Punti di vista da un altro pianeta

lunedì 28 novembre 2011

Se con l'e-book mi diventi cieco


Nel senso che ti può capitare di entrare in un libreria che da fuori sembra tale quale le altre. Libri in quantità. Per lo più i soliti titoli messi in evidenza sui banconi vicino all'ingresso, quelli più gettonati. I soliti autori. Le solite case editrici potenti e padrone del mercato. Ma non è tanto questo il punto. Perché se ti dai la pena di andare a cercare negli scaffali più reconditi, quelli vicini alla porta del bagno, quelli nascosti dietro le colonne, trovi anche i libri di nicchia, quelli più rari, le case editrici di frontiera, autori sconosciuti, ma non per questo meno interessanti, anzi spesso di più, sperimentalisti e spavaldi. Ma non è neppure questo il punto.

Il punto lo capisci quando provi a prendere in mano un libro. La copertina è come tutte le altre, ma a te piace leggere gli incipit per farti dare una suggestione, un'impressione di stile, come un'annusata a occhi chiusi su un piatto che non hai mai mangiato prima. È un modo come un altro per decidere se acquistare un libro, no? Quindi lo apri e lì. Rimani. Di sasso. Le pagine del libro sono bianche. Ma tutte, che diamine! Immacolate come neve. Neanche un'ombra di nero. È evidente che quelle pagine non hanno mai visto l'inchiostro neanche nei contenitori. Curioso, davvero. Così ti dici che probabilmente quella copia ha avuto qualche problema in tipografia. Così provi quella sotto. Identica. E così pure tutte quelle della pila. Quasi surreale, come in uno di quei racconti di Borges.

Stai già per chiamare uno dei commessi per fare rilevare loro l'imbarazzante problema, quando - chissà perché - ti viene lo scrupolo di prendere in mano un altro libro. Altro autore. Altro editore. Ma, accidenti!, stesso biancore. Poi senti uno dietro di te che chiede permesso. Tu ti sposti e vedi lui, un tizo allampanato con un paio di occhiali dalla montatura blu, che allunga una mano e prende uno dei libri della pila che hai appena esaminato. Lo sfoglia. Annuisce tra sé e se lo porta via soddisfatto. «Ma...» abbozzi tu, che lui è già alla cassa. Così fai presto a renderti conto che tutti i libri sono così. Sono bianchi. Eppure i clienti li guardano, li prendono, li sfogliano, li comprano. Che razza di libreria è questa? Sono tutti pazzi?! O forse è in te che c'è qualcosa che non va? È chiaro che, delle due, la statistica fa propendere per quest'ultima ipotesi.

Eppure ci vedi benissimo. Non hai mai avuto problemi. Ti guardi le mani, i palmi, i dorsi. Ti guardi intorno. Forme, colori, tutto è perfetto come sempre. Non ti bruciano nemmeno gli occhi. Poi improvvisamente noti due stranezze. La prima è che tutti i clienti portano un paio di occhiali. La seconda è che gli occhiali sono tutti identici. Adesso che ci fai caso, c'è anche uno scaffale dove quegli occhiali sono persino in vendita. E così scopri con una certa sorpresa che per leggere i libri di questa libreria sei obbligato a comprare un paio di quegli occhiali, i suoi occhiali, che solo lei vende. Perché con gli altri occhiali, questi libri non li puoi leggere. Sì, ti spiegano poi, che in realtà esistono lenti accessorie che riescono a far leggere questi libri anche con altri occhiali, ma l'ostacolo resta e loro, che ce lo hanno messo, lo sanno bene.

Quella che osservi è una sorta di mutazione degli attributi del libro, dunque anche della sua essenza. Una volta il libro, pur anche nella sua prosaica sostanza commerciale, era comunque un oggetto unico, identico, globale, standardizzato, democratico. Qualunque libreria scegliessi per comprarlo, lo trovavi sempre uguale e identico a se stesso. Con l'e-book, invece, questo non accade più. Perché contrariamente a quello che è accaduto con la musica , in cui l'mp3 è stato fin dagli albori un formato condiviso da tutti, lo stesso non si può dire per il libro, dove non esiste un unico standard, bensì convivono ancora più formati di cui, almeno uno, proprietario al 100%. Così se compri un e-book da Amazon e hai  - per dire - il lettore della Sony, non potrai leggere il libro (almeno senza quei filtri accessori di cui sopra). Viceversa se compri un e-book da IBS, se hai il lettore di Amazon sei fregato.

Ora, non si può dire se ciò contribuirà a penalizzare la diffusione della cultura. Non si può esserne certi. E questo, non va dimenticato, è comunque solo uno degli aspetti del fenomeno e-book, che dunque non può essere l'unico discriminante nel giudizio. D'altro canto è anche vero che forse sono solo i modi che stanno cambiando e i cambiamenti bisogna digerirli e assimiliarli, sapendosi adattare a essi. Però è un dato di fatto che, in base a come l'e-book è evoluto, per lo meno finora, l'oggetto-libro ha acquisito suo malgrado, che ci piaccia o no, un ulteriore attributo di produttività e di mercato. Ma questo non è nemmeno così tragico. Quel che è peggio è che per fare spazio a questo ne ha dovuto cedere uno di democrazia e di libertà.

venerdì 25 novembre 2011

La decrescita comincia in e-book

Eccolo qua! Come promesso, il Libretto verde è un e-book. Per ora è scaricabile solo in formato pdf. Ma presto (ovvero quando avrò capito come impaginare il testo in maniera corretta) vorrei mettere a disposizione anche il formato ePub, mobi e magari anche Kindle, per chi è dotato di e-reader.

Il libretto è pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0 Italia, quindi è distribuibile, utilizzabile e modificabile a vostro piacimento, a patto di non utilizzarlo per scopi di lucro, di citare l'autore originale e di ridistribuirlo sempre con le stesse modalità.

Intanto, se avete voglia, dategli un'occhiata. Mi farà piacere ricevere le vostre impressioni.

