Punti di vista da un altro pianeta

giovedì 30 settembre 2010

Rügen degli spiriti

Le suggestioni sono parenti delle mitologie. Entrambe sono scintille nell'oscurità e scaturiscono dall'incomprensibilità del cielo notturno, dal buio della caverna, dalle profondità degli abissi e dal mistero che fa parte di noi e di ciò che ci circonda. E per entrambe vale il paradigma in base al quale non sempre è chiaro da dove nascano. Ce ne sono di vario genere, ma quelle legate ai luoghi possono essere potentissime. Soprattutto se hanno a che fare (e spesso ce l'hanno) con la paura. Per esempio non so se hai mai provato, in una tarda sera di agosto, ad addentrarti nella boscosa periferia di Edimburgo, lungo viali immersi in una nebbia filamentosa, ectoplasmatica, con i fanali dell'auto che rimbalzano su di essa come contro un muro di latte e che - a tratti - inquadrano qualcosa (di peloso?) che in un istante schizza via oltre i cespugli. E poi, mentre il cielo comincia a tuonare, trovarti dentro una grande casa vittoriana deserta, l'edera e i mattoni rossi lambiti dal biancore, i muri ricoperti da grandi ritratti degli antenati con gli sguardi mobili, il bagno comune in fondo al corridoio, una doccia con la tenda e la tua fidanzata lasciata dietro la porta della camera. Sola...

E mentre ti fai la doccia, vedi sangue colare dalle pareti, lame che affondano nelle carni indifese, brandelli di corpi strappati, organi esposti come in una macelleria disordinata, lenzuola gocciolanti di rosso... Del resto la tua ragione sa benissimo che non c'è proprio niente di cui avere paura. Eppure ugualmente l'ambiente ha la meglio su di te. Prende la tua immaginazione per le briglie e la porta a farsi un giro dove vuole lei, trascinando con sé anche le tue emozioni, senza che tu possa opporre alcuna resistenza. Non è un caso che il fantasy, l'horror, il gotico e il mistery siano nati - e lì vi abbiano dato i frutti migliori - proprio nella terra di Albione, patria di piogge che sferzano umori e di maghi chiaroveggenti, di mostri lacustri e di spade fatate, di nebbie che celano coltelli e di paurose creature della notte.

A volte però non è altrettanto facile. Altre volte la suggestione è capace di prenderti a tradimento e non è uno scherzo capire quali sono gli elementi da cui è scaturita, su che cosa ha fatto presa. E questo è quello che mi è successo a Rügen, grande isola baltica della costa settentrionale della Germania, celebre per le sue Stubbenkammer, le sue bianche scogliere, la mia tappa successiva a Berlino. Ebbene, Rügen è molto grande e ha delle zone molto frequentate dai turisti, praticamente delle Rimini condite coi crauti, da cui quando scopri che dovevi starne alla larga è troppo tardi. Però ha anche delle zone residenziali defilate, rispetto alle rotte battute dai vacanzieri. E per fortuna - mi viene da dire - sono capitato proprio in una di queste. Il posto di chiama Lauterbach. Un piccolo hotel accogliente che, attraverso un giardino, si affaccia su quel mare così bianco, perlaceo, come geloso dei suoi segreti e sempre sull'orlo di una crisi di nervi. Un piccolo golfo. Un molo non molto lungo. Alcune barche, la maggior parte da pesca. Un paio di ristoranti. L'odore di carne alla brace spazzato dal vento teso, di una burrasca che non smette mai di essere imminente.

E così mi sono ritrovato, la sera, con questo tramonto più lungo del normale dietro le nuvole scure poco meno che perenni, mentre passeggio lungo le case per lo più deserte e magari ho avuto l'impressione che da quella lì abbiano scostato le tendine appena appena, per sbirciare e guardare di chi è questo rumore di passi sul selciato, a immaginare che ci sia qualcos'altro oltre questa superficie troppo piatta, troppo tranquilla, troppo ferma, in un certo senso troppo bella per essere vera. Dev'essere per forza qualcosa di oscuro. Come un prezzo da pagare. Un prezzo che deriva dalle ipocrisie della gente, dalla paura del futuro, dal mistero del dolore, dall'inquietante rebus della vita e della morte. O forse solo dalla morsa della noia. Così è un attimo trasformare un omone che, vestito da clown, pubblicizza il suo chiosco di pesce galleggiante («Lecker lecker lecker(1)!») in uno zombie affamato di carne umana e gli affumicatoi di pesce in bare per ignari turisti, un ridente hotel per coppiette in una casa infestata da spiriti di cani morti e un mare bianco e silenzioso in un cimitero di bambini defunti anzitempo.

(1) "Lecker" in tedesco significa "gustoso, appetitoso".

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lunedì 27 settembre 2010

Paese che vai, crostaceo che trovi

Altro mini-post berlinese in tema di ristorazione, giusto per chiedere nuovamente delucidazioni a voi. Dunque, passeggiando per la zona di Postdamer Platz, mi sono imbattuto in un ristorante italiano (scusate, ma non mi sono segnato il nome), invero piuttosto chic, a giudicare sia dai prezzi che dall'aspetto dei tavoli e della sala, che nel menù affisso in vetrina sfoggiava la seguente pietanza:



Ora, mi sono documentato su Boccadasse, antico piccolo borgo marinaro assai suggestivo nel cuore di Genova, e così facendo sono stato colto da qualche dubbio a riguardo. Quindi vorrei sapere da chi ci fosse tra voi che conosce bene il posto: ma siamo proprio sicuri sicuri che lì ci peschino le aragoste?

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venerdì 24 settembre 2010

Goldrake era un pivello

Se dico «licenza d'uccidere», sono sicuro che a voi verrà da pensare a un tipo in smoking, sguardo penetrante, un vodka martini in una mano e una Walther PPK nell'altra. Eppure Ian Fleming non è stato il primo ad avere l'idea, che in effetti proviene da molto lontano. Se infatti da un lato l'assassinio è sempre stato universalmente considerato come l'atto criminale per eccellenza, qualcosa di massimamente deplorevole nei confronti della comunità e di distruttivo per la propria coscienza, dall'altro c'è chi si è prodigato (e si prodiga tutt'oggi) per licenziarlo, e dunque - per lo meno in determinate condizioni sociali che lo renderebbero pratica «necessaria» - autorizzarlo.

