars, ovvero se Il grande marziano diventa un libro

Cinema e letteratura ci hanno spesso raccontato come potrebbe essere la conquista di Marte da parte dell'uomo, ma nessuno ci ha mai detto come potrebbe essere realmente, ovvero a che cosa potremmo assistere, noi, se questo accadesse solo tra qualche anno. Se mai un giorno non troppo distante andremo davvero su Marte, è dunque probabile che la nostra esperienza non sarà molto diversa da quella raccontata in Real Mars: quattro astronauti in viaggio e miliardi di persone a guardarli e a commentare, a meravigliarsi e a disprezzare, e a modificare il palinsesto della propria vita in funzione di un programma TV che li seguirà in ogni momento della loro missione.

Prima ancora che il racconto della più grande impresa dell'umanità, Real Mars è così anche uno specchio feroce in cui ognuno di noi rivede se stesso nel proprio rapporto coi mezzi di comunicazione, nel proprio ruolo ormai ininterrotto e istintivo di spettatore, nella propria percezione di una realtà che nel racconto della cronaca diventa fiction, perdendo la possibilità di qualsiasi contatto umano.

Tra la cronaca dell'epica impresa e i riflessi del suo racconto su chi resta sulla Terra a guardare, Real Mars mostra con irriverenza quanta umanità abbiamo perduto abbracciando la comodità dell'emozione televisiva, ma ci rivela anche quanta umanità c'è ancora là fuori, anche se magari per trovarla bisogna percorrere qualche centinaio di milioni di chilometri e arrivare al termine dell'avventura più estrema ed emozionante della Storia dell'Uomo.

Da lunedì scorso "Il grande marziano" è anche un libro. Questo.

Real Mars, di Alessandro Vietti; 320 pagine; formati: cartaceo - 13,90€; ebook (Kindle, ePub) - 3,99€ - Edizioni Zona 42 (Modena)

sabato 19 marzo 2016

venerdì 4 marzo 2016

Benvenuti su Ferreromondo (come una specie di follia)

Dal momento che nel mondo in cui viviamo sembra che i super ricchi debbano per forza esserci, il fatto che per Forbes la vedova Ferrero sia in testa alla relativa classifica italiana alla fine a me non dispiace. Non mi dispiace perché, per quanto si possa (anche giustamente) sindacare sulla qualità o gli effetti quanto mai deleteri di Nutella & C. su glicemia, colesterolo, trigliceridi, bilirubina e tutta quanta la nutrita schiera dei delicati parametri ematici umani, in estrema sintesi significa anche che la cioccolata può conquistare il mondo. Ed è meglio la cioccolata che la droga, le mine antiuomo, la televisione commerciale o Donald Trump.

Sogno dunque un pianeta dove ci si possa nutrire di Fetta al latte e Pan e Cioc, ci si curi con i Pocket Coffee, dove si litighi in famiglia a colpi di Mon Cheri e si combattano le guerre tirandosi i Tronky negli occhi. Un mondo dove si faccia il pieno all'automobile (rigorosamente Fiesta) con cioccolata calda, fondente o al latte a seconda della motorizzazione, dove l'unità di misura monetaria sia il Raffaello, dove l'unica discriminazione concepibile sia tra la cioccolata bianca e la noir 99%, dove ci si faccia di Duplo e dove si veneri tutti quanti il dio Kinder, il quale – si sa – non ha niente da ridire (anzi) se ti lasci tentare tre volte tanto.

Sarebbe un mondo nel quale avremmo più brufoli, un intestino tutt'altro che impeccabile e probabilmente il fegato simile a un agglomerato di Ferrero Rocher. Ma sono convinto che, nel complesso, sarebbe anche un mondo (molto) migliore. A patto, naturalmente, che per sbronzarsi non ci fosse solo l'Estathé.

mercoledì 2 marzo 2016

Se il problema (alla fine) è Tobia Antonio

Visto che alla fine - vi piaccia o no - Tobia Antonio (figlio di Vendola e del suo compagno) esiste, vorrei soffermarmi su un aspetto che trovo molto interessante e che riprende parzialmente quanto ho già riportato qualche giorno fa riguardo la presa posizione sul tema da parte dell'Ordine degli Psicologi del Piemonte. L'idea mi è stata sollecitata da un pezzo uscito un paio di giorni fa sul Fatto Quotidiano a firma Alex Corlazzoli in cui si immagina l'impatto di Tobia Antonio con la scuola tra sei/sette anni. Corlazzoli sostiene che, pur nelle attenzioni e nell'amore che i due padri daranno al figlio, difficilmente l'Italia saprà garantire a Tobia Antonio una vita senza discriminazioni a partire da quelle che rischierà di trovare a scuola da parte dei suoi compagni che lo vedranno, per dire, sempre accompagnato da uno o due padri e mai da una madre.