Libretto verde - Download .pdf

lunedì 21 novembre 2011

Delle nubi all'orizzonte (un po' introduzione e un po' intenzione)

Per cercare di non far scivolare tutto il lavoro fatto di recente nella deriva del tempo della rete, che sorvola le cose e dimentica in fretta, e confortato anche dall'interesse suscitato sia qui, che su Facebook, ho pensato di raccogliere tutti i post sulla Decrescita pubblicati in queste ultime tre settimane in un piccolo e-book scaricabile gratuitamente dal blog in vari formati.

Datemi dunque qualche giorno per organizzarmi e per prepararlo.

Nel frattempo vi anticipo qui sotto l'introduzione e, a lato, la bozza della copertina. A tale riguardo non sono del tutto sicuro del titolo. Per coerenza rispetto a quanto esposto qualche giorno fa, non volevo che ci fosse dentro la parola "decrescita", ma nemmeno "sviluppo sostenibile". Se dunque vorrete darmi i vostri pareri, opinioni o consigli in merito, sarete i benvenuti.

Ed ecco l'intro:

"Qualcosa sta accadendo. Se ne vedono i profili aguzzi all'orizzonte, come una sorta di minacciosa silhouette d'inchiostro in continuo movimento. Non si capisce ancora di preciso di che cosa si tratti e, soprattutto, quale portata possa avere, ma è da ottusi negare, fare finta di niente, o affidarsi all'ottimismo, pensando che il vento cambierà e l'allontanerà dalla costa, solo per adottare un alibi confortevole che eviti di pensare al peggio. Del resto non serve nemmeno l'occhio di un esperto per intuire che quelle avvisaglie non parlano di giornate da gita fuori porta e notti stellate in riva al mare.

Qualcosa sta accadendo. Perché questi non sono Tempi Normali, sempre che Tempi Normali nella storia siano mai esistiti. Eppure adesso si percepisce nell'aria qualcosa di veramente nuovo, come il profumo di una consapevolezza inedita, che forse molti non hanno ancora razionalizzato o assimilato, ma che iniziano a sentire come istanza che si fa strada, magari non del tutto definita nei suoi contorni, ma sempre più pressante e sempre più ineludibile. Lo si vede dai movimenti che fioriscono spontanei in tutto l'occidente, lo si vede dalla partecipazione alle manifestazioni e dalla loro frequenza, lo si capisce dai discorsi nei social media. E ogni giorno che passa lo si può (o meglio lo si deve) ignorare sempre meno.

Qualcosa sta accadendo. In Italia e nel mondo. E non c'è dubbio che abbia ha a che fare con un'esigenza condivisa. È probabile che ciascun individuo senta l'urgenza a modo suo, che la interpreti secondo la sua personale prospettiva di vedere la vita, in base alla sua cultura, alle sue tradizioni, alla sua condizione economica e sociale, ma il dato di fatto, se te ne vai in giro a osservare e ascoltare, è che la gente parla sempre più di cambiamento. Cambiamento in generale, perché semplicemente il sistema non ce la fa più. La gente sente che qualcosa in qualche modo si sta spezzando. Un semplice equilibrio che comincia a vacillare. E se la Terra se ne sta accorgendo dal punto di vista ecologico, chi è dotato di maggiore sensibilità, comincia a rendersene conto anche in termini psicologici e sociali, individuali e collettivi. E in tutto questo il punto difficile da smentire è: «Non si potrà andare avanti così ancora a lungo».

Qualcosa sta accadendo. Perché l'impressione è che un vento di cambiamento così sovranazionale, trasversale e generalizzato non si sia mai sentito, almeno non in tempi recenti. Forse davvero mai. Non è detto che queste energie remino tutte nella stessa direzione, anzi probabilmente non è così. Spesso queste forze spingono in direzioni opposte, ognuna inseguendo una propria traccia di filosofia o di convenienza (o entrambe), con il risultato di non riuscire a spostare di molto il baricentro della società. Eppure i segnali che indicano una strada privilegiata a mio avviso ci sono, come i funghi colorati che punteggiano i margini di una pista di decollo immersa in una nebbia uniforme.

Qualcosa sta accadendo. Ma la difficoltà è catalizzare e dare consapevolezza e orientamento comuni a tutte queste energie, affinché qualcosa di buono accada sul serio. E questo si può fare solo con la cultura e la conoscenza, l'informazione e lo stimolo alla riflessione e alla partecipazione. Questo è il motivo per cui è nato questo piccolo Libretto verde, che raccoglie una serie di note monografiche pubblicate a puntate sul blog Il grande marziano tra ottobre e novembre 2011, in merito alla Filosofia della Decrescita, forse l'unica soluzione vera, seria, ragionevole, pratica, attuabile e lungimirante rispetto ai problemi che stiamo vedendo addensarsi all'orizzonte e che sono già in viaggio verso di noi. Il proposito è dunque quello di dare uno strumento informativo agile, semplice, breve, facilmente distribuibile e, soprattutto, gratuito che contribuisca a proporre i concetti dell'unico cambiamento possibile, cercando di alimentarne la riflessione. Perché è solo dalla cultura che questo cambiamento potrà cominciare e diffondersi, perché si tratta di un cambiamento che non può prescindere dal rinnovamento delle coscienze di chi lo desidera e lo deve (e lo può) cominciare a realizzare.

Qualcosa sta accadendo. E se siete qui, forse è perché state cominciando ad accorgervene anche voi. Ma qui dentro non troverete soluzioni liofilizzate, né presunzione di completezza o di esaustività, bensì le informazioni minime necessarie, qualche idea su cui ragionare e, soprattutto (ed è quello che spero), una manciata di stimoli che vi spingano ad approfondire l'argomento, a pensare che vale la pena rifletterci su, perché forse in questa proposta di cambiamento c'è davvero qualcosa di buono, qualcosa che vale la pena di fare proprio, facendolo diventare qualcosa di più dei buoni propositi e delle belle parole che svaniscono insieme con la chiusura del libro, come nuvole di un profumo inebriante al fiuto, ma che non vi sognereste mai di spruzzarvi dietro alle orecchie.