Ebbene, la storia tedesca è senza dubbio molto interessante e travagliata, ma se c'è un periodo di cui la Germania è stata storicamente protagonista e che ha cambiato profondamente il volto dell'intera Europa e che - forse - ha contribuito a renderci quello che siamo oggi, è il XVI secolo. Quello che iniziò con il problema del commercio delle indulgenze, l'affissione delle 95 tesi da parte di Lutero sul portale della Cattedrale di Wittenberg e tutto il pandemonio che ne conseguì, soprattutto in termini di rivolte, insurrezioni, uccisioni e autentici massacri indiscriminati.

A tale proposito non posso togliermi dalla testa una cosa che ho visto nella sezione dedicata al XVI secolo del Deutsche Historische Museum (sì, sempre lui, quello del famigerato caffè). Si tratta del reperto di un'arma ad asta. Non conosco il nome tecnico, potrebbe essere una picca o una volgia, ma quello che mi ha lasciato senza fiato è quello che ha inciso sulla lama. Naturalmente sono (ed ero) perfettamente consapevole di come nella Storia la religione cristiana sia stata soggetto e oggetto utile alla giustificazione di conquiste, soprusi e uccisioni. Ma vedere la licenza di uccidere (ovvero un'indulgenza automatica per la propria anima) incisa sulla lama e immaginare quel simbolo di purezza e di nobili virtù, qual era l'uomo chiamato Gesù Cristo, sporco del sangue di un uomo e dei brandelli dei suoi intestini, mi ha atterrito.

E allora non ho potuto fare a meno di pensare a tutte le alabarde contrassegnate di simboli sacri che vengono brandite oggi. Ce ne sono più modelli di quanti possiate immaginare. Si chiamano eutanasia, fecondazione assistita, coppie di fatto...

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martedì 21 settembre 2010

Dare a Cesare quel che è di Cesare

Questo è un post imprevisto e urgente. Imprevisto perché fino a pochi minuti fa, nemmeno mi sognavo di scriverlo. Ma questo succede con molti post, figli delle lampadine che ti si accendono in testa. A patto di avercele, beninteso, le lampadine da accendere. Ma questo post non è figlio di una lampadina, bensì di una email che ho ricevuto poco fa. Per questo credo sia un dovere, da parte mia, mettere on-line con urgenza quello che segue. Soprattutto a seguito del post di ieri.

Dunque siamo sempre in zona Berlino, e giriamo ancora intorno al famigerato caffè di Cosa Nostra. Come ho accennato in risposta ai commenti di qualcuno, ieri, dopo aver pubblicato il post, ho segnalato la faccenda a quelli del Deutsches Historisches Museum, alla Disaronno, maggior produttrice mondiale di amaretto, ingrediente distintivo dell'Espresso Mafioso, e infine alla Kofler Kompanie. Nella fattispecie ai signori della società di ristorazione che gestisce la caffetteria del museo ho fatto rilevare di essermi sentito offeso dalla loro scelta di chiamare in quel modo la loro specialità di caffè e che la loro mi pareva una grave caduta di stile per un luogo prestigioso come il Museo della Storia Tedesca.

Ebbene, stamane apro la mail, ed ecco la risposta:

Per chi non sapesse l'inglese, la traduzione suona più o meno così:
"Porgiamo le nostre sincere scuse e ci dispiace che lei si sia sentito offeso dal nome della specialità di caffè. Abbiamo già deciso di cambiare il suo nome per il nostro prossimo menù. Ancora, non abbiamo mai avuto intenzione di dare appellativi agli italiani e speriamo che lei ritorni a Berlino e ci venga a visitare per vedere che abbiamo preso la sua lamentela in seria considerazione. Le auguriamo una buona giornata e la ringraziamo per il suo onesto commento."
Tutti fanno scelte sbagliate, in buona o cattiva fede che sia, nel bene e nel male fa parte della caducità della natura umana (ma anche marziana). Eppure penso che sia proprio in quei momenti, ovvero nel concetto di assunzione di responsabilità, che stia la superiorità di un modello culturale radicato nella mente delle persone di una determinata nazione. Così, se si è capaci di accusare un popolo se non di razzismo, almeno di superiorità per un singolo episodio, allora per un singolo episodio bisogna essere anche capaci di rendergli onore.

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lunedì 20 settembre 2010

Un buon caffè di pessimo gusto

Si parlava qualche giorno fa, nei commenti a un altro post, della sensazione di superiorità che i tedeschi sembrano intenzionati - forse per una tradizione connaturata alla loro indole o alla loro storia - a voler esprimere al mondo a tutti i costi, con la conseguenza di ritrovarsi a oscillare tra il concetto di superiorità e quello di razzismo, e la considerazione che certi atteggiamenti non sono certo propri di un determinato popolo, ma comuni a tutti coloro che vedono nell'altro, uno sconosciuto, un diverso, un inferiore o un potenziale invasore sia esso territoriale, affaristico o sentimentale. E lì si toccava anche l'interessante tema della italofobia. Ebbene, da marziano non so come catalogare l'esperienza che sto per raccontarvi. Aspetto perciò il vostro contributo di italiani.

Dunque, dovete sapere che anche ai marziani succede di finire nella trappola delle caffetterie dei musei. È quello che è successo a me al Deutschen Historischen Museum di Berlino che, dopo quattro ore di reperti, dipinti, teche, pannelli e letture, dai Cimbri e i Teutoni, alla Volkswagen e alla Caduta del Muro, passando per Augusto, Martin Lutero e Otto Von Bismarck, non ho potuto niente alle recriminazioni dello stomaco e mi sono dovuto arrendere. Così mi sono ritrovato a spingere un portone grosso e pesante come quello di un tempio romano, e mi sono tuffato nel delirio di una sala gremita come un raduno della Lega a Pontida, ma molto più silenziosa. Per fortuna il mio stomaco mi ha trovato una rampa di scale, scoprendo così l'esistenza di un primo piano con alcuni posti liberi e l'atmosfera più morbida, come una festa del PD a Genova, ma molto più affollato.

Così, una volta preso posto al tavolo, ho aperto il pieghevole del menù e mi sono messo d'impegno a cercare di capire che cosa poteva fare al caso mio, senza compromettere troppo il mio gpotres'jh, ovvero l'equivalente marziano del fegato. Tuttavia, ben prima che capissi dove dovevo leggere, avevo già messo a tacere lo stomaco ed ero già stato preso dall'impulso di alzarmi e andarmene. Il motivo è semplice e incredibile al tempo stesso. Tra le Heisse Getränke, ovvero le bevande calde proposte della caffetteria gestita dalla catena Kofler Kompanie, faceva bella mostra di sé una esclusiva leccornia di caffè, amaretto e panna montata. La vedete qui sotto, in un estratto dell'edizione originale del menù.