Questo, come dicevo, riprende la questione sollevata dagli psicologi, i quali affermano che l'unico vero problema dei figli di omosessuali non proviene dalla famiglia con due madri o due padri, bensì dalle discriminazioni che la società metterà loro di fronte come bastoni tra le ruote psicologici ed esistenziali. E tutto questo è molto logico e condivisibile. Ma perché allora deve farne le spese Tobia Antonio? Voglio dire: Tobia Antonio viene discriminato? Bene, allora sapete cosa facciamo? Eliminiamo Tobia Antonio ed eliminiamo il problema. Cioè, insomma, il triste paradosso è che invece di pensare all'educazione all'uguaglianza dei più giovani (ma anche dei più vecchi), e a eliminare così le piccole e grandi discriminazioni che potenzialmente potrebbero rendere la vita di Tobia Antonio un inferno, preferiamo eliminare Tobia, ovvero togliere a Tobia – e a quelli come lui – la possibilità di esistere ovvero di avere una famiglia (di qualsiasi genere, purché lo ami) in cui crescere.

Non potremmo invece prendere Tobia Antonio e le altre piccole creature che sono già nella sua situazione o che saranno nella sua situazione, come stimolo per impegnarci, tutti quanti (io, tu che leggi, il tuo fruttivendolo, Giovanardi, l'autista del bus che hai preso stamane, Alfano ecc. ecc.), per garantire loro un futuro senza nessun tipo discriminazione? Non potremmo dire: Tobia Antonio e gli altri come lui meritano non solo una famiglia che li ami, ma anche una società che non li guardi strano, che li accetti, che li consideri come tutti quanti gli altri, che non si ponga neanche il problema della loro diversità, perché non c'è niente di veramente diverso in loro e, anche se ci fosse, la diversità deve arricchire, non impaurire? Se è vero che ci riempiamo sempre la bocca con la retorica dell'infanzia e che dobbiamo sempre essere dalla parte dei bambini, perché in questo caso non siamo dalla loro parte? E questo dovrebbe essere un dovere morale di tutti i cittadini, sia di quelli che sono d'accordo, sia di quelli che non lo sono. Perché quelli come Tobia Antonio esisteranno sempre e non c'è modo di evitarlo, per quante leggi, paletti o sbarramenti giurisprudenziali potranno essere messi. Ed è troppo comodo pensare di eliminare il problema, eliminando queste creature, solo perché ad alcuni (molti?) piace restare omofobi, o perché cercare di non esserlo costa troppa, troppa fatica.

giovedì 25 febbraio 2016

The X-Files, la serie-zombie

Dopo aver visto l'ultima imbarazzante puntata della miniserie di X-Files, quello che viene spontaneo chiedersi è: come accidenti è possibile che uno come Chris Carter non si accorga di quanto è brutto quello che sta facendo? E comunque una serie TV non è il frutto della mente di una sola persona, per quanto la persona in questione possa avere carta bianca. Intorno ci sono fior fiore di sceneggiatori, di produttori esecutivi, c’è un network che ci mette i soldi, gente che lo fa di mestiere da anni, squadre (che dovrebbero essere, o almeno noi così ci immaginiamo) al top delle capacità e delle professionalità del settore, e nessuno si accorge che stanno mettendo in scena una vaccata?

Non dico Duchovny e la Anderson perché, come professionisti (stra)pagati per impersonare dei ruoli, nel momento in cui firmano un contratto devono arrivare in fondo a prescindere dalla bontà del copione che è stato messo loro in mano. Al massimo potevano rifiutare di imbarcarsi nell'avventura fin dal principio e, fossi in loro, visti i risultati, lascerei perdere l'idea di prendere in considerazione eventuali ulteriori immersioni nella melma di questo franchise ormai in decomposizione. Dunque a loro non si può attribuire alcuna colpa. Per tutti gli altri invece i casi sono due: o erano consapevoli che partivano già dal fondo dell'abisso e stavano iniziando a scavare (ma se ne fregavano, confidenti che l'Effetto Nostalgia sarebbe stato capace di sanare qualunque magagna), oppure si erano tutti bevuti il cervello.