Qualcosa sta accadendo. Qualcosa accadrà, presto o tardi, su questo potete giurarci. E sarà comunque un cambiamento sociale forte, radicale, epocale, globale. Sta dunque a noi capire se esserne soggetti attivi e provare a farlo controllandolo secondo le modalità nostre, o lasciare invece che le cose vadano per conto loro e il sistema ci travolga secondo i capricci suoi, lasciandoci in balìa di un destino che non abbiamo voluto e che dovremo subire, probabilmente - a quel punto - senza poterci fare granché.

Qualcosa sta accadendo. Siamo ancora in tempo.

Facciamolo accadere noi."

venerdì 18 novembre 2011

La ri(e)voluzione della specie

L'altro aspetto (forse il peggiore di tutti) che penalizza la Filosofia della Decrescita è il suo essere in controtendenza rispetto alle inclinazioni (animali) insite nella natura umana. Difatti come non riconoscere che queste ultime sono quelle maggiormente assecondate dal sistema ultraliberista dell'economia di mercato, dello sviluppo, del profitto, della ricchezza oltre misura, dell'iperbenessere e del Tutto-Intorno-A-Te? Come può dunque, in condizioni più o meno normali, la decrescita competere con un sistema che, seppure mostrando preoccupanti segni di cedimento, riesce ancora (almeno nel breve o brevissimo periodo) a propinare con una qualche vaga credibilità, complice il sistema autoreferenziale dei media, miraggi luccicanti di un futuro fatto di automobili volanti, divani antigravitazionali, merendine neurotoniche, televisioni inebrianti e biancheria intima autocarrozzante?

Ma quel che è peggio, non è tanto il fatto che la decrescita predichi una sobrietà e una lungimiranza a un mondo in cui la sobrietà è stata gettata a marcire negli abissi fetidi delle discariche di rifiuti del Terzo Mondo, e la lungimiranza è stata svenduta alle compagnie che sfruttano e vessano i loro dipendenti (anche minorenni) rendendoli di fatto gli schiavi del nuovo millennio. No. Il peggio è il fatto che la decrescita richiede impegno, attività e partecipazione. La decrescita impone all'individuo di tornare innanzitutto a essere cittadino e dunque individuo responsabile che fa parte di una comunità che potrà avere un futuro non tanto a partire dalle iniziative individualistiche, quanto dalle scelte condivise. La decrescita sollecita il singolo ad alzarsi dalla comoda poltrona di una vita fatta di abbonamenti e punti premio, di partite di calcio e di grandi fratelli, e di fare propria la lungimiranza di pensare che il futuro proprio e dei propri figli stavolta dipende solo e soltanto, più di ogni altra cosa, da quello che farà lui oggi.

La decrescita chiede innanzitutto all'individuo di lasciare da parte le pantofole e mettersi in marcia per farsi parte attiva del cambiamento, perché è da lì che tutto deve cominciare. Quando si parla di decrescita, il cittadino deve smetterla di demandare il suo futuro alla X su una scheda elettorale, pensando di aver così esaurito il suo compito all'interno della comunità: la politica non ha mai aggiustato le cose (a meno - forse - di non aver toccato veramente il fondo) e tantomeno potrà farlo oggi (a meno - forse - di non toccare veramente il fondo). Ed è da questo punto di vista che il cambiamento della decrescita può davvero essere chiamato "rivoluzione", l'unica auspicabile, l'unica pacifica, l'unica possibile, ma solo e soltanto dentro una condivisione il più allargata possibile. Perché il cambiamento invocato dalla "decrescita serena" chiede alle persone di rimboccarsi le maniche e di diventare, a tutti i livelli, ciascuno nel suo piccolo ambito, ciascuno con il suo impegno, ciascuno con il suo esempio, uno che ci mette del suo, uno che agisce per cambiare le cose, dunque - di fatto - un rivoluzionario.

La difficoltà (e parte della mia mancanza di ottimismo a riguardo, o forse dovrei chiamarlo semplicemente realismo?) risiede nel fatto che se una volta bastava una sola, grande personalità rivoluzionaria per coinvolgere la massa nell'inseguimento di un ideale forte di cambiamento, oggi la rivoluzione della decrescita funzionerà solo se ciascuno si farà rivoluzionario nella consapevolezza consolatoria che, mal che vada, la raggiunta maggiore sostenibilità della propria vita gli potrà essere motivo di salvezza se (quando?) il sistema crollerà imponendo comunque con la forza (ovvero tutta d'un colpo) quella medesima decrescita che la comunità non avrà saputo scegliersi in maniera ragionevole e programmata.

La Filosofia della Decrescita chiede dunque all'uomo di fare qualcosa di equivalente a un vero e proprio salto evolutivo di pensiero, un salto che nell'azione sarà capace di premiarlo in termini di selezione naturale e dunque in termini di maggiori capacità di sopravvivenza in quello che sarà l'ambiente sociale di domani e, soprattutto, di maggiore felicità.

Voi la state prendendo la rincorsa?

/fine (almeno per ora)

mercoledì 16 novembre 2011

Della grandezza (e della tenerezza) del Mago

C'è quel luogo un tantino comune in base al quale dietro ogni grande uomo ci dovrebbe essere una grande donna. Colei che sta dietro le quinte, ma la cui presenza è fondamentale. Colei senza la quale niente potrebbe essere o tutto sarebbe diverso (e dunque peggiore). Taluni la chiamano la musa. Eppure in questo caso ho l'impressione che sia proprio così. O almeno che se lei non ci fosse stata, noi tutti non avremmo di lui l'immagine che abbiamo. Forse non avremmo nemmeno tutti quei grandiosi libri che ha scritto, (quasi) tutti nella seconda parte della sua vita, (quasi) tutti - guardacaso - dopo averla conosciuta, (quasi) tutti a lei dedicati. L'ho scoperto non senza una certa meraviglia in un documentario in DVD che mi è capitato di vedere alcuni giorni fa e che racconta con tono a tratti romantico, a tratti cronachistico, un arco di circa due/tre anni della loro vita, tra il 2006 e il 2008, in pratica un piccolo scorcio degli ultimi anni della vita di lui, segnati anche da una malattia che avrebbe potuto portarlo via e che invece la caparbietà di lei lo tenne con noi ancora per un po'.