(Qui, se volete, potete scaricare il menù originale in pdf a conferma di quanto sopra)

Ora, sottolineando il fatto la proposta dell'Espresso Mafioso viene fatta nell'ambito di un luogo pubblico prestigiosissimo per la cultura tedesca (è forse il più importante e grande Museo di Berlino), e considerando che qualche riga più sotto c'era anche il gustosissimo Schokolade Mafioso, più che altro vorrei capire due cose. La prima: cosa c'entra l'amaretto con la mafia? La seconda: come la prenderebbe un tedesco se capitasse nella caffetteria dei Musei Capitolini a Roma e si ritrovasse nel menù un bel Würstel Nazista? Se qualcuno qui conosce qualcuno che ha un ristorante, potrebbe proporgli di inserirlo nella lista. Anzi, forse è meglio di no. Un simile piatto rischierebbe di avere troppo successo.

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giovedì 16 settembre 2010

Leggere il libro giusto nel posto giusto

La vita è fatta di abitudini che a volte diventano riti. Servono per tenerci ancorati alla realtà, a illuderci dell'immobilità delle cose (almeno di alcune), a vaccinarci dal timore dei cambiamenti. Uno di questi riti, per me è la scelta dei libri da portarmi in viaggio, un'operazione assai tanto più delicata, quanto più il viaggio è in un luogo, come la Germania, in cui trovare libri nella mia lingua - qualora li finisca anzitempo o non mi piacciano quelli che mi sono portato - può risultare decisamente complicato. Così mi capita di trascorrere delle mezze giornate spulciando la libreria, riflettendo su cosa può essere più adatto al luogo, più confacente alle mie adesioni letterarie del momento, più leggero da trasportare e meno a rischio di "sgradimento". Del resto ci sono poche cose irritanti come portarsi dei brutti libri in vacanza, anche perché la riuscita del viaggio dipende anche dal libro che mi accompagna e, nel contempo, il ricordo della lettura del libro sarà per sempre collegato al luogo in cui l'ho letto. Insomma c'è un doppio filo che collega libro e luogo, e il destino dell'uno dipende da quello dell'altro. E ciò rende la scelta tutt'altro che marginale.

Eppure, nonostante la premessa di tutti questi preparativi, è stata quasi un caso la scelta del libro che mi sono ritrovato a leggere (e terminare) a Berlino. Erano decenni che ne sentivo parlare, prima però era introvabile, poi ne avevo recuperato una vecchia edizione in fotocopie (assai scomode da leggere e quindi lasciate lì), infine qualche anno fa mi ero imbattuto per caso in una riedizione di un editore minore che, comprata di corsa, tuttavia aveva finito per restare nel mio scaffale, in attesa come di un segnale del destino. Eppure solo alla fine della lettura, ho potuto rendermi conto (e dunque apprezzare) di quanto effettivamente la congiuntura sia stata davvero quella giusta. Mi sono addirittura sorpreso, di questo. Alla fine mi è sembrato un po' di Leggere Lolita a Teheran. Invece ho letto Noi a Berlino.

Scritto da Evgenij Zamjatin verso la fine degli anni '10 del secolo scorso, in un'Unione Sovietica che già vedeva la deleteria deriva totalitaristica e ultraconformista degli ideali della Rivoluzione Bolscevica, Noi è in assoluto il primo, e oserei dire - a lettura ultimata - più fulgido esempio di letteratura di protesta sociale, di contestazione di un sistema politico (e di vita) imposto dallo stato, di denuncia di una utopia negativa, di cui 1984 è divenuto l'esempio più celebre (e cult), ma del quale Noi è a tutti gli effetti l'ispiratore, il capostipite, l'originale. Insomma, più di un quarto di secolo prima di George Orwell, Evgenij Zamjatin aveva già detto tutto quello che c'era da dire sull'argomento, e a mio giudizio l'aveva anche detto parecchio meglio.

Perché non ho paura di esagerare se affermo che Noi è un romanzo geniale sotto tutti i punti di vista. Scritto sotto forma di un diario (e dunque raccontato in prima persona) da D-503, matematico e sovrintendente alla costruzione dell'Integrale, la prima astronave dello Stato Unico in procinto di essere lanciata nel Cosmo, il libro si propone di essere un'apologia della grandezza e della perfezione dello Stato Unico e del suo Benefattore, a favore delle razze (inferiori) che abitano lo spazio e che l'Integrale incontrerà sulla sua strada come in una missione di evangelizzazione, affinché tutto il Cosmo possa conoscere la fonte della vera felicità. Scopriamo così che tutti gli aspetti della vita dei cittadini sono regolati dallo Stato Unico e ogni giornata è scandita e programmata in tutti i suoi aspetti (la Tavola delle Ore, le Ore Personali, la Norma Materna), compreso quello relazionale e sessuale, per cui non ci si innamora, ma ci si iscrive. Insomma è la Ragione, nelle manifestazioni della logica e della matematica, a disciplinare le regole dello Stato Unico e l'eliminazione di ogni libertà è socialmente giustificata "per affrancare l'uomo dalla sua tendenza alla delinquenza". Ma naturalmente le cose non vanno come previsto da D-503, e la status quo è destinato a incrinarsi di fronte all'incontro del protagonista con l'esperienza dell'innamoramento e del ricordo (recupero) di un tempo diverso, antico, e di una Natura chiusa al di là del "Muro Verde", fino alla tragica ricomposizione finale.

Quello che però, più di ogni altra cosa, colpisce di Noi è, pur essendo romanzo ormai datato, il suo stile che lo rende una delle scritture più moderne che mi sia mai capitato di incontrare. La prosa che lo contraddistingue è qualcosa di completamente originale (e oserei dire irripetuto), che non ha niente a che vedere con la prosa classica russa e con nient'altro che mi venga in mente, anche di recente. Volendo comunque cercare di attribuire una classificazione, da questo punto di vista Noi non può non richiamare l'esperienza letteraria del futurismo. Il mondo di Noi è dominato infatti dall'acciaio delle macchine, la cui potenza fa grande lo Stato Unico, e dal vetro dei palazzi, la cui trasparenza permette in ogni momento di vedere che cosa fanno - quasi sempre (se si ha l'iscrizione per un rapporto sessuale si possono abbassare temporaneamente delle belle tendine) - i sudditi-numeri. Le frasi sono sempre brevi, essenziali, ma a volte addirittura perdono parole, e i discorsi si arrestano davanti a puntini di sospensione, come se seguissero i pensieri (a volte sconnessi) di D-503.

