Punti di vista da un altro pianeta

lunedì 30 agosto 2010

«Continuate così, fatevi del male!»

In quasi quattromila chilometri di percorso, dalla Baviera al Meclemburgo-Pomerania Occidentale e ritorno, passando per la Bassa Sassonia e il Baden-Württemburg, ho visto cose che voi umani non potreste nemmeno immaginare: tedeschi che lampeggiano in autostrada e olandesi senza roulotte al seguito, un affumicatore di pesce di nome Pennywise e sostenitori della Merkel vestiti da soldati sovietici... e tutti quei momenti (ma soprattutto altri) resteranno impressi su questo blog come bit su un hard disk. È tempo di cominciare.

Ma la prima tappa del viaggio si attesta una manciata di chilometri al di fuori della Germania, una sosta di avvicinamento, oppure - se vogliamo - di ambientamento, in una terra in cui la diversità della lingua e la diffusa ignoranza di altri idiomi comuni, è la prima manifesta difficoltà. Eccomi dunque a Innsbruck - Austria, capoluogo del Tirolo Settentrionale, e perla della regione - almeno sostengono le guide - situata ai piedi di un'imponente corona di montagne. Eppure la prima impressione che ricavo avvicinandomi alla città, e che mette kaputt le mie aspettative, è quella di un contorno urbanistico industriale e cementificato. Niente di tipico o storico, insomma. Fa piuttosto venire in mente un'Abbiategrasso più montana. Dal canto suo Aosta - tanto per citare un'altra "grande" città alpina (anche se, va detto, fa un terzo degli abitanti di Innsbruck) - sembra assai più caratteristica e raccolta.

Poi, superando di gran carriera qualche squallido pub, un cantiere faraonico (o sono i resti di un bombardamento della II Guerra Mondiale?), un viale di vetrine scintillanti e il deja vu di qualche tempio della globalizzazione, mappa alla mano giungo finalmente nella Zona Pedonale, un tessuto di poche vie che costituiscono il centro, con il Tetto d'Oro e il quartiere storico con le case a graticcio e gli affreschi, ma anche la via crucis di bar, ristoranti e negozi di souvenir (per il turista che vuole fare penitenza), la sola area in cui in fin dei conti - nonostante tutto - vale davvero la pena gironzolare. Roba, insomma, che in un'oretta ti sei abbondantemente levato il pensiero. A meno che tu non sia un amante dello speck e dei wurstel, naturalmente. Per il resto, confesso, mi suona del tutto fuori luogo pensare di venire qui apposta per più di mezza giornata. Poi però, dopo una cena che funge da preludio iperproteico alla dieta che mi toccherà nei prossimi giorni, accade quello che non mi aspetto e che cambia le carte in tavola e dà un senso a tutto quanto. A volte basta poco.

Basta salire i pochi gradini che conducono all'ingresso del Café Sacher dove si può gustare una fetta di Sacher-Torte originale, per capire perché Nanni Moretti in Bianca si scandalizzava così tanto. L'atmosfera è viennese, anche se Strauss non c'è. Candelabri e tappezzeria arabescata. Tavolini in marmo e poltroncine un filo troppo soffici. Mentre mi accomodo, resisto all'impulso di controllare se ho con me la carta di credito, che se il mio portafoglio uscirà indenne da qui sarà un miracolo.

