Punti di vista da un altro pianeta

giovedì 28 giugno 2012

Geografizzate le vostre menti!

Dovrebbe esserci una Legge dello Stato, anzi di tutti gli Stati, tipo una Risoluzione dell'ONU, in base alla quale dovrebbe essere obbligatorio averne una in ciascuna casa, meglio una in ciascuna stanza, in ciascun ufficio, in ogni bar e ristorante, nell'anticamera di ogni dottore, in ogni posto pubblico e privato, persino (soprattutto?) nei supermercati e nei centri commerciali, perfino in ogni luogo di culto, in modo che dovunque tu ti volti, nel tuo campo visivo dovrebbe comparirne una. O anche due o tre. Grandi, piccole, tonde, rettangolari, non importa. Purché ben visibili e riconoscibili. E globali. Sto parlando di carte geografiche. Magari mappamondi, ove possibile. Anche di quelli antichi. Mica necessariamente originali. Allo scopo andrebbero bene anche riproduzioni Made-in-China. Certo, avete capito bene: obbligatorie come le cinture di sicurezza.

Allo scopo, inoltre, sarebbe molto meglio che mostrassero una rappresentazione fisica del mondo, non politica: dunque niente confini, né colori diversi per i territori, niente Risiko per intendersi, nienti fili spinati o dogane, niente linee immaginarie progettate con le armi e disegnate con il sangue. Solo territori in quanto tali, montagne, fiumi, laghi, pianure, altimetrie e profondimetrie, belle sfumature di marroni, verdi e azzurri naturali. Dal canto loro, meridiani e paralleli non sarebbero più di tanto rilevanti, mentre le città, quelle sì, meglio ancora se evidenziate coi nomi propri della cultura cui appartengono. Quindi, per dire, Beijing e non Pechino, eccetera eccetera.

Grazie a questa Risoluzione, col tempo gli individui potrebbero sviluppare senza sforzo alcuno una maggiore percezione e sensibilità individuali nei confronti del Pianeta inteso come corpo unico, e magari a sentirsi sul serio, nel proprio istinto, passeggeri di un'unica zattera che galleggia sullo stesso grande fiume del cielo. Addirittura nel corso degli anni (non sarebbe certo un processo breve) questa geografizzazione delle menti potrebbe catalizzare implicitamente la maturazione di un senso psicologico di condivisione, utile a far tendere le persone a portare più rispetto nei confronti dei propri simili, vicini e lontani.

Usare il mondo per migliorare il mondo, insomma. Non sarebbe bello?
Basterebbe solo che i politici che contano acquisissero quote di società editoriali geografiche e il più sarebbe fatto.

mercoledì 27 giugno 2012

Come sconfiggere la Crisi e vivere ricchi e felici (ovvero spremutizzare un succo)

Qualche giorno fa ero nella sala colazione di un grande albergo francese e ho avuto l'idea più geniale che potesse capitarmi. In genere non è mia abitudine essere presuntuoso, ma stavolta... Perché come sempre succede in questi casi a un certo punto mi sono trovato di fronte ai distributori dei succhi di frutta ("jus de pomme" [mela], "jus de pamplemousse" [pompelmo], "jus d'orange frais" [arancia fresca]) e, sebbene mi piacciano davvero molto tutti e tre, alla fine ho scelto il terzo, per ben due mattine consecutive, senza stare neanche troppo a pensarci su. E sapete perché? Semplice. Perché preferendo le spremute ai succhi, in quanto considerandole ovviamente più fresce e sane, e potendo vedere il liquido in trasparenza dentro il distributore, il cui aspetto è dunque determinante nella scelta, quello di arancia, con la parola - manipolatrice - "fresca", si vedeva che aveva i pezzettini in sospensione, avete presente?, proprio come nelle spremute, quindi ho pensato che fosse davvero più fresco e genuino, persino fatto al momento (senza tenere in debita considerazione che in francese spremuta d'arancia è orange pressée).