Va ricordato che questo libro sancì l'inizio dei guai per Zamjatin, il quale fu visto sempre più come oppositore del regime sovietico. La pubblicazione di Noi fu vietata dal Glavlit, l'ente preposto alla censura, e il libro fu edito in inglese nel 1924, mentre in Russia vide la luce solo nel 1988. Anche in Italia, nonostante l'importanza storica e letteraria dell'opera, di Noi si ricordano poche e limitate edizioni: nel 1955, nel 1963, nel 1972, nel 1990 e - finalmente - nel 2007 grazie alla lungimiranza di Lupetti Editore. Per questo, se sono riuscito a stuzzicarvi, vi consiglio di recuperarlo in fretta, perché non si può dire fino a quando quest'edizione sarà ancora disponibile e quando potremo averne un'altra.

Insomma, spero di essere riuscito a trasmettervi che cosa possa significare leggere Noi a Berlino. In fin dei conti è un po' come leggere 1984 a Cologno Monzese.

L'estratto:
- Questo è insensato! È assurdo! Non capisci che ciò che voi tramate è la rivoluzione?
- Sì, la rivoluzione! Ma perché è assurdo?
- Assurdo perché la rivoluzione non può essere. Perché la nostra rivoluzione - non lo dici tu, ma lo dico io - è stata l'ultima. E non ci può essere nessun'altra rivoluzione. Lo sanno tutti.
L'aguzzo, ironico triangolo delle sopracciglia:
- Mio caro: tu sei un matematico. E in più sei un filosofo matematico: dimmi l'ultimo numero.
- Cioè? Io... io non capisco: quale ultimo numero? [...] Ma, I-330, questo è assurdo. Dal momento che il numero dei numeri è infinito, quale ultimo numero vuoi da me?
- E tu quale ultima rivoluzione vuoi? Non c'è un'ultima rivoluzione, le rivoluzioni sono senza fine.
Noi, di Evgenij Zamjatin - Lupetti Editore

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martedì 14 settembre 2010

Un marziano a Berlino (2 di 2)

D'accordo, il soggiorno berlinese è stato un po' movimentato. Del resto non è stato proprio un toccasana per l'umore neppure il non ritrovare l'automobile dove l'avevo lasciata la mattina. Ho impiegato un quarto d'ora, nemmeno poi tanto in fondo, a scoprire che nel pomeriggio era stata prelevata dalla solerte Polizei e portata altrove. Mi è stato poi spiegato alla Stazione di Polizia - se ho ben capito lo stentatissimo inglese della figlia di Derrick - che in Germania non è obbligatorio segnalare in alcun modo i Passi Carrabili (tranne per il lieve abbassamento del marciapiede, s'intende), anche quando si riferiscano, come nel caso capitato a me, a normalissimi portoni per i quali a nessun essere pensante verrebbe da immaginare la presenza di un accesso veicolare di qualche tipo, e ho capito così che i tedeschi sono talmente ligi alle regole, che non hanno bisogno nemmeno delle regole stesse. È chiaro che sommando piccoli e grandi disagi e disavventure assortite, si può pensare che abbia raggiunto una massa critica tale da avermi ostacolato il godimento della città. Ma tornato sul mio pianeta, a distanza di giorni e con l'umore di nuovo rientrato nei ranghi, mi sarei aspettato una specie di riconciliazione con la città. E invece no. Quel vago senso di "separazione" è rimasto.

Eppure la mia conoscenza e la mia cultura sono tornate da Berlino accresciute. E dunque anche la mia visione del (vostro) mondo e, più in generale, la mia esperienza. Per cui senza dubbio oggi mi sento un individuo migliore. Nonostante ciò, non percepisco quel tipico sentimento post-vacanziero che è la nostalgia, il bisogno, l'impulso a volerci ritornare perché non ho visto tutto quello che volevo vedere e non ho fatto tutto quello che volevo fare. Nondimeno a Berlino ho visitato un sacco di posti assai stimolanti. Il Museo della Storia Tedesca, il Museo della DDR, il Museo del Muro, ho visto la Fernsehturm e Alexanderplatz, quel che resta di Checkpoint Charlie, gli avanzi del Muro e i viali immensi di Karl-Marx-Allee, le tipica urbanità granitiche di Berlino Est, e il look patinato di Berlino Ovest. Ed è ripercorrendo idealmente quello che ho visto e ho provato, che riesco finalmente a collegare punti distanti tra loro, e intuire così quel vago disegno di fondo, quella filigrana quasi invisibile, che mi spiega dove stavo sbagliando.

Non è indifferenza quella di Berlino. Non è sufficienza. Non è incompatibilità. È la reazione alla manifestazione di un dolore. Perché Berlino è una città ferita e la ferita ha la forma dei segni di un muro sull'asfalto. Una città che ancora oggi porta i segni di quasi un secolo di tormenti, di conflitti, di follie, di famiglie divise, di sogni spezzati. E molti di questi possono essere testimoniati non da pochi reduci ultraottantenni che si riuniscono una volta l'anno, ma dalla gente che incontri tutti giorni in metropolitana. Tutto questo, insomma, è recente e lo si vede dietro gli occhi delle persone che l'hanno vissuto. E allora stringe il cuore vedere la comparsa del soldato della DDR che, per qualche spicciolo, timbra veri visti su finti passaporti a beneficio del solito gregge di turisti belanti. Lui lo fa per sbarcare il lunario o pagarcisi qualche libro all'università. Lui, che magari è nato il giorno in cui il Muro è crollato, e suo papà e sua mamma quelle cose le hanno vissute sul serio. Come suo nonno, che ha visto le svastiche sventolare, e magari le aste di quelle bandiere le ha tenute in mano pure lui. È vero, è incomunicabilità, quella che ho sentito. L'incomunicabilità dell'angoscia, il rispetto muto e silenzioso per essa, il desiderio di leccarsi le ferite in disparte, l'isolamento del senso di colpa. È la difficoltà di incontrare e quindi di comprendere una città che ha vissuto - così di recente - qualcosa che non puoi veramente capire, se non ti sei distrutto le mani per cercare di buttare giù almeno un pezzo, anche piccolo, di quel maledetto Muro.