Quindi ordino e in meno di trenta secondi il cameriere/sacerdote pone sul mio tavolo ciò che ho richiesto. Un'originale, unica, deglobalizzata fetta di Sacher-Torte. Con un bel fiore di panna montata a impreziosire la composizione. Apprendo che la ricetta della Sacher-Torte, inventata il 9 luglio 1832 dall'allora sedicenne apprendista cuoco Franz Sacher per il celebre Wenzel Clemens principe di Metternich - poiché quel giorno il cuoco di corte era malato -, è tenuta rigorosamente segreta, un po' come quella della Coca Cola. Però, al contrario della bevanda del colosso di Atlanta, vi sono solo cinque luoghi al mondo, in cui è possibile gustare la Sacher-Torte originale: Vienna, Innsbruck, Salisburgo, Graz, e il Sacher Shop di Bolzano. Certo, ci sono le innumerevoli imitazioni di pasticceria che schifo in genere non fanno, tutt'altro. Ma quella originale, gente, parola di marziano, è tutt'altra faccenda. Nella consistenza e nella morbidezza vellutata della glassa, per esempio, ma soprattutto nella trama della pasta della torta, che sembra quasi non lievitata e conferisce in questo modo al palato un'esperienza di rotondità del tutto inedita rispetto a una torta convenzionale. Finisce così, con la Sacher-Torte (a soli 4,90€ seduto al tavolo) che mi salva Innsbruck da un'inaspettata débâcle. Senza contare che questo straordinario carico di dolcezza mi sarà d'aiuto per mitigare l'asprezza che, non ho dubbi, mi sta aspettando dietro l'angolo della prossima tappa.

/continua

venerdì 27 agosto 2010

Il marziano che cadde sulla Terra

Vi ho mentito. Anzi no. In realtà ho semplicemente omesso di dirvi che, nel periodo di congiunzione tra Marte e la Terra, non me ne sarei stato ad arrostire nel bel mezzo di un cratere, ma avrei preso uno di quegli shuttle low cost last minute low budget all inclusive, e sarei venuto a trovarvi di persona. Non sono cose che noi marziani, riservati per natura, sbandieriamo volentieri. Ci piace viaggiare in incognito, non dare nell'occhio, insomma, truccarci e mescolarci, per osservarvi e capirvi meglio. O per lo meno tentare di farlo.

Così ho abbandonato la confortevole e rassicurante distanza imposta dal mio telescopio e, un po' come l'angelo de Il cielo sopra Berlino, mi sono tuffato in mezzo a voi umani, con le vostre regole e la vostra pioggia, i vostri centri commerciali e i vostri negozi di souvenir, le vostre salsicce e la vostra storia, i vostri muri (crollati e non) e i vostri paesaggi (così privi di rosso). Era chiaro però che non avrei scelto l'Italia, come mia meta. Dopo tutti questi mesi ad analizzarvi, voi italiani, volevo qualcosa di diverso, un posto dove un marziano non era mai giunto prima. Così ho scelto la Germania.

E ora che sono tornato sul mio pianeta, che la congiunzione è finita e che posso distillare i ricordi e le esperienze, separandole dalle emozioni, posso dire che la scelta è stata giusta. Perché un viaggio degno di questo nome non è riposo, sdraio, ombrelloni e tintarella, bensì esperienza, cultura, cambiamento, confronto, prova. Ogni tanto, insomma, mettere il naso fuori dal nostro giardino (o cratere) può fare solo bene. Ma non si deve andare troppo distante, nel qual caso riconoscere le differenze culturali e di pensiero sarebbe scontato, facendo così rientrare l'esperienza nell'ovvio e quindi prendendo il tutto troppo poco sul serio nella misura con noi stessi.

Perché alla fine sono sempre coloro che vediamo dalla finestra, quelli più interessanti. Quelli che sono diversi da noi, ma non troppo (o invece molto più di quello che sembra?). Hanno gli stessi nostri negozi, ma si ingolfano di bratwurst. Si vestono più o meno come noi, ma guidano come tanti soldatini. Hanno avuto i romani, ma parlano a quadretti. Perché confrontarsi con i propri simili significa fare un esame della propria cultura, delle proprie idee, del proprio modo di essere. Scendere dal piedistallo del proprio orizzonte e mettere in discussione la propria visione del mondo (personale, civile, sociale, morale, ecc.), per scoprire che forse non è poi così giusta, o che forse non è poi così sbagliata, o solo che una diversa concezione ha sempre e comunque diritto di cittadinanza.