Perché della nuova serie di X-Files non si salva (quasi) niente.

Il quasi, doveroso, si riferisce per lo più alla puntata 10x03, Mulder and Scully Meet the Were-Monster (La lucertola mannara nella versione italiana), un episodio farsesco in cui la serie e i suoi protagonisti prendono in giro se stessi e i tic propri e quelli dell'uomo medio moderno, in una spassosa girandola di trovate e gag piuttosto riuscite. Non a caso è quella che anche su Rotten Tomatoes ha un rating di apprezzamento altissimo. Tutto il resto, invece, viaggia purtroppo tra una pochezza disarmante e una vera e propria indecorosità. In particolare, le puntate legate alla mitologia della serie (ma non solo) sono qualcosa di inguardabile, un insulso patchwork di triste e becero cospirazionismo da social network - su tutto svettano scie chimiche e vaccini -, infarcite di discorsi farraginosi e inutili, con trame spesso inconsistenti e inconcludenti, sottotrame scollegate, credibilità delle azioni e dei pensieri dei protagonisti ridicola e mancanza di qualunque mordente, passione e – soprattutto – scintilla creativa in grado di illuminarle (nella figura qui sotto, il rating di apprezzamento degli utenti di Rotten Tomatoes sui vari episodi della serie, a mio avviso complessivamente piuttosto generoso).
L'impressione che se ne ricava è che X-Files sia rimasto ancorato ai suoi stilemi ormai decisamente logori sia in termini di idee, che di struttura narrativa e, se quando debuttò nel 1993 si gridò al miracolo per la ventata di novità che portava, quattordici anni dopo la fine della serie (quattordici anni durante i quali abbiamo visto l'eccellente evolversi del mezzo televisivo con prodotti eccelsi tipo I Soprano, The Wire, Breaking Bad, True Detective, Fargo, Game of Thrones e tante altre serie notevolissime) ritroviamo non solo una serie drammaticamente obsoleta, tenuta in scacco dalle stesse ossessioni che ne hanno decretato il successo, che non ha saputo – forse per incapacità, forse per mancanza di coraggio – affrancarsi da se stessa e trovare qualcosa di nuovo che valesse la pena di raccontare, ma anche, pur nella sua vetustà, incapace perfino di rispolverare dignitosamente, anche solo con coerenza e un po' di mestiere, quelle stesse sue idee che, va ammesso, costituiscono la cifra fondante senza la quale la serie perderebbe la sua indiscutibile identità.

Così, quello che almeno si è capito una volta per tutte alla fine delle (per fortuna solo) sei puntate, è che la serie è morta, morta da tempo, morta da almeno quattordici anni (forse qualcuno in più), e che questa miniserie è stata frutto di una macumba di Chris Carter per portarla fuori dalla tomba. Quella che abbiamo visto, dunque, è stata una serie-zombie, insensata, gorgogliante, barcollante, putrefatta, il cui unico, sensato destino è quello di un bel colpo secco in testa. Ci sarà qualcuno nella produzione che avrà la pietà di premere il grilletto?

martedì 23 febbraio 2016

Il problema della genitorialità omosessuale (come un corto circuito)

La cosa più intelligente e razionale (e condivisibile) che ho sentito dire in questi giorni sulla questione della stepchild adoption e, più in generale, sulla questione dei figli cresciuti in famiglie omosessuali, proviene dall'Ordine degli Psicologi del Piemonte che la scorsa settimana ha emesso un comunicato nel quale, attraverso il suo presidente Alessandro Lombardo, ha espresso la propria posizione ufficiale sull'argomento, peraltro in linea con il dossier consegnato il 9 febbraio scorso dagli psicologi italiani ai senatori che si apprestano a votare il ddl Cirinnà (e che, raccogliendo oltre 70 lavori sparsi su oltre quarant'anni, dimostra come non sussista alcuna evidente "connessione tra genere sessuale dei genitori e specifici disagi del minore"). E se da una parte quello che esprime è, a ben vedere, quasi ovvio, dall'altra configura una situazione tristemente paradossale.