Lui giornalista, scrittore, comunista, ateo, Premio Nobel, instancabile autografatore, energico viaggiatore, uomo innamorato. Lei giornalista, traduttrice, tenace organizzatrice, caparbia femminista, energica viaggiatrice, donna innamorata. Il documentario li incontra e li ritrae come una coppia affatto straordinaria, passando da lui, che riceve alcuni ragazzi italiani in visita nella sua casa o che prima di scrivere il prossimo capitolo del suo prossimo capolavoro (rigorosamente due pagine al giorno) fa il solitario di Windows; a lei che gestisce la casa, che pensa alla posta, che organizza l'agenda internazionale degli interventi di lui, con tutta la logistica connessa, che sovrintende la costruzione della biblioteca; a entrambi che si confrontano, discutono, si abbracciano, si baciano come un marito e una moglie qualunque, quali in effetti sono, tra la monotonia e la pesantezza di presentazioni di libri, viaggi in aereo, interventi, viaggi in aereo, interviste pubbliche (sempre uguali) in giro per il mondo, e le scene di tranquillità domestica nella loro casa di una Lanzarote dagli straordinari paesaggi lunari.

È bello osservarli nella loro quotidianità. È bello vedere lui. Farlo scendere dall'immaginario piedistallo svedese e restituirlo alla sua umanità, alla fragilità della malattia, al suo essere, in fondo, uno davvero qualunque, a dispetto di essere stato, anzi di essere, forse una delle menti letterarie più fervide e generose e coerenti degli ultimi trent'anni e uno dei Nobel per la Letteratura più universalmente conosciuti e acclamati degli ultimi dieci, forse anche (o soprattutto) grazie a lei.

Lei si chiama Pilar del Rìo. Lui si chiama José Saramago. E se fosse ancora tra noi, oggi compirebbe 89 anni. Auguri.

José e Pilar, di Miguel Gonçalves Mendes (DVD, 125 min.)

lunedì 14 novembre 2011

Decrescita? No, grazie!

Nonostante le argomentazioni e i propositi, che qualsiasi essere umano sano di mente dovrebbe trovare condivisibili, almeno a livello concettuale, la filosofia della decrescita a mio avviso è afflitta da due vizi, uno in qualche modo evitabile, l'altro purtroppo connaturato alla filosofia stessa, che agiscono come attriti profondi alla sua diffusione presso i cittadini del mondo occidentale. Il primo è di ordine puramente rappresentativo e, non tenendo in considerazione il fatto che comunque la società occidentale è una sorta di mediamondo, in cui dunque le idee non possono (più) prescindere dai mezzi di comunicazione con cui vengono diffuse e dalla forma con cui vengono diffuse, il termine "decrescita" è quanto di più deleterio e controproducente ci possa essere.

La gente è superficiale, la gente non approfondisce, la gente è pigra e presuntuosa e dunque si convince sempre di avere capito tutto alla prima impressione. La gente per lo più costruisce le proprie opinioni di un'esistenza intera solo per sentito dire. Dunque quale può essere il destino di una filosofia, che è anche uno stile di vita, imperniata su una parola chiave come "decrescita"? Come convincere la gente anche a interessarsi a una cosa che se ne va in giro a dire come prima cosa che "meno è meglio" (come nell'ultimo libro di Maurizio Pallante, uno dei maggiori promotori italiani del "decrescita felice " e fondatore dell'omonimo Movimento)?

Crescere è un termine che prima di ogni altra cosa l'istinto associa ai processi biologici e normalmente, se le cose vanno per il verso giusto, a meno dunque di circostanze patologiche, la crescita è quello che sempre ci si auspica. Basti pensare ai bambini che se non crescono è un guaio, ma lo stesso succede ai germogli del grano o ai pulcini o ai vitelli. Dunque, per converso, il termine decrescita evoca qualcosa che non funziona, ovvero che non è desiderabile. Perché dunque farlo diventare il termine di riconoscimento rappresentativo del nuovo mondo che vorremmo? Da un punto di vista memetico non potrà mai funzionare.

Ma c'è anche un'ulteriore svista semantica da considerare, nella quale a mio avviso sono inciampati i vari filosofi e promotori di questo ambizioso programma di rinnovamento sociale globale. Ed è il fatto che se senti la necessità di associare alla "decrescita" un aggettivo positivo come "felice" o "serena", confermi implicitamente la negatività della prima e questo messaggio quasi subliminale, nell' immaginario sempre superficiale e un po' rozzo di chi ascolta, non fa altro che acuire per reazione l'attitudine al rifiuto e in questo modo ad allontanare il destinatario anche solo dalla voglia di fare un tentativo per capire qualcosa di più della visione che vi sta dietro, abortendo così fin dal principio la possibilità che vi possa trovare dentro qualcosa di buono e, magari, condivisibile.

Il secondo, quello intrinseco, è di natura mentale, o se vogliamo psicologica, ma ne parliamo - e, almeno per ora, concludiamo - venerdì (che mercoledì ho in programma un'altra cosa).

/continua

sabato 12 novembre 2011

Quando finisce un livore (resign version)

Le dimissioni di Silvio Berlusconi sono appena giunte, ufficiali, e almeno mezza nazione festeggia come in un rarissimo capodanno fuori stagione. Ma che cosa faranno, ora che non c'è più lui? Lui che è stato il loro unico pensiero per tutti questi anni. Lui che è stato il catalizzatore, se non di tutte, almeno di una grandissima parte delle loro energie. Come impiegheranno adesso tutto quel tempo e quelle forze intellettuali ed emotive, che fino a ieri erano riservate a lui?