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lunedì 13 settembre 2010

Un marziano a Berlino (1 di 2)

Quali sono le ragioni per cui una città ti resta nel cuore e un'altra invece no? Per le curve delle sue architetture? Per gli zampilli delle sue fontane? Per il fiato che i suoi spazi rapisce? Per il tono del colore del suo cielo? Per i profumi dei suoi quartieri? Per gli sguardi dei suoi abitanti? O per lo stato d'animo con cui la vivi? Insomma, prima di partire, Berlino per me era una scatola nera. Chiusa. E neanche a scuoterla, riuscivo a immaginare che cosa aspettarmi. Perché forse anche a causa dei suoi trascorsi bellici (e pre-bellici), Berlino è stata scacciata dal giardino dell'immaginario popolare, al contrario di Parigi e Londra. Quasi una punizione divina. Dunque per chi, come me, non c'era mai stato, Berlino non era più di una bandierina su una mappa di Google.

È anche vero che qua e là su Berlino ho letto meraviglie. Fantastica! La più bella città d'Europa. «Ci andrei a vivere di corsa!» La Marlene Dietrich delle città, insomma. Tuttavia ci vuole molta più energia a criticare che a lodare. O molto più coraggio. Perciò, quando sono emerso dalla metropolitana che mi ha portato in centro dalla periferia dove ho l'hotel, e mi sono calato nella sua realtà, non avevo con me un campionario di aspettative da liquidare in saldo. Ero come il sensore di una macchina fotografica che non ha ancora visto la luce. Eppure, ho sentito che Berlino non mi accoglieva. Mi raccontava la sua storia importante, interessante e travagliata, ma con urbana freddezza, come una donna che lo capisci da come ti guarda e da come mette le mani, che ti tiene a distanza, che ti fa capire di essere irraggiungibile. Proprio come Marlene Dietrich.

Sulle prime ho pensato di essere vittima di un accidente comunicativo. Se non capisci un tubo di tedesco, aggirarti per una città in cui ogni insegna, ogni pubblicità, ogni indicazione è scritta in un idioma a te del tutto - tranne in rari casi - estraneo, non aiuta al reciproco avvicinamento. Per cui potrebbe essere un gioco da ragazzi per il tuo inconscio trasferire la colpa della tua ignoranza in un preteso rifiuto della città nei tuoi confronti. Ma non mi sembrava abbastanza. Così ho ritenuto che fosse colpa (anche) della pioggia battente che ha messo a dura prova le mie antenne e in solo mezza giornata ha violato la finora supposta impenetrabilità della mia giacca impermeabile che era riuscita a passare indenne sia alle più violente piogge irlandesi, che ai nubifragi estivi della Scozia. Ciò nonostante non volevo credere nemmeno a questo. Certo, trovare alle 18:30 la toilette dell'Europa Center di Budapester Straße sprangata come Fort Knox, perché alle 18 chiude (NB quando però il centro commerciale chiude dopo le 19), non fa un'ottima impressione alle viscere in ambasce. Ma non poteva questo bastare a farmi abbandonare la convinzione ostinata che ci dovesse essere dell'altro, dietro. Qualcosa di più spesso ed etereo insieme. Uno spettro che mi inseguiva. Era come se lo intuissi con la coda dell'occhio, ma sparisse una volta inquadrato di fronte. A domani per (forse) la soluzione.

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mercoledì 8 settembre 2010

A piedi nudi nel parco?

La risposta è no. E non solo perché, nonostante il post precedente, i piedi non erano nudi. Ma anche (e soprattutto) perché quello non era un parco. Lo sembrava, sulle prime, questo sì, ma non lo era. Oppure lo era? Del resto che cos'è un parco? Insomma, la faccenda non è così semplice, ma è molto interessante e bella, e per questo merita qualche passo indietro. Almeno, insomma, da quando sono uscito dall'hotel, ho affacciato le mie antenne su Kasseler Landstraße e, seguendo le indicazioni della receptionist, «Ci vorranno venti minuti a piedi», ho svoltato a destra, direzione zentrum. Così, senza fretta, mi sono incamminato, scortato da un cielo prematuramente autunnale e la guida Routard della Germania (ediz. 2009) secondo la quale, a dispetto delle conferme sensoriali che ho, Göttingen non esiste.

Mentre proseguo lungo il marciapiede cercando di familiarizzare con la pista ciclabile, ovvero cercando di evitare di essere arrotato, sfoglio il volume con una certa incredulità. Sembra che qui non ci sia nemmeno una sola ragione per venire a fare del turismo e già m'incupisco al pensiero di aver toppato tappa. Ma la parola opinione deriva da opinabile (o è il viceversa?), e difatti - manco a dirlo - l'opuscolo pescato in hotel naturalmente è di avviso completamente opposto. Göttingen, all'italiana Gottinga, è invece città antica, ricca di storia e di cultura, ospitando (ma questo lo sapevo già) - la prestigiosa Georg-August Universität, fondata nel 1737 che, tra le altre cose, ha visto passare tra le sue aule come studenti, professori, o entrambi, ben 43 Premi Nobel (questo invece non lo sapevo) e altre grandissime personalità soprattutto scientifiche, come Gauss, Riemann, Minkowski, Fermi, segno della ricchezza del fermento culturale del luogo.

Il centro è grazioso e accogliente, a misura d'uomo (ma anche di marziano) nelle architetture tipiche a graticcio delle case, nelle strade strette, nei numerosi pub e nell'ariosità della Marktplatz, la piazza principale presidiata dal palazzo dell'Alte Rathaus, l'antico municipio, e dalla ragazza più baciata del mondo. Si tratta della fontana con la statua della Gänseliesel, ovvero la Ragazza dell'oca, che poco dopo la sua costruzione nel 1901 divenne oggetto della tradizione studentesca secondo la quale tutti coloro che si laureano a Göttingen devono arrampicarvisi e stampare un bacio su una guancia della ragazza. Poiché l'usanza veniva sovente svolta in situazioni oltremodo chiassose e alcooliche, nel 1926 la municipalità di Göttingen proibì la pratica per decreto, ma pare che fino a oggi la legge non sia mai stata fatta rispettare. Del resto si può forse proibire di baciare?