Così, mentre sgranocchiavo il mio pain-au-chocolat impastato a Quito, surgelato a Taiwan e scongelato a Lione, ho pensato che, come ci sono centinaia di società che diventano ricche vendendo agli alberghi i vari gadget che per lo più nessuno usa, ma con cui tutti si riempiono i trolley con somma goduria (saponette, doccia-shampoo in gel, ciabatte monouso, penne, cuffie da doccia, spugnette per la pulizia delle scarpe, ecc.), si potrebbe vendere agli hotel un prodotto che surroghi quei pezzettini fibrosi di agrume che si trovano in sospensione nelle spremute, da utilizzare come additivo ai succhi industriali di limone, arancio e pompelmo, per renderli davvero freschi! Facile no? Dunque dal punto di vista operativo, sono giunto alla conclusione che li si potrebbe fare di plastica atossica biodegradabile (che peraltro nel contempo potrebbero essere d'aiuto nella pulizia dell'intestino), oppure di soia opportunamente trattata e sminuzzata (che peraltro nel contempo potrebbero essere d'aiuto a regolarizzare le funzioni dell'intestino), magari con una bella aggiunta di vitamine assortite, in comodi barattoloni da cinque chilogrammi. L'importante è che siano totalmente anallergici, che non siano di derivazione animale, che siano kosher e siano gluten-free, milk-free, pork-free, alcohol-free, egg-free e fat-free (non possiamo mica permetterci di perdere il mercato di vegetariani, ebrei, musulmani, ipertesi, diabetici, celiaci, daltonici ecc. ecc.).

Così alla fine li ho (già) brevettati tutti e due, ragione per cui posso parlarvene. Il primo, quello in plastica atossica biodegradabile, è dunque decisamente il più a basso costo, per gli hotel che vogliono mantenere un modesto profilo dal punto di vista dei costi, senza però rinunciare alla qualità verso i loro clienti. L'altro è più orientato verso gli hotel di lusso (dalle **** in su, per intendersi) che vogliono vantare un approccio Eco & Bio e per questo non badano troppo a certe spese. Nel complesso ho già ordinativi per tre anni e in questi giorni sto avviando la produzione massiccia in un impianto in Bolivia, uno in Senegal e uno in Indonesia. Qualche minuto fa ho aperto le trattative con la Cina per un prodotto analogo a base di riso da far produrre alla Foxconn di Longhua. Le prime consegne avverranno tra meno di tre settimane. Il prodotto è già stato approvato ufficialmente anche da Pierre Dukan (e ha preteso solo un misero 2% di royalties).

martedì 12 giugno 2012

[Andare a vedere Bruce Springsteen ascoltando i Pink Floyd...]

Non capita a tutti di ritrovarsi di fronte quarantamila persone, ma pure anche il doppio. Quando riempi uno stadio (quasi) ogni sera non è che importi molto la capienza. Uno stadio è uno stadio. Importa decisamente più il fatto che queste quarantamila, ma pure anche il doppio, sono lì perché sono Pazze-Di-Te. E quando dico così, non lo intendo necessariamente in senso romantico. Cioè, magari anche in quello, forse almeno una certa percentuale, ma non è (più) quello il punto, soprattutto se hai superato i sessanta. Il punto è un altro e ha a che fare con quello che mostrava la telecamera che l'altra sera riprendeva il Boss alle spalle, cioè da dentro il palco verso il mare di carne del pubblico, così tu vedevi sullo schermo la sua silhouette iconica (un po' presley-style) e la faccia della gente ebbra sotto la minaccia - poi mantenuta - del cielo nero. Ha a che fare con quelle facce che sono un'unica faccia, con quelle mani alzate che sono sempre e solo le stesse due mani, con tutte quelle bocche che urlano, ma che sono un'unica bocca. Mi sono sempre chiesto l'effetto che tutto questo deve fare a te, essere umano, esploratore abituale di cavità nasali e scovolatore occasionale di cerumi auricolari (ve lo immaginate Bruce Springsteen alle prese con i coni per le orecchie?), a stare lì sul palco e lì sotto onde di carne e sangue che si infrangono ogni sera sulla spiaggia del tuo orgoglio.