Così, non avendo avuto la possibilità di aggiornare il blog in tempo reale durante il percorso, i prossimi post saranno i pensieri, le idee e le osservazioni a trecentosessanta gradi che questa esperienza mi ha lasciato. Nel frattempo ho risposto ai vostri interventi sui miei precedenti Libri Marziani. Dunque ben ritrovati tutti, cari vecchi e nuovi lettori. Il viaggio ricomincia.

/continua

lunedì 23 agosto 2010

Quattro colpi di machete nella giungla editoriale

Voglio chiudere questa rassegna estiva di segnalazioni librarie con qualcosa di particolare (la congiunzione planetaria, ebbene sì, sta finalmente volgendo al termine, entro qualche giorno le comunicazioni saranno ripristinate e Il grande marziano tornerà live on-line). A tale riguardo però trovo doveroso fare una premessa, legata a come siamo noi marziani. Dovete sapere, infatti, che se c'è una cosa che noi non siamo capaci di fare, è adulare. La piaggeria non fa per noi. Niente lusinghe, ossequi, incensi e sviolinate nella nostra cassetta degli attrezzi. Non ce la facciamo, è più forte di noi, non è nella nostra natura come non lo è la menzogna. E dunque se c'è una cosa che proprio non ci è piaciuta, al massimo preferiamo abbassare le antenne e tacere, fare finta di niente, glissare, insomma, piuttosto che sbandierare finti complimenti e produrci in sonore pacche di coccodrillo. D'altro canto, potrete stare certi che se invece diciamo che la tal cosa ci è piaciuta, significherà che è sacrosantamente vero.

La puntualizzazione era d'obbligo, perché oggi voglio parlarvi di un libro scritto da un blogger. Ops! E non da un blogger qualsiasi, ma da un blogger amico, che bazzica spesso anche da queste parti e che perciò molti di voi conoscono. E se dunque ho deciso di segnalarlo, non è per amicizia, nepotismo digitale, o tornaconto economico(!), bensì perché reputo questo suo libro molto prezioso, prima ancora di originale, sorprendente, divertente e perfino salutare. Prezioso perché in questi mesi ho maturato la sensazione che i blog siano dei piccoli giardini in cui si nascondono molti individui che accarezzano l'idea di voler fare dello scrivere una professione. Magari non "la" professione che ti dà da vivere, niente milioni di copie, bestseller o versioni cinematografiche, insomma, ma almeno un'attività riconosciuta dal mondo. Gente, insomma, che coltiva l'ambizione (il sogno?) di pubblicare ed essere letta, perché scrive cose che, a suo giudizio, valgono la pena di essere pubblicate e lette.

Non voglio entrare qui nel merito di un simile arduo esercizio, ovvero delle qualità tecniche, morali, psicologiche e artistiche necessarie e del relativo ventaglio di azioni, passi, mosse, iniziative utili per provare a "farcela" in un simile campo (peraltro c'è pieno di blog e siti prodighi di informazioni e consigli giusti e sbagliati a riguardo), quanto piuttosto di quello di cui Nicola Pezzoli, alias Zio Scriba, è stato testimone sulla sua pelle e che ha documentato nel suo ironico, tragico, spassoso, triste e surreale (ma, ahimè realissimo) reportage Tutta colpa di Tondelli. Perché chiunque si accosta al mondo editoriale, deve sapere a chi e a che cosa può andare incontro. Persone e situazioni. Sacrifici e delusioni. Pazzie e speranze. Perché se per taluni aspetti la vicenda di Nicola è emblematica di come l'ambiente dell'editoria considera e tratta gli esordienti/sconosciuti, soprattutto rispetto alle "false illusioni" che sovente essa alimenta (si vedano le "lettere di rifiuto" riportate in appendice al volume, soprattutto le ultime) e di cui a volte cerca di approfittarsi spietatamente, dall'altro il suo racconto va oltre, perché le peripezie raccontate nel suo libro suonano del tutto impossibili, come uscite da un vero e proprio romanzo tragicomico e atterrisce il solo pensiero che invece siano state vissute sulla pelle di un essere umano.