Se ci aggiungo l'Alte Botanische Garten der Universität Göttingen, giardino botanico storico in cui sono rappresentate oltre 14.000 specie di piante, comincio a pensare che stavolta la mitica Routard abbia preso una cantonata colossale a non segnalare Göttingen. E la conferma mi arriva, quando al ritorno, sulla medesima Kasseler Landstraße dell'andata, il mio sguardo si spinge tra le inferriate di un giardino verde e rigoglioso, che prima non avevo notato. Giacché il luogo non è menzionato neanche nell'opuscolo dell'hotel, penso sia il solito parco cittadino. Raggiungo un cancello di fronte quale si apre un viale che porta a una Cappella e il posto sembra davvero molto bello. Così decido di rilassarmi facendo due passi nel verde. Il rumore del traffico della statale si smarrisce dopo pochi passi e senza che me ne accorga, vengo immerso in un silenzio irreale. Poi supero la Cappella e capisco perché.

Lapidi. Antiche e moderne. In ordine sparso e casuale, come in piazzole di un campeggio eterno. Sorgono direttamente dal prato come se fosse stata la Natura a metterle lì, quella stessa Natura studiata, teorizzata, sbirciata dagli scienziati di Göttingen. E il mio cuore ha un sussulto quando il mio sguardo si posa sull'iscrizione che recita Karl Schwarzschild (1873 - 1916), l'astronomo e astrofisico famoso per aver matematicamente previsto i buchi neri. Forse non è un caso che prosegua la mia passeggiata come sbalzato fuori dello spaziotempo. Vengo così a sapere da una mappa appesa a un cancello che qui sono sepolti otto Premi Nobel, e superato un laghetto ornato da ninfee, trovo la tomba di Max Planck (altro sussulto del cuore). Mi viene spontaneo inchinarmi a colui che insieme ad Einstein ha incarnato la rivoluzione dei paradigmi della fisica del novecento, facendo fare un salto quantico all'intera visione del mondo.

Il parco (perché proprio non riesco a chiamarlo cimitero) è vastissimo e c'è da perdersi. Non so se - ed eventualmente a che ora - lo chiudono e a tratti vengo colto dal terrore di restarvi chiuso dentro. Ma vorrei anche che la passeggiata non finisse. Nell'atmosfera uggiosa, quasi nebbiosa, ogni tanto sento un fruscio. Mi volto. È sempre un ciclista solitario che attraversa lento i viali deserti e ogni volta quasi mi aspetto di vederlo svanire alla seconda occhiata, come un fantasma che ha esaurito il suo compito. E il mio vagare continua, mentre la luce del pomeriggio si affievolisce, tra nomi di gente che non c'è più e vispi coniglietti che spuntano da dietro i cespugli, attraversano trotterellando i sentieri indisturbati, e si tuffano sparendo in una macchia di verde più in là. L'atmosfera è davvero suggestiva e mi viene la voglia di vedere questo posto nel pieno dell'Anno Accademico, in una bella giornata d'autunno, magari poco dopo la prima spruzzata di neve dell'anno. Lo immagino frequentato da studenti chini sui libri, che dopodomani c'è la sessione di esami, e da ragazzi che si tengono per mano, da gente che viene cercare un po' di tranquillità per leggere sulle panchine e da professori che lo trovano un buon posto per riflettere sul Bosone di Higgs, sul mistero dei numeri primi o sulle implicazioni della simmetria.

È bello pensare che questo sia un parco e non un cimitero. È bello pensare che i vivi possano avere un posto dove venire a condividere un pezzettino della loro vita quotidiana in compagnia dei loro morti. Perché i morti non meritano di essere ghettizzati, emarginati, ingabbiati, rinchiusi in campi di concentramento spirituali, nell'illusione dello struzzo che rimuovere il risultato della morte sia come rimuovere la morte stessa. Perché a saperli ascoltare i morti hanno sempre qualcosa da dirci. E perché se noi viviamo un po' con loro, anche loro vivranno un po' con noi.

Insomma, non è forse abbastanza per fare un salto a Göttingen?

/continua

lunedì 6 settembre 2010

Esperimento di filosofia podologica

L'avete mai visto un piede? Voglio dire, osservato per bene, a lungo e da distanza ravvicinata? Va bene un piede qualsiasi, il vostro o quello del vostro vicino di ombrellone, purché possibilmente senza fronzoli, smalti alle unghie, tatuaggi, cavigliere, anelli o altri ninnoli. Un piede. Nudo e crudo. Al naturale. Magari appena prima di una sessione di pedicure, con le sue dita, le sue unghiette - un filino lunghe è meglio - i suoi calli e i suoi ispessimenti sul tallone. Ebbene, se non l'avete mai fatto, vi consiglio di farlo. Svuotate la vostra mente da altri pensieri, e restate a fissarlo per un po'. Solo lui, separato dal resto del corpo. Ma non cinque secondi. Abbiate un po' di pazienza. Fatelo per almeno alcuni minuti. E vedrete che, se vi sarete concentrati abbastanza, dopo un po' succederà qualcosa di strano, qualcosa di molto simile a quello che accade quando fissate per un po' le lettere di una parola. La parola è come se esplodesse, perdendo i suoi attributi di significato, come se fosse oggetto di una regressione alla radice del segno. Allo stesso modo, vedrete che l'arto (vostro o di un altro) smetterà di essere l'appendice corporea umana che nascondete nelle scarpe e che siete abituati a conoscere fin dalla vostra nascita, e tornerà indietro fino al suo primigenio significato animale.

Dopodiché vi serve un orso. Lo so che non è facile, ma fate uno sforzo. Per l'esperimento sarebbe meglio un orso dal vivo, in quanto una fotografia può non sortire l'effetto desiderato. Ma in mancanza d'altro, potete provare anche con quella. Il punto è che - comunque sia - ciò che vi serve è un bel piede di orso. L'esperimento io l'ho fatto all'Alternativer Bärenpark di Worbis, minuscola e caratteristica cittadina a una sessantina di chilometri a sud est di Göttingen, la celebre città universitaria nel cuore della Germania ai margini meridionali della Bassa Sassonia. Dunque, a nessuno verrebbe in mente di venire a Worbis, se non ci fosse questo fantastico parco che, in una cospicua superficie boscosa, in cui praticamente in gabbia ci sei tu - visitatore - mentre gli animali sono liberi intorno a te, ospita soprattutto numerosi esemplari di orsi e lupi, i primi recuperati in giro per il mondo da situazioni di maltrattamenti, prigionia e condizioni di vita penose. Qui i plantigradi vivono nella natura in pace e serenità, accuditi con amore e rispetto dagli addetti al parco. E, benché non siano del tutto liberi di andare dove gli pare e piace - malgrado l'ampissima superficie di cui dispongono, c'è naturalmente una recinzione esterna -, credo che questa soluzione consenta loro un'esistenza più che soddisfacente, soprattutto se rapportata a quella che facevano prima. Ma torniamo all'esperimento.