Non che abbia una risposta, perché non ce n'è una sola. Ognuno, che si trova lì sopra, a surfare sulle creste dell'esaltazione altrui, reagirà a modo suo. Chi con l'autodistruzione della presunzione, chi con l'irresponsabilità dell'onnipotenza, chi con una calcolata consapevolezza del personaggio, chi con l'abdicazione totale di se stesso. Forse, anzi di sicuro, ce ne sono anche altre, ma è quest'ultima modalità che un personaggio come Bruce Springsteen, per lo meno per quello che vedi in concerto, dà l'impressione di avere voluto adottare. Perché anche se il cielo viene veramente giù a pezzi liquidi belli grossi, e anche se l'anagrafe non è più compagna così amichevole come una volta, il Boss non sta al riparo, il Boss dà tutto, il Boss è la conferma biologica dell'equivalenza massa-energia. Al punto che se ti presentassi a sorpresa nei camerini alla fine del concerto con una provetta, sei certo che non lo riuscirebbe mai a passare, lui, un esame antidoping. Di certo non uno che dal vivo, con quella fisicità da rocker archetipico, quella band stratosferica, quel carisma marziano, potrebbe cantare la lista della spesa (e in effetti a volte - diciamolo pure - lo fa), e farla sembrare una strafottuta, meravigliosa, emozionante Divina Commedia.

Così, domenica sera, sotto quel cielo esagerato che ha voluto assistere tutto insieme senza pagare il biglietto, guardavo Bruce Springsteen e a un certo punto mi è venuto da pensare a Joseph Ratzinger, cioè forse all'unico personaggio mondiale maschile (una volta andato Michael Jackson) che nei suoi tour mondiali riesce a raccogliere maggiori spettatori del Boss (lasciatemi perdere gli U2, lasciatemi perdere i Pearl Jam, lasciatemi perdere i Radiohead, lasciatemi perdere Jovanotti, Toto Cutugno e i Jalisse). Ebbene, mi son detto, lì più o meno a metà strada tra Born to Run e Hungry Heart: chissà come si deve sentire il Papa di fronte a tutti quei milioni di persone, che pendono dalle sue labbra, che lo guardano con espressione estatica in attesa del suo konforto fatto (dalla prospettiva di un occhio marziano, naturalmente) ti panalità e ti luoghi komuni. Anche in questo caso non è che io mi sia dato una risposta. Perché non ce n'è una sola. E dentro di sé ogni Papa, nel suo intimo, reagirà secondo la sua indole e il suo temperamento. Però almeno una cosa la si può dire. Una cosa piccola piccola, ma a suo modo significativa. A differenza del Boss, se il Papa è arrivato lì ad avere davanti tutte quelle moltitudini osannanti lo deve ai meriti di qualcun altro.

[Ma tornare da vedere Bruce Springsteen ascoltando Bruce Springsteen...]

mercoledì 6 giugno 2012

Senza di lui i marziani sarebbero stati senza dubbio diversi

"Erano ingenui soltanto se conveniva esserlo. Smisero di cercare di distruggere tutto, di umiliare tutto. Fusero religione, arte e scienza, perché alla base, la scienza non è che la spiegazione di un miracolo che non riusciamo mai a spiegare e l'arte è un'interpretazione di quel miracolo." (Cronache marziane)

"Capite ora perché i libri sono odiati e temuti? Perché rivelano i pori sulla faccia della vita. La gente comoda vuole soltanto facce di luna piena, di cera, facce senza pori, senza peli, inespressive." (Fahrenheit 451)

martedì 5 giugno 2012

Cosmopolis, ovvero se il mondo è a forma di limousine

Cosmopolis è denso. Cosmopolis è complesso. Cosmopolis è profondo. Ma Cosmopolis non è un film. L'ultima opera di David Cronenberg tratta dall'omonimo romanzo di Don DeLillo è infatti qualcosa di singolare, di sui generis, di non facilmente catalogabile, come probabilmente è il libro di DeLillo. Conoscendo DeLillo, infatti, pur non avendo letto il libro da cui questo film è tratto, posso credere senza sforzo alcuno che questa sia una trasposizione eccellente, che forse solo Cronenberg, tra i registi contemporanei l'unico a essere sempre stato attratto dall'analisi profonda, visionaria, non di rado grottesca delle mutazioni sociali globali contemporanee (basti ricordare titoli come Videodrome, eXistenZ, Crash, Il pasto nudo) e di come queste riverberano dentro l'essere umano facendolo mutare - normalmente in peggio-, poteva essere in grado di realizzare. A ogni fotogramma del film, si respirano infatti i modi, i temi e le atmosfere di DeLillo, sempre in bilico tra surrealismo e realtà, tra paradosso e satira, tra accusa e disperazione, sofisticato e mai banale, per un occidente in bilico sull'orlo di un abisso, intento a guardare giù, e vagheggiando con lo sguardo il nero vellutato della catastrofe incombente.