Il trasloco di Silvio Berlusconi da Palazzo Chigi è cominciato e colonne di auto blu si allontanano alla spicciolata portandosi via i loro vetri scuri, e almeno mezza nazione si sente sospesa, perduta, disoccupata. Come quando concludi un lavoro che ti ha succhiato via l'anima per anni e anni e anni. E poi un giorno ti ritrovi a casa, quel lavoro finito, sai che non dovrai pensarci mai più, e ti guardi allo specchio con la bocca aperta e quella strana sensazione addosso di irrealtà, vibrante dentro una via di mezzo tra una vertigine e un risveglio improvviso da uno strano sogno (incubo?), e non puoi fare a meno di chiederti: «E cosa cazzo faccio adesso?».

A dispetto dei libri che ci scriverà sopra Bruno Vespa, il ricordo di Silvio Berlusconi presto o tardi sbiadirà, e per questo c'è da giurare che i suoi più acerrimi nemici, coloro che l'hanno osteggiato, combattuto, insultato, criticato, avversato con tutti loro stessi, prima o poi si sentiranno privati di qualcosa, se non finiti, distrutti, svuotati. Perché la loro battaglia, una battaglia di quelle proporzioni, combattuta con così tanto ardore e così a lungo, così viscerale, finisce sempre per autoreferenziarsi e diventare prima di ogni altra cosa realizzazione di se stessa.

Il nome di Silvio Berlusconi sparirà dai giornali, un giorno o l'altro, perché anche le più ardite finzioni tricologiche nulla possono contro il vento dell'entropia che rende calvi i teschi. E sarà in quell'esatto momento che, affermano gli studi di settore, nascerà un nuovo mercato formato da tutte quelle migliaia di persone dovranno trovarsi qualcos'altro da fare per occupare i propri pensieri e il proprio tempo libero. A tale proposito in Mediaset starebbero già studiando alcuni kit per la costruzione di televisori in bottiglia («Funzionano davvero!»), e le Bunghine, serie di riproduzioni in scala 1:10, da collezione, di Ruby, Nicole e le altre, precise in ogni dettaglio, in puro silicone anallergico, anche in versione gonfiabile («Mugolano davvero!»). Tutto, naturalmente, in comode uscite settimanali. Dovrà pur integrarla, la pensione da parlamentare, no?

Gli «angeli del fango» hanno ali di terracotta

Tutti i sabati e le domeniche, in tarda mattinata, X si reca all'Istituto Y dove presta, anzi dovrei dire regala, alcune ore del suo tempo. L'Istituto Y è un ricovero per anziani, quindi dentro si trova di tutto. Quelli che trascorrono la giornata a giocare a scopone e la serata davanti alla TV, quelli che non si alzano (più) dal letto e parlano tutto il giorno con il pappagallo, quelli che si ricordano solo di un certo Alzheimer, che è stato loro compagno di banco alle elementari, quelli che non smettono di tremare, ma non è per il freddo, quelli che sbavano, ma non è per il desiderio, quelli che ciondolano, ma non sono bijoux, quelli che urlano perché son sordi e quelli che urlano perché l'ultima volta che qualcuno è venuto a trovarli... che anno era? Sebbene ci sia sempre bisogno di qualcuno con cui fare due chiacchiere, all'Istituto Y c'è bisogno soprattutto di aiutare gli ospiti a mangiare. Ed è quello che X fa ormai da qualche anno.

Se può, si mette in uno dei tavoli vicini alle finestre, con tre o quattro anziani, più o meno sempre gli stessi (a parte Z, che se n'è andato il mese scorso) e li imbocca. A turno. Pulisce loro le labbra e il mento. Soffia sul cucchiaio, se la minestrina fuma. Taglia l'arrosto in pezzetti facili da masticare. E se è il caso, ormai non si fa più problemi neanche a risistemare le dentiere, plof, che cadono nel piatto (anche se per questo, in effetti, c'è voluto un po'). A X piace fare volontariato. Tutti i sabati e le domeniche, nel primo pomeriggio, X esce dall'Istituto Y con una effervescenza nell'anima che non ha mai provato altrove. Deve avere a che fare con quei sorrisi claudicanti e quelle mani che sventolano quando se ne va, chiedendosi - ogni maledetta volta - se sabato prossimo ne mancherà qualcuna. Eppure mai ha pensato di fotografarli, né di farsi immortalare mentre allunga la mano con il cucchiaio verso le labbra protese, figuriamoci mettere poi le foto su Facebook e taggarci gli amici. Mai è venuto in mente a X di girare un video con il telefonino, mentre li imbocca e in sottofondo c'è Mamma Maria dei Ricchi e Poveri, da mettere su You Tube e mostrare a tutti la sua bravura a far posare l'aeroplanino nutritivo.

Gli «angeli del fango» invece no. Cioè, non tutti, per lo meno, o non sempre. A chi infatti in questi giorni ha caricato (e taggato) su blog, Facebook, You Tube eccetera le proprie foto o i propri video in mezzo alla disperata melma genovese e spezzina, sorridente, con la pala in mano, o mostrando a tutto il mondo i suoi stivali di gomma logorati dal lavoro come un trofeo di guerra, vorrei far notare che rischia di essere rimasto vittima dell'onnipresente manipolazione (tentazione?) social-mediatica all'esercizio del protagonismo. Perché, sebbene i media - non c'è dubbio - abbiano surfato alla grande sull'onda emozionale della sciagura e della partecipazione, sollecitando così a loro volta a cavalcarla, e dunque sia anche gran parte colpa loro, l'esibizionismo non si confà al volontariato e l'autosfoggio retorico del sacrificio, pur non togliendo alcunché all'oggettività (comunque fondamentale ed encomiabile) dell'aiuto portato, neutralizza agli occhi degli altri la nobiltà del gesto, in quanto lo espone all'antipatia della presunzione. Anche solo pretesa tale. E in questi casi il confine è tracciato con una matita molto, molto sottile. Al contrario, la gratificazione del volontario si nutre dei sorrisi e degli sguardi, dei silenzi e delle strette di mano. La ricompensa del volontario si accende grazie alla scintilla di anime che entrano in contatto. La felicità del volontario cresce nella consapevolezza di aver alleviato un dolore.