Avrete notato che sopra ho chiamato gli orsi "plantigradi", ovvero - per chi non lo sapesse - mammiferi che camminano poggiando a terra l'intera pianta del piede. Anche voi umani, per esempio, siete "plantigradi". Come pure noi marziani. Dunque cercate un piede di orso e fate la stessa cosa che avete fatto con quello umano. Fissatelo per qualche minuto. Di sopra, ma anche dal lato degli artigli e della pianta. Come già successo per quello umano, dopo un po' vedrete che anche il piede di orso perderà i suoi connotati di piede di orso, per regredire verso un'immagine concettuale che è sorprendentemente sovrapponibile a quella ottenuta durante l'osservazione del piede umano. In altre parole, attraverso questo semplice esperimento, si raggiunge la percezione della consapevolezza di una "vicinanza" animale con l'orso. Ma non fatevi fregare pensando si tratti di un semplice riconoscimento di somiglianza. Perché la sensazione, che pur forse c'è, non si limita a questo. È qualcosa di più intimo e arcano. Il recupero della cognizione di un profondissimo e indissolubile legame ancestrale che ogni essere intelligente (umano come pure marziano) ha con la propria natura animale, che migliaia di anni di (pretesa) civiltà hanno fatto senza dubbio perdere di vista, ma che non può essere cancellato dal tessuto della realtà.

Terminato l'esperimento, quando vedo uno degli orsi sguazzare nel laghetto giocando con un tronco, non posso fare a meno di pensare che molto probabilmente lui è molto più felice di tanti visitatori che si trovano qui (anche di me), e che ciascun essere umano potrebbe vivere molto meglio se solo fosse capace di recuperare almeno un po' della sua ursinità ancestrale.

/continua

giovedì 2 settembre 2010

Il cimitero dei senza corpo (2 di 2)

Qui trovo maggiore compostezza tra i visitatori. Senza alcuna concessione al respiro, si scivola tra pannelli che raccontano le tragiche storie delle migliaia di esseri umani passati di qui in più di un decennio di "attività". Ci sono i prigionieri politici, quelli colpevoli solo di far parte di altri popoli (Zingari, Ebrei e Polacchi, ma anche Austriaci, Italiani, Francesi, Spagnoli...), e quelli rei di essere lombrosianamente diversi (le facce da criminali, da asociali, da disadattati, da oziosi...). Gli omosessuali, i preti, i Testimoni di Geova, le prostitute, i vagabondi, gli alcolizzati e i mendicanti. Alla fine si scopre che qui a Dachau non si sono fatti mancare proprio niente. Ci si imbatte nell'astuccio che contiene una quindicina di ciocche di capelli in gradazione dal biondo al rosso al nero, come una cartella colori RAL, numerate (e dunque codificate) per una comoda, rapida e infallibile determinazione del grado di arianità della razza. Stessa cosa per gli occhi. E si può osservare una specie di appoggio orizzontale fatto di listelli di legno, dove venivano fatti disporre bocconi i prigionieri per poter essere bastonati con maggior efficacia (apposito frustino in nerbo di bue flessibile incluso nella confezione). Per non parlare delle sezioni dedicate agli esperimenti scientifici che a Dachau vennero svolti con grande solerzia, vista la grande disponibilità di cavie (umane) a perdere.

E almeno un paio di volte non posso evitare di essere sopraffatto dall'empatia e dalla commozione, come quando lo sguardo mi si posa sulla cartolina disegnata con immenso e tangibile amore, che un ospite del campo ha spedito a casa come augurio alla mamma per la sua festa (vedi a fianco), oppure nella riproduzione del dipinto così intriso di profonda e assoluta disperazione che il prigioniero David Ludwig Bloch realizzò nel 1940 dopo la sua liberazione (vedete qui sotto). Oltre a individui, ci sono anche comitive. Ce n'è una proprio qui, vicino ai pannelli che parlano degli ebrei. La guida parla loro in inglese, ma non so da dove vengano. So che alcuni ragazzi della comitiva si siedono contro un muro della sala, aprono un paio di confezioni di patatine e cominciano a sgranocchiarle. Non fanno casino. Non è che ridano o chissà che. Però quel comportamento mi dà fastidio. Lo trovo irriguardoso. In questa sala ci appendevano i prigionieri con le mani dietro la schiena come maiali pronti per essere scannati. Ci sono ancora i segni delle travi da cui pendevano i ganci, accompagnati dagli agghiaccianti disegni fatti dai prigionieri. Eppure quei ragazzi non ci vedono alcun problema a improvvisarci un bel brunch. Crunch crunch crunch. È un problema mio? È la mia ipersensibilità marziana? Non lo so. Ma intanto il retrogusto di prima è tornato alla ribalta come un conato di bile.


La testimonianza prosegue di tragedia in tragedia fino alla liberazione del 1945. Poi, prosciugati dal lungo orrore, si esce sul piazzale antistante, assolato come un deserto, dove c'erano le due file di diciassette baracche ciascuna che ospitavano i prigionieri. Oggi ne restano solo due, ricostruite per essere visitate, con le brande in legno a castello a tre piani. In fondo al viale, i memoriali dedicati ai cattolici, ebrei e musulmani che qui hanno lasciato la vita, mentre più in disparte il crematorio. Tornando verso l'edificio principale si nota una grande scultura che domina il piazzale. Si tratta del Monumento Internazionale alla Memoria di Nandor Gild (1968) che stilizza un filo spinato con un groviglio corpi umani. Trovo sia molto bella e che valga la pena una fotografia. Ma sembra che, dopo il cancello con la scritta, questo sia il soggetto preferito dai visitatori. Tutti lì davanti a farcisi fare una foto da far vedere alla mamma. E io, che vorrei scattare una foto senza (un cazzo di) nessuno davanti, non riesco. Cioè per un po' paziento e aspetto l'attimo buono. Poi arrivano due tizi (NB non italiani) che hanno tutta l'aria della coppia di omosessuali (ma magari mi sbaglio, eh). Comunque sia, 'sti due gironzolano avanti e indietro il monumento per un po'. Poi si decidono. Uno - quello con la macchina fotografica - si allontana e va a prendere posizione per l'inquadratura. L'altro si mette in posa sotto il monumento. Quindi mentre il primo comincia ad allineare l'obiettivo della digitale per lo scatto, l'altro fa una risatina, si volta di culo e mima di tirarsi giù i calzoni (giuro, non me lo sto inventando). Quindi si rigira per essere immortalato, ancora più divertito.