L'unico vero neo di Cosmopolis è però quello di non essere un film, come probabilmente l'unico neo del romanzo di DeLillo (ma qui azzardo e dovrebbe intervenire qualcuno che l'ha letto) è quello di non essere un romanzo. L'aspetto narrativo di Cosmopolis, rappresentato dalla surreale giornata in limousine di Eric Packer, giovanissimo e straricchissimo (oltre ogni immaginazione) superspeculatore della finanza, che desidera attraversare la città in una giornata molto difficile solo per andare ad "aggiustarsi il taglio", è infatti solo un pretesto per costruire una critica feroce sulle insensatezze, i paradossi e le vacuità di una società occidentale che ha perso ogni misura rispetto alla realtà, concentrando i suoi sforzi nell'accumulare ricchezza come unico obiettivo dell'esistenza, piegando a questo scopo ogni risvolto morale e perdendo di conseguenza ogni valore sia dell'avere che dell'essere. Bastano pochi minuti di immagini e di dialoghi per rendersi conto di ritrovarsi quindi di fronte a un'opera di filosofia e sociologia, magari un pamphlet, quindi - dal punto di vista audiovisivo - più un'inchiesta, un documentario o un reportage, che un vero e proprio film, inteso questo nella sua accezione prima di ogni altra di una storia che viene raccontata e che, anche solo per questo, ha una sua dignità di per sé.

La giornata di Packer che ci racconta Cronenberg lungo l'arco della pellicola, si snoda infatti come una serie di "quadri" (invero del tutto svincolati l'uno dall'altro, cosa che contribuisce in massima parte al surrealismo della messinscena) di personaggi che di volta in volta salgono sulla iperlimousine e interagiscono dialetticamente con il protagonista (il quale a sua volta di tanto in tanto scende e si incontra con la bella moglie poetessa alla quale peraltro chiede sempre e solo di fare sesso), mentre una minaccia dai contorni non identificati incombe sulla città-mondo e sul protagonista-capitalismo, facendosi sempre più spessa, pesante e presente, fino al drammatico confronto finale (applausi a Paul Giamatti). Dunque sono i dialoghi - e non le azioni - a fare da perno a questa vicenda e che emergono da questa sorta di viaggio iniziatico inverso, a ritroso nell'esistenza di Packer (l'incontro col barbiere è per lui una specie di ritorno all'infanzia), che fungono da specchio e, nel confronto con i disordini che stanno accadendo fuori e di cui la limousine porta sempre più i segni, conducono il protagonista a scavare nelle tematiche di una vita parossistica che cerca di sfuggire al nichilismo glaciale trasfigurato nella riuscita maschera di Pattinson, attraverso il possesso esclusivo di cose grandiose ancorché inutili (la Cappella Rothko), nell'illudersi di poter battere lo scorrere del tempo accarezzando così, di fatto, un'illusione di immortalità e quindi di divinità (il check-up medico quotidiano, che ha un acme che non rivelo, ma che è senza dubbio la scena migliore del film), di fare coincidere il piacere supremo con il sesso nell'incapacità di costruire un qualsiasi altro tipo di relazione (il rapporto con la moglie).

Così, se da un lato Cosmopolis riesce pienamente nel suo intento di feroce e originale (a tratti geniale) satira del capitalismo ultraliberista contemporaneo, complici anche le ottime interpretazioni di Pattinson, Binoche, Morton, Giamatti ecc., e da questo punto di vista non pare un'eresia considerarlo un piccolo capolavoro, dall'altro il suo limite, sempre che di limite si tratti (del resto c'è chi i nei se li disegna, no?), è quello secondo il quale l'opera di Cronenberg manca di un qualsiasi impianto narrativo degno di questo nome, potendo essere letta esclusivamente in chiave simbolica e questo la rende potenzialmente portatrice di sbadigli per coloro che vorrebbero prima di tutto (e legittimamente) assistere a un'opera cinematografica che non tradisca il suo obiettivo primario di raccontare una storia.

License

Creative Commons License
I testi di questo sito sono pubblicati sotto Licenza Creative Commons.

Statistiche

Blogsphere

Copyright © Il grande marziano Published By Gooyaabi Templates | Powered By Blogger

Design by Anders Noren | Blogger Theme by NewBloggerThemes.com