Il resto è (sempre) troppo.

venerdì 11 novembre 2011

Ingredienti per un mondo nuovo (3 di 3)

[Se te la sei persa, la seconda parte la trovi qui]

6. Ridurre
È una società, quella odierna occidentale, che fa del "troppo" la sua cifra esistenziale. Dunque esistono numerosi ambiti in cui è necessario ridurre, ridimensionare, senza che questo significhi vivere da pezzenti. Ridurre i sovraconsumi e il loro impatto sulla biosfera, anche attraverso una moratoria della pubblicità, in maniera da disincentivare la creazione di bisogni inesistenti. Ridurre gli sprechi (perché mai si deve vendere un tubetto di dentifricio dentro una scatola di cartone?). Ridurre il turismo di massa. Ridurre - come già detto - gli orari di lavoro e incentivare la flessibilità dando la possibilità, per esempio, a un operaio che lavora in una fabbrica automobilistica, di fare altro nei periodi in cui la fabbrica non lavora per penuria di domanda. Da questo punto di vista, Latouche sostiene che il sistema interinale può essere un passo nella direzione giusta, anche se il sistema ovviamente va concepito con spirito completamente diverso.

7. Riutilizzare
Il concetto dell'uso e della sostituzione degli oggetti nella società dei consumi ha innumerevoli sfaccettature, ma che si riducono soprattutto al fatto che gli oggetti hanno una vita d'uso molto più breve di quella che potrebbero ragionevolmente avere a causa di quella che Brooks Stevens chiamò obsolescenza pianificata e che in estrema sintesi può essere duplice. Da un lato c'è l'obsolescenza progettuale, ovvero quella in base al quale si costruiscono e si mettono sul mercato degli oggetti che deliberatamente durano poco, hanno una scarsa affidabilità, o si consumano (o si rovinano) in fretta, in modo da costringere gli utenti alla loro frequente sostituzione. Dall'altro c'è l'obsolescenza indotta, ovvero quella realizzata attraverso per lo più la pubblicità e il marketing che instillano nel consumatore il bisogno del rinnovo dell'oggetto proponendone uno che fa il medesimo uso, solo più bello/potente/veloce/ecologico/ecc., anche quando quello che avete già potrebbe andare avanti benissimo ancora per molto, molto tempo.

8. Riciclare
Questo è ovvio, direte voi. Certo. Ma il riciclaggio deve andare oltre la semplice raccolta differenziata dei rifiuti (benché questa non sia ancora diffusa ed entrata nelle mentalità dei cittadini su tutto il territorio come dovrebbe, e prova ne è l'ormai celebre, fantomatico tizio che butta via una bottiglia di vetro o un giornale nel bidone dell'immondizia comune, quando proprio di fianco, a solo un metro di distanza, ci sono i rispettivi contenitori per la raccolta differenziata), ma essere implementata industrialmente nelle macchine, ovvero nella loro progettazione, nei materiali con cui sono costruite, e nella filosofia del loro utilizzo e della loro dismissione una volta esaurito il loro compito.

Ebbene, ciò che è davvero interessante (e bello) di queste regole, è che se da una parte, dal punto di vista pubblico, ovvero politico e sociale, sembrano uscite da un'autentica utopia moderna, dall'altra la maggioranza di esse è di fatto perseguibile anche su piccola scala, localmente, addirittura individualmente. Magari in quest'ultimo caso la loro efficacia potrà risultare di minore impatto di quanto non potrebbe essere se fossero instituzionalizzate ufficialmente nel sistema, eppure sono convinto che, a condizione di essere tanti (e quando dico tanti, intendo TANTI), anche solo l'adozione personale di questi stili di vita può contribuire a cambiare la società in maniera significativa. Ciò che è davvero interessante (e bello) di queste regole, è che fanno piazza pulita di tutti gli alibi che la gente adduce per rimanere nella soffice comodità del lamento e non passare mai all'azione.

/continua (lunedì)

giovedì 10 novembre 2011

Ingredienti per un mondo nuovo (2 di 3)

[Se te la sei persa, la prima parte la trovi qui.]

3. Ristrutturare
È evidente che l'apparato produttivo e i rapporti sociali vanno adeguati alla rivalutazione e alla riconcettualizzazione: questa è la ristrutturazione, sebbene non è detto che essa debba per forza discendere come conseguenza dai primi, bensì può anch'essa concorrere al consolidamento dei primi, come in un processo di retroazione positiva che diventa così circolo virtuoso. Di certo la ristrutturazione implica la fuoriuscita dal capitalismo. Questo tuttavia non deve far pensare che la decrescita sia espressione di una società schierata compatta a sinistra, tant'è che a tutt'oggi tutte le forze di sinistra si esprimono, pur con i loro distinguo, sempre in termini di "crescita-crescita-crescita". A tale proposito infatti, Latouche rivendica il fatto che il programma della decrescita sia "in primo luogo un programma di buon senso" e che "è altrettanto poco condiviso sia a sinistra che a destra". E questo, aggiungo io, dà la misura delle profonde contraddizioni in cui versa la sinistra di oggi. Del resto su questo punto Latouche ha ragione e giustamente approfitta della situazione per smarcare intelligentemente la decrescita dalla diatriba politica. Tuttavia, lo spirito non cambia e, a mio modo di vedere, i valori propugnati dalla decrescita dovrebbero corripondere ai valori classici della sinistra, ancorché traghettati dentro la modernità del XXI secolo. Potete immaginare valori di questo genere promossi da forze - anche moderate - di destra?

4. Ridistribuire
Qui lascio parlare direttamente Latouche, non saprei dirlo meglio. "La ristrutturazione dei rapporti sociali è già ipso facto una ridistribuzione. Questa riguarda la ripartizione delle ricchezze e dell'accesso al patrimonio naturale tanto tra il Nord e il Sud, quanto all'interno di ciascuna società, tra le classi, le generazioni, gli individui. La ridistribuzione avrà un duplice effetto sulla riduzione del consumo. Direttamente, ridimensionando il potere e i mezzi di consumo della 'classe consumatrice mondiale' e in particolare dell'oligarchia dei grandi predatori. Indirettamente, diminuendo lo stimolo al consumo vistoso".