Rispetto a quanto accaduto a Nicola e al suo travagliato rapporto con colui che, a dispetto di tutte le parole, le assicurazioni, le telefonate, gli impegni ecc., non fu mai il suo mentore, devo infatti dire che non credo sia rappresentativo di un modus operandi tipico dell'editoria italiana, per quanto i rapporti con essa possano essere difficili, frustranti, surreali e labirintici, in una parola kafkiani. Al contrario, la situazione in cui è caduto vittima Nicola credo (anzi spero) sia non dico unica, ma per lo meno molto rara. Quello che però, con il suo consueto stile spumeggiante e tagliente che potete conoscere anche frequentando il suo blog, Nicola insegna, è l'autodisciplina alla disillusione. Un po' come il celebre libro di Carr Allen per smettere di fumare, Tutta colpa di Tondelli dovrebbe essere un libro obbligatorio per chiunque voglia intraprendere la strada della scrittura, affinché prenda questa attività con la necessaria consapevolezza di ciò che significa, ovvero con l'indispensabile dedizione e disciplina, costanza e abnegazione, voglia e ambizione, ma anche con il giusto realismo e disincanto. Per smettere di illudersi, insomma. Per questo poco fa ho parlato di libro "salutare". Perché il (di)dietro le quinte lo si può conoscere solo sulla propria pelle, ma quando lo si conosce finisce per bruciare parecchio.
Tutto il resto è culo.

Tutta colpa di Tondelli, di Nicola Pezzoli (Kaos)

lunedì 16 agosto 2010

Attenti a quegli altri due

Se in un'America contemporanea, magari del sud, quella che vive alla giornata, sporca e disillusa, fatta di città e di periferie, di serpenti e di magia, di crimini e di soprusi, di boschi e di paludi, di razzismo crudele e di amori difficili, un bianco-etero-democratico incontra un nero-gay-repubblicano, è facile intuire che possano succederne di tutti i colori. Se poi i due compari in questione sono anche amici per la pelle, hanno il leggero difetto di menare le mani, la tendenza del tutto involontaria a finire nei guai fino al collo, e la predilezione a farsi giustizia da soli, la miscela può risultare esplosiva. Se infine dietro alla tastiera c'è uno scrittore di razza del calibro di Joe R. Lansdale, la speranza di divertirsi un po' è più che ben riposta.

Dunque in questi giorni post-ferragostani, ma non solo, può valere la pena dedicarsi a un buon romanzo di genere, in questo caso il noir, ovvero parte di quella cosiddetta narrativa di intrattenimento (del resto la narrativa in generale non dovrebbe sempre "intrattenere"?) così bistrattata dalla "cultura" italiana, ma la cui importanza letteraria è ormai sdoganata e riconosciuta a livello internazionale, tranne che in Italia, succubi della sindrome da cultura "alta" di manzoniana e dantesca memoria. Ma questa è un'altra triste e annosa faccenda. Dicevo, dei romanzi di Lansdale.

La serie di Hap & Leonard conta ormai sette libri, usciti nell'arco di una quindicina d'anni, ovvero (nell'ordine):
  1. Una stagione selvaggia
  2. Mucho Mojo
  3. Il mambo degli orsi
  4. Bad Chili
  5. Rumble Tumble
  6. Capitani oltraggiosi
  7. Sotto un cielo cremisi
e sono ben rappresentativi dello stile unico e della concezione del mondo dello scrittore texano, una visione che coniuga il cinismo con la poesia, la durezza con l'amore, la violenza con l'ironia, un po' come la sua letteratura prende corpo da un misto di generi che spaziano dal noir all'horror, dalla fantascienza al western, dal giallo al romanzo di formazione, non di rado molti di questi insieme. Insomma, per comprendere l'unicità di Joe R. Lansdale bisogna leggerselo, anche nei suoi altri romanzi come In fondo alla palude o La sottile linea scura.