In breve il concetto è il seguente. Secondo gli psicologi l'unico vero problema peculiare cui possono andare incontro i figli di coppie omosessuali, un problema dunque cui possono essere esposti questi individui proprio a causa della loro condizione di figli di coppie omosessuali (perché tutti gli altri tipi di problemi ce li possono avere tutte quante le tipologie di famiglie esistenti), è semplicemente quello di essere potenzialmente esposti a contesti omofobici. Il problema dunque non è insito nel tipo di famiglia in cui si vive, il problema è la discriminazione cui questa famiglia potrà andare incontro nelle sue relazioni all'interno della comunità.

In buona sostanza questo significa che, tutti coloro che si scagliano (almeno) contro questa parte del ddl Cirinnà – esprimendo in questo modo una riserva di matrice omofobica – sono di fatto essi stessi la causa di quei problemi da cui dicono di voler proteggere i figli di coppie omosessuali, ragione per cui si scagliano (almeno) contro questa parte del ddl Cirinnà. In altre parole, un problema effettivamente esiste, ma sono loro stessi a crearlo proprio nel momento in cui pretenderebbero di trovare la sua soluzione. Insomma, casomai ce ne fosse stato ancora bisogno, questa è l'ennesima conferma che il vero (e unico) grave problema è l'omofobia. E su questo non dovrebbe esserci bisogno di dire altro.

lunedì 22 febbraio 2016

Una magnifica serie TV (che pochi conoscono): River

Intasati come ormai siamo da decenni di polizieschi di ogni tipo, non è facile trovare lampi di originalità in grado di farti fare i balzi sulla sedia. È accaduto di recente con True Detective (Stagione 1) e The Fall (Stagioni 1 e 2), e pure con Fargo (Stagioni 1 e 2), sebbene quest'ultimo non abbia proprio i connotati del poliziesco classico, ma nella messe di serie tv ormai disponibili è sempre comunque difficile ritrovarsi a bocca aperta a gridare al miracolo. Insomma, bisogna cercare con cura e dedizione, perché delle cose davvero toste ogni tanto emergono ed è ancora più bello quando si scoprono piccole produzioni, quasi di nicchia, al di fuori dei fenomeni acclamati globalmente. Se poi ti emozionano tremendamente, cosa puoi volere di più? È questo il caso di River.

Miniserie di soli 6 episodi di produzione BBC mandata in onda nell'autunno 2015 (da non confondere con The River, serie americana soprannaturale di scarsa fortuna), River trae il suo nome dal protagonista impersonato da Stellan Skarsgård, attore svedese dalla filmografia impressionante, spesso presente nelle produzioni di Lars Von Trier, che qui si cala magistralmente nei panni di un poliziotto molto capace (ha l'80% dei casi risolti), ma con problemi psichici piuttosto seri che tenta di nascondere sotto il tappeto almeno con i colleghi, in quanto minerebbero la sua credibilità e, dunque, la possibilità di conservare il suo posto di lavoro. Attenzione però, non siamo dalle parti di Monk. I problemi di River non sono ossessivo-compulsivi, di autismo o altro. River non è un fenomeno. Tutt'altro. River è un personaggio grigio, silenzioso, dimesso, triste, un individuo qualunque che si è costruito una corazza e un modo tutto suo per difendersi da un mondo col quale ha difficoltà a rapportarsi.