5. Rilocalizzare
È naturale che la decrescita faccia della deglobalizzazione uno dei suoi punti cardinali. Pertanto tutto ciò che è producibile localmente, va prodotto localmente. In quest'ottica gli spostamenti di merci e di capitali vanno ridotti all'indispensabile. C'è davvero bisogno di fragole cilene a Natale o di ninnoli cinesi tutto l'anno? Ma anche la politica, la cultura, l'economia, fino addirittura al senso della vita, "devono ritrovare un ancoraggio territoriale" e le relative decisioni devono essere prese localmente tutte le volte che è possibile. Le Società Mutue per l'Autogestione per esempio sono realtà sociali ed economiche territoriali che vanno esattamente in questa direzione, per questo soluzioni del genere dovrebbero essere promosse e incentivate. Allora da questo punto di vista la decrescita potrebbe addirittura rendere felici i leghisti?

/continua (domani)

mercoledì 9 novembre 2011

Ingredienti per un mondo nuovo (1 di 3)

Ma la decrescita non si ferma alla masturbazione filosofica, non è come i discorsi che puzzano di campagna elettorale tipo «più lavoro per tutti», «bisogna investire nella scuola», «le pensioni non si toccano», «la salute è il bene primario», «città più sicure», «salvaguardare il territorio a tutti i costi», eccetera. Non si ferma al puro distillato della teoria, insomma. E non vuole (né forse può) essere nemmeno demagogia. Perché la decrescita richiede impegno, sia nell'individualità che nella collettività nel perseguimento degli obiettivi che si propone di raggiungere. Si tratta di otto azioni suggerite da Latouche (qui non c'è proprio niente di marziano, anche se ho qualche dubbio sulla provenienza planetaria dello stesso Latouche) necessarie a suo giudizio per mettere in moto un circolo virtuoso di decrescita sociale. Permettetemi per una volta il didascalismo, e lasciate che ve le illustri brevemente (per i dettagli vi rimando alle sue pubblicazioni). Credo sia importante dare loro un'occhiata, se non altro per farsi almeno un'idea di quali siano le direzioni complessive, individuali, sociali, politiche ed economiche che la Filosofia della Decrescita propone di seguire per cercare di innescare un circolo virtuoso che cambi davvero il mondo o almeno che ci provi. Magari per invogliarvi ad approfondire il tema.

1. Rivalutare
Qui si parla di valori e in parte Latouche si riferisce a quanto ho già esposto nei precedenti post. Le scale di valori (ovvero di non-valori) oggi dominanti vanno cambiate, l'immaginario consumistico va demitizzato a favore di una (ri)appropriazione consapevole di valori sociali autentici. "L'altruismo dovrebbe prevalere sull'egoismo, la collaborazione sulla competizione sfrenata, il piacere del tempo libero e l'ethos del gioco sull'ossessione del lavoro l'importanza della vita sociale sul consumo illimitato, il locale sul globale, l'autonomia sull'eteronomia, il gusto della bella opera sull'efficienza produttivistica, il ragionevole sul razionale, il relazionale sul materiale"(1).

2. Riconcettualizzare
È il diretto corollario della rivalutazione. Le coordinate di nuovi valori tracciano una diversa mappa del mondo conosciuto, del mondo auspicato, di cui ci si deve appropriare. La riconcettualizzazione è dunque appannaggio per esempio del binomio ricchezza/povertà o rarità/abbondanza, quest'ultimo "binomio infernale, fondatore dell'immaginario economico, che è necessario descostruire con la massima urgenza"(1). Infatti "l'economia trasforma l'abbondanza naturale in rarità con la creazione artificiale della mancanza e del bisogno attraverso l'appropriazione della natura e la sua mercificazione"(2). Inutile dire che questo è uno dei paradigmi da depotenziare.

(1) Serge Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena (Einaudi)
(2) Paul Dumouchel e J.-P. Dupuy, L'Enfer des choses
[Credit: la foto in alto è la Sad Earth dei Cool Globes fotografata a Chicago nel 2007 da John LeGear]


/continua (domani)

lunedì 7 novembre 2011

Pensieri nei dintorni dell'utopia

Non faccio fatica a riconoscere che vista così, sulla superficie del pelo dell'acqua, distante dalla spiaggia, tutta questa faccenda della Decrescita suona un po' come un'inutile pazzia, come l'imbarcarsi in una lotta contro i giganti, un'impresa folle, persa in partenza, destinata a fallire miseramente nella polvere e nelle lacrime della frustrazione, un'azione buona solo per l'autoreferenzialità che esprime e dunque per la gratificazione psicologica che regala a chi la fa, a prescindere dai risultati finali che può raggiungere. Perché in questo caso il nemico non ha un volto preciso. Non puoi andarlo a prendere di notte, tendergli un'imboscata, nemmeno lanciargli dei pomodori marci quando passa col suo corteo di auto blu, né puoi mettere un cecchino sul tetto, aspettando che esca allo scoperto. Perché in questo caso il nemico è ovunque, è diffuso, frammentato e, per questo, onnipresente. Ma, soprattutto, in questo caso molta parte del nemico è annidata dentro ciascuno di noi e chi è disposto a fare piazza pulita di se stesso, ammettendo dunque così per certi versi di avere fin qui sbagliato?

Eppure, come ho avuto spesso modo di dire, sono convinto che se l'occidente non sarà capace di cambiare il suo modo di intendere il mondo, istruendo così anche l'oriente che con il ritardo di qualche decade sta ormai rincorrendo vertiginosamente lo stesso modello, sarà il mondo che deciderà per l'occidente - ma anche per l'oriente - e li affonderà entrambi nel giro di poche decadi. A quel punto il cambio di visione non sarà più scelto, controllato, programmato, ma imposto dalla casualità e dalla balìa degli eventi, come una tempesta di neve epocale che vi ha colto in cima a un monte, dopo che avete presuntuosamente ignorato l'alzarsi del vento tagliente, l'abbassamento drastico della temperatura e il rannuvolamento cupo del cielo a partire dall'orizzonte delle creste e poi, via via, sempre più sulle vostre teste indifese.