Tornando dunque al ciclo di Hap & Leonard, i romanzi hanno una sorta di cronologia interna per alcune vicende dei protagonisti che segue l'ordine di pubblicazione, ma le trame sono autoconclusive, per cui non si perde troppo se non li si legge in sequenza. Personalmente ne ho letti quattro (2, 3, 4, 5) dei quali la mia preferenza va senza dubbio a Mucho Mojo e a Il mambo degli orsi (che sarebbe comunque meglio leggere in quest'ordine, il perché non ve lo dico). Ma se vi capita in mano un Lansdale qualunque, e se il genere incontra il vostro gusto, buttateci un occhio, difficilmente vi deluderà. Insomma, la penna è appuntita. Ci si diverte parecchio e spesso ci si ritrova anche a ridere. Chiedere di più a un libro a ferragosto è un delitto.

I due incipit:
"Era luglio e faceva caldo e io stavo interrando piantine e l’idea dell’omicidio manco mi passava per l’anticamera del cervello.
Tutti i lavori da roseto sono brutti, tipo fare innesti, o scavare, ma interrare è un lavoro buono per i peccatori all’inferno.
È nel pieno dell’estate che bisogna farlo. Funziona così: ti danno questa manciata di piantine e tu le prendi e sospiri e ti giri a guardare tutto il roseto, che va da dove ti trovi tu a un qualche posto a est della Cina, e ti rimbocchi le maniche, e ti chini, e infili le piantine nei filari, un po’ distanziate. Non ti tiri più su se proprio non ci sei costretto, perché altrimenti non finirai mai. Tieni la schiena piegata e continui a interrare, seguendo il filare polveroso, sperando che prima o poi riuscirai a dare un taglio alla tortura, anche se pare che non succeda mai, e ovviamente il sole del Texas dell’Est, che alle dieci e mezzo di mattina è come una piaga infetta che lascia colare pus fuso, non migliora le cose."
(Mucho Mojo)

"Quando arrivai da Leonard, la sera della vigilia di Natale, sullo stereo di casa sua c’erano i Kentucky Headhunters a tutto volume che cantavano the Ballad of Davy Crockett, e Leonard, come per una sorta di celebrazione natalizia, stava appiccando il fuoco ancora una volta alla casa accanto.
Mi auguravo che avesse smesso di farlo. La prima volta l’avevo aiutato, la seconda volta l’aveva fatto per conto suo, e ora eccomi presente alla terza, in macchina. Il tutto avrebbe avuto un’aria dannatamente sospetta, quando fossero arrivati gli sbirri. Qualcuno aveva già telefonato. Molto probabilmente erano stati gli stronzi da dentro la casa. Lo sapevo perché potevo sentire le sirene in lontananza.
Il ragazzo di Leonard, Raul, era sulla veranda, con le mani conficcate nelle tasche dell’impermeabile, a osservare l’incendio e il pestaggio che avvenivano poco distante; era agitatissimo, come un predicatore metodista in visita che si e appena reso conto che il capofamiglia si è pappato l’ultima coscia di pollo fritto."
(Il mambo degli orsi)
Mucho Mojo e Il mambo degli orsi, di Joe R. Lansdale (Einaudi Stile Libero)

sabato 7 agosto 2010

Alza il naso al cielo la mattina presto, non si sa mai

Chissà che cosa sarebbe successo se, alle 7:15 di trentasei anni fa, a New York, nessuno avesse guardato in su. Voglio dire, non è del tutto normale che tu ti fai strada per i marciapiedi della Grande Mela, come un bruco assonnato, gli occhi ancora appiccicati dalla sveglia estiva, la bocca che sa di caffè americano (troppo dolce), o di succo d'arancia (troppo annacquato), un gomito che pizzica per una puntura di zanzara, e ti viene da alzare gli occhi al cielo. Normalmente guarderesti di fronte a te, in una specie di coma vigile, al semaforo, aspettando il segnale [WALK]. Insomma, te ne fregherebbe qualcosa di ciò che accade lassù?