Finalmente riesco a farla, 'sta fotografia, dopodiché mi allontano. Lo sgradevole retrogusto di prima ha finalmente trovato una connotazione precisa nel momento in cui mi viene da domandarmi se questi due, ma anche coloro che ormai in parecchi vedo intorno a me, si rendono davvero conto di quello che è successo qui, su questa medesima terra che i nostri piedi stanno calpestando. Se percepiscono il dolore che ha attraversato questo luogo. Non un dolore qualsiasi, ma un dolore che un uomo ha inflitto a un altro uomo con l'animo di chi si diletta in una nuova raccapricciante disciplina sportiva. O se invece costoro guardano le fotografie di umanità violata e leggono le testimonianze di gratuita sofferenza con lo stesso animo con cui si piazzano davanti a un film con Christian De Sica o - per essere più internazionali - a una puntata di Desperate Housewives. Ci troviamo forse davanti a un pericoloso processo globale di fictionizzazione delle coscienze?

Esco riflettendo che non si va a Dachau per fare del turismo. Non si va a Dachau per giocare a nascondino. Non si va a Dachau per mettersi in posa. Del resto a Dachau mica ti vendono le palline di vetro che se le capovolgi, sulla piccola schiera di baracche vedi scendere la neve. Ma forse è solo perché nessuno ha ancora pensato di farle con la cenere.

/continua

mercoledì 1 settembre 2010

Il cimitero dei senza corpo (1 di 2)

Dachau non è un luogo. Dachau è un tempo. Dachau è una memoria con i denti di lupo. Non ci vuole molto a seguirne le tracce, l'odore, la scia. Da Innsbruck saranno poco più di 200 km. Due ore e mezza di strada rispettando i limiti. Si segue la direzione München, si supera l'ostacolo della tangenziale e, nella periferia a nord-ovest della capitale bavarese, ci si ritrova in questa cittadina fondata nell'805 d.C. a seguito del dono da parte della nobile Erchana della stirpe degli Ariboni di tutte le sue terre site in Dachauua all'arcidiocesi di Monaco e Frisinga. In realtà dalla cittadina non ci si passa, se non si desidera. Usciti dall'autostrada si seguono le indicazioni per [KZ-Gedenkstätte], che ci sono, ma sono scritte al microscopio elettronico e rigorosamente in tedesco (non è che ci tengono a fare molta pubblicità internazionale a Dachau, i tedeschi, e c'è da capirli) - quindi, o sai esattamente che cosa devi cercare, o sei fregato - finché dopo una manciata di minuti si arriva al parcheggio nascosto da alte siepi. Si pagano 3€ per mettere l'automobile nel piazzale, dopodiché non ti verrà chiesto nient'altro, se non leggere, riflettere e ricordare. I brividi nella schiena ce li metterai tu.


Per giungere all'ingresso della struttura c'è un breve tratto da fare a piedi, la ghiaia che scricchiola sotto i piedi sono frammenti di ossa polverose. È metà mattinata e non c'è ancora molta gente. Da qui ancora non si vede niente, ma c'è già qualcosa che mi prende nel mezzo del petto. Suggestione o altro? Non so. Però so che quando sento delle voci (NB italiane) che parlano ad alta voce, mi fanno l'effetto delle unghie su una lavagna. Vorrei dirgli qualcosa. Qualcosa che ha a che fare col rispetto del dolore e l'omaggio alla memoria. E se fossero stati dei ragazzini forse l'avrei fatto. Ma costoro ragazzini non sono. Sono signore e signori, maturi e attempati, che parlano di frivolezze come se si stessero aggirando alla fiera patronale, tra banchi di mutande e pentole antiaderenti. Meglio superarli e lasciarseli indietro. Eppure il loro atteggiamento lascia un residuo dentro di me, come un retrogusto che devo ancora identificare e che solo verso la fine della visita riuscirà a mettere a fuoco.

Il tempo per orientarmi e mi trovo al cospetto della cosiddetta Jorhaus Tor, il cancello situato nell'edificio dove si trovava il comando delle SS, attraverso cui tutti i prigionieri dovevano passare per entrare nel campo. Anche qui, come nel caso di Auschwitz e di molti altri lager, nella trama del ferro battuto fa bella mostra di sé il grottesco e crudele messaggio di benvenuto ai prigionieri Arbeit Macht Frei, ovvero Il lavoro rende liberi, come un cioccolatino sopra il cuscino nella stanza dell'hotel. E proprio lì davanti non posso fare a meno di notare la calca disordinata di gente (NB non solo italiani) che fa a gara per farsi immortalare con la scritta sulla sfondo. «Chiudi la porta..., dài chiudi la porta che non si vede bene la scritta, ok, così va bene, ora vai un po' più indietro, a destra, aspetta..., abbassati un po', okay, sì ma sorridi, fico!... clic, oh, no aspetta è venuta una schifezza, troppo scura, rimettiti lì. E richiudi quella cazzo di porta! Vabbè, aspetteranno un attimo per passare, 'sti stronzi...», e via in tempo reale su Facebook/Twitter/Flickr/Splinder/Blogger...

La visita prosegue nel grande edificio principale, dove erano situati guardaroba, cucine, officine e bagni, nonché un certo numero di spazi dedicati a tortura e vessazioni assortite. L'esposizione ripercorre cronologicamente la storia del campo, partendo dall'antefatto, ovvero dalla situazione politica e sociale venutasi a creare in seguito alla disfatta della Germania nella I Guerra Mondiale, la Repubblica di Weimar, la grave crisi economica e sociale degli anni '20, la conseguente progressiva ascesa del NSDAP (Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei), e la sua affermazione nelle elezioni del 1932. Dachau fu il primo "campo" istituito da Hitler solo poche settimane dopo la sua "presa di potere" avvenuta il 30 gennaio 1933, per togliersi di mezzo soprattutto gli avversari politici, comunisti innanzitutto, ma anche socialdemocratici, sindacalisti e in seguito pure conservatori e monarchici. Il suo triste primato lo rese anche una sorta di campo di "esempio" e di "prova" per tutte le sistematiche e disumane applicazioni di abuso, violenza, tortura e sterminio che sarebbero venute da lì in avanti, sempre più efferate, fino alla fine della II Guerra Mondiale. Ma di questo ne parliamo domani.

[Nota: "Unsere letzte Hoffnung" significa: "La nostra ultima speranza"]

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