Ma non ci si può aspettare che siano i politici a prendere l'iniziativa. Essi non avranno mai il coraggio di mettersi a cavallo di argomentazioni elettoralmente penalizzanti presso i cittadini come quelle che parlano di cose che hanno a che fare con il concetto di rinuncia. Quindi siete voi a dover cominciare a dimostrare a parole (ovvero parlandone il più possibile) e nei fatti (comportamenti ed esempi), che le nuove istanze sono forti, condivisibili e auspicabili, e che esiste un desiderio autentico di uscire da quello che Cornelius Castoriadis chiama onanismo consumistico televisivo, attuando un nuovo tipo di educazione ecologica a tutto tondo, difendendosi dalla manipolazione aggressiva della pubblicità e rinnovando i valori della quotidianità da quelli del consumo, a quelli della relazione, della convivivalità, della cultura e della creatività.

Questa è la conditio sine qua non, la triangolazione morale necessaria a individuare la rotta e catalizzare l'energia per intraprendere il viaggio verso una società rinnovata. Dopodiché i cambiamenti di paradigma potranno cominciare a essere portati avanti anche a livello politico, economico e sociale. Ma non crediate che, come sempre succede con la politica, ci si fermi agli slogan, belli e suggestivi, ma vuoti e inutili. La filosofia della Decrescita ha individuato una manciata di interventi ben precisi da perseguire. Alla prossima puntata, però.

/continua

giovedì 3 novembre 2011

Tossicodipendenza da tassi

Nella puntata scorsa si parlava da un lato della perversa equazione desiderio = consumo = soldi = lavoro che implica la necessità da parte dei cittadini di adeguarsi a una società iperlavorativa che ha svilito il termine ozio connotandolo negativamente quando invece il suo significato vero
"(derivato dal latino otium) indica un'occupazione principalmente votata alla ricerca intellettuale, attività di fatto riservata alle classi dominanti, ed è contrapposto al concetto di negotium, occuparsi (più per necessità che per scelta) dei propri affari."
(da Wikipedia);
dall'altro della dipendenza dal profitto (ovvero dall'accumulo parossistico di ricchezza) che l'economia di mercato ultraliberista ha sviluppato e consolidato nella prospettiva di chi fa impresa a tutti i livelli, dal piccolo commerciante al grande industriale. Ebbene, sulle prime i due aspetti possono sembrare questioni diverse e separate, almeno nella misura in cui da un lato gli impiegati e gli operai, dall'altro gli imprenditori, si trovano in effetti su sponde opposte di un confine sociale marcato con l'inchiostro delle buste paga. Eppure per come la vedo io, la radice filosofica e psicologica individuale dei due approcci è esattamente la stessa. L'istinto che porta la popolazione a picchiarsi per entrare per prima all'inaugurazione di un nuovo Centro Commerciale, ovvero a sentirsi felice nella soddisfazione di desideri inoculati dalla pubblicità soddisfatti acquistando cose, possibilmente battezzate dall'incentivo di un'offerta speciale, è semplicemente la gratificazione del possesso, ovvero in pratica, ancorché su scale diverse, lo stesso imperativo morale che porta la casta politica e quella imprenditoriale a voler arricchirsi senza misura e a non voler rinunciare ai propri privilegi.

Perché dunque si dovrebbe pretendere da loro quello che non vogliamo fare neanche noi? Lo so, lo sento fin da quassù lo scricchiolio dei vostri nasi che si storcono. Loro (prendiamo in questo caso i politici) sono dei ricchi privilegiati del cazzo, che vanno in pensione dopo pochi anni di lavoro (lavoro per modo di dire) e vivono da nababbi a spese dei contribuenti. Per non parlare di uno come Marchionne il cui stipendio annuale vale lo stipendio annuale di qualche migliaio di operai (dunque se Marchionne rinunciasse al 90% del suo stipendio resterebbe comunque molto ricco e nel contempo potrebbe evitare la cassa integrazione a un'intera fabbrica per un anno). Perché, direte voi (lo sapete che percepisco i vostri pensieri), non cominciano loro a ridursi i loro privilegi, visto che siamo noi quelli che se lo prendono sempre sotto la coda? Vi capisco, il vostro ragionamento non fa una piega. Quello che però mi interessa evidenziare qui, è che la molla psicologica che anima loro e voi è la stessa, perché se voi foste al posto loro (o comunque la maggioranza di coloro che non sono al posto loro) vi comportereste né più né meno come loro. Un po' come ritrovarsi nel bel mezzo di una sorta di intifada della cupidigia.

Per questo nell'ambito della filosofia della decrescita, che poi non è solo una dottrina teorica, bensì anche un programma sociale e politico molto pratico, quello che viene richiesto ai singoli individui a tutti i livelli (sociale, politico, economico) è un salto generale di visione, che deve partire innanzitutto dalla comprensione e dalla consapevolezza che questo non è l'unico mondo possibile, che questo non è il migliore mondo possibile. Ed è proprio questo che intende Serge Latouche quando parla di "decolonizzazione dell'immaginario", ovvero la disintossicazione mentale da quel sistema consolidato (e autorafforzativo e autocelebrativo) di credenze in base alle quali gli individui della società occidentale vengono educati, crescono, vivono e muoiono all'interno di un modello di esistenza non inevitabile, né invero più auspicabile di altri. È dunque una rivoluzione culturale generale quella che prima di ogni altra cosa deve diffondersi come una mutazione positiva, affinché la decrescita possa davvero avere qualche possibilità, una rivoluzione che può partire solo dal diffondersi di una coscienza sociale critica verso se stessa e conduca così le persone innanzitutto al riconoscimento che si può (anche) vivere diversamente da così, senza che questo debba significare per forza peggio di così.

/continua

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