Ma questo il 7 agosto 1974 non è accaduto. Perché senza dubbio ci sarà stato qualcuno, il primo, a un certo punto, che per una qualsiasi ragione guardò in su, strabuzzò gli occhi cercando di mettere a fuoco, e si chiese: "Ma che diavolo...". A quel punto aveva già smesso di camminare, mentre tutti gli altri lo circondavano, lo superavano, magari anche lo spingevano, nella ferrea logica formicolante degli affari incombenti. Nel frattempo lui ormai doveva aver capito che il puntino nero, lassù, a 400 metri e rotti di altezza, si muoveva. Troppo piano per essere un uccello. Troppo fermo per essere un UFO. Troppo presto per essere un aereo dirottato. Troppo scuro per essere Superman. Era forse il residuo di un sogno dimenticato o magari la premonizione di uno che avrebbe fatto? Probabilmente batté le palpebre qualche volta, per vedere se si trattava di uno scherzo dell'immaginazione, di un innocuo bruscolino, o di un accidente retinico. Ma no. Quel maledetto puntino era ancora lassù. E in quel momento ormai lui non sarà stato più solo. Tutti quanti a guardare in su, come in un cinema sbagliato.

Perché a un certo momento, non c'è dubbio che sarà partito un urlo. C'è sempre qualcuno che urla in questi casi. Forte. A cercare (invano) di sovrastare il traffico. Non si sa bene chi fu il responsabile. Però non c'è dubbio che qualcuno tese un braccio, puntò l'indice parallelamente al naso e col cuore in gola gridò: «Lassù, guardate. Lassù!» Ai piedi del World Trade Center, una piccola folla ferma a fare una cosa che di mattina presto non s'è mai vista prima. 'Fanculo se arriverò tardi al lavoro, questa non me la voglio perdere per niente al mondo! A questo punto nel bel mezzo di una delle metropoli più grandi del pianeta, tra le automobili dell'NYPD che accorrono sul posto per accertarsi di quello che sta succedendo, e probabilmente anche qualche inutile ambulanza, è impossibile pensare che non sia spuntato qualche binocolo, sopra le bocche aperte, mani a coprire esclamazioni rimaste disdicevolmente incastrate insieme al respiro.

C'è un uomo, lassù. In bilico. Sta facendo una cosa pazzesca. Nel vuoto. In cima tra le due Torri. Su un filo sottile sottile, che quasi non si vede. È vestito di nero. Ma non è mica Batman, che senza gadget quello non combina un tubo! Quell'uomo invece non ha niente. Nessuna rete. Nessun aggancio di sicurezza. Nessun Piano B. Non ha nemmeno il permesso di stare lì, se è per questo, per lo meno a giudicare dalle facce lampeggianti dei poliziotti che si assembrano quaggiù, sempre più concitate. Solo un lungo bilanciere nelle mani, che oscilla lento a stabilizzare il baricentro. E poi gli uccelli. Il vento. E il cielo. E i sogni di chi compie un gesto pericolosissimo e inutile, ma proprio per questo incredibile e perfettamente bello.

Lui si chiama Philippe Petit ed è un funambolo, anzi "il" funambolo. E se non avete mai sentito parlare di lui, ma la sua storia vi incuriosisce, vi suggerisco di recuperare Man On Wire, il film-documentario di James Marsh, Premio Oscar 2009 (scandalosamente ignorato dalla distribuzione italiana, ma disponibile in DVD) sulla sua impresa delle Torri Gemelle, e di leggervi il suo Trattato di funambolismo, un breve libro, sospeso come lo stesso Petit, tra l'ingegneria della tensione (dei fili), la tecnica e la disciplina (dell'equilibrio) e la poesia e la perfetta inutilità (di un autentico gesto artistico). Se nessuno avesse alzato gli occhi, quella mattina di trentasei anni fa, Philippe Petit non avrebbe perso niente, tranne - forse - la conquista del paradiso.

La citazione:
Uomo dell'aria, tu colora col sangue le ore del tuo sontuoso passaggio tra noi. I limiti esistono soltanto nell'anima di chi è a corto di sogni.
Trattato di funambolismo, di Philippe Petit (Ponte alle Grazie)

[Credit: La prima foto in alto è (c) mezzoblue, le altre sono tratte dal film Man On Wire]

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