Non vi voglio dire nello specifico di che cosa si tratta, perché vi toglierei l'incredibile sorpresa dei primi cinque minuti della prima puntata, ma vi posso dire, senza svelarvi nulla, che è qualcosa legato alla solitudine. Dunque è qualcosa di terribilmente umano, anche se trova il suo lampo di genialità nel suo risvolto solo in apparenza non-umano... (non chiedetemi di più). Perché in ultima analisi il vero problema di River è la sua difficoltà a comunicare le sue emozioni, a fare i conti con i suoi fantasmi, a riuscire a mettersi in contatto con chi, nel profondo di se stesso, sa di amare più di ogni altra cosa al mondo. River è uno dei personaggi più dolorosi e tormentati, ma nel contempo più emozionanti e veri e umani che mi sia mai capitato di incontrare in un poliziesco televisivo. Fin dalla prima puntata River ti si appiccica addosso e non lo riesci a scrollare più via (né vuoi farlo), fino all'apoteosi dell'ultima puntata dove - vi avverto - è meglio tenere a portata di mano un bel pacco di fazzoletti. Alla fine, mentre ancora tirerete su col naso e scorreranno i titoli di coda, vi ritroverete in piedi ad applaudire, applaudire il personaggio, gli attori (Skarsgård in testa, magistrale, ma anche gli altri sono all'altezza), gli sceneggiatori, i registi, il creatore della serie e tutti quanti hanno contribuito a realizzare quello che è - di fatto - un piccolo gioiellino che non dovete perdervi. Poi spegnerete la TV e vi accorgerete che River sarà ancora lì con voi.

venerdì 19 febbraio 2016

Quel che sarà delle unioni (in)civili

Quando ho letto del rinvio del ddl Cirinnà sono stato a un passo dal correre in bagno a vomitare. Nauseato di come questa classe politica ipocrita e opportunista stia facendo il minuetto dei veti incrociati e della propaganda politica sulla pelle dei diritti fondamentali di una parte di nazione (tutti quanti, compresi i duri e puri del M5S, che proprio per la loro ostentata durezza e purezza in questo frangente hanno fatto la figura più meschina, ormai perfettamente integrati e lubrificati nell'ingranaggio che dicevano di voler scardinare come una scatoletta di tonno).

Quanto ancora l'Italia dovrà farsi riconoscere nel mondo per la sua ipocrisia religiosa (o la sua sudditanza vaticana), per la sua mentalità retrograda, per la sua drammatica mancanza di senso di civiltà, per la sua triste incapacità di entrare nella modernità? Per quanto ancora dovremo vergognarci con il resto dell'Europa per quanto un popolo di stronzi (altro che poeti, santi e navigatori) noi siamo?

Perché a parte i diretti interessati, sono davvero pochi coloro cui importa di questo ddl. Eppure la politica e i media si comportano come se fregasse a tutti, fanno credere che freghi davvero a tutti e finisce che adesso tutti credono che importi davvero loro qualcosa. Invece non è così. Come è già successo per altri scontri epocali combattuti per altre conquiste di civiltà come il divorzio o l'aborto, in cui come sempre succede in questi casi la gente si straccia le vesti, lancia anatemi, sentinella in piedi, ulula e giovanarda, quando questo ddl - o uno molto simile a esso - entrerà in vigore, improvvisamente la gente che si stracciava le vesti, che lanciava anatemi, che sentinellava in piedi, che ululava e che giovanardava, tutta questa gente - puf - sparirà. Succederà che tutta questa gente improvvisamente si renderà conto che a loro il ddl Cirinnà non avrà cambiato nulla, ma proprio nulla di nulla, che nulla sarà loro tolto e che potranno fare la loro vita esattamente come facevano prima. Dunque tempo una puntata di C'è posta per te e se ne saranno dimenticati. Certo, magari nel frattempo i loro vicini (o le loro vicine) di casa - che loro continueranno a guardare un po' di traverso - saranno più felici. Ma non è detto che dovranno esserne per forza invidiosi.

giovedì 28 gennaio 2016

Raccontare Universi (marziani in tour)

Mi è capitato di parlarne (molto bene) qui. A un anno esatto di distanza dalla sua uscita, domenica prossima 31 gennaio avrò il privilegio di fare gli onori di casa per festeggiarlo. Parlo di Dimenticami Trovami Sognami di Andrea Viscusi, uno dei più bei libri del 2015, edito da Zona 42, che celebreremo qui a Genova, insieme con l'autore e l'editore, Giorgio Raffaelli. Sarà un'occasione ghiotta per parlare del romanzo e dei suoi temi, ma anche di letteratura fantastica, editoria e tutto quello che verrà in mente a noi e a chi avrà voglia di venire a incontrarci. L'appuntamento è dunque domenica 31 gennaio alle ore 17, presso la Libreria Bookowski - Vico Valoria 40 - Genova (in pieno centro, a un minuto a piedi dalla cattedrale di San Lorenzo). Fatevi riconoscere!

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