Punti di vista da un altro pianeta

lunedì 31 gennaio 2011

venerdì 28 gennaio 2011

La neve e la cenere

[...] Qui trovo maggiore compostezza tra i visitatori. Senza alcuna concessione al respiro, si scivola tra pannelli che raccontano le tragiche storie delle migliaia di esseri umani passati di qui in più di un decennio di "attività". Ci sono i prigionieri politici, quelli colpevoli solo di far parte di altri popoli (Zingari, Ebrei e Polacchi, ma anche Austriaci, Italiani, Francesi, Spagnoli...), e quelli rei di essere lombrosianamente diversi (le facce da criminali, da asociali, da disadattati, da oziosi...). Gli omosessuali, i preti, i Testimoni di Geova, le prostitute, i vagabondi, gli alcolizzati e i mendicanti. Alla fine si scopre che qui a Dachau non si sono fatti mancare proprio niente. Ci si imbatte nell'astuccio che contiene una quindicina di ciocche di capelli in gradazione dal biondo al rosso al nero, come una cartella colori RAL, numerate (e dunque codificate) per una comoda, rapida e infallibile determinazione del grado di arianità della razza. Stessa cosa per gli occhi. E si può osservare una specie di appoggio orizzontale fatto di listelli di legno, dove venivano fatti disporre bocconi i prigionieri per poter essere bastonati con maggior efficacia (apposito frustino in nerbo di bue flessibile incluso nella confezione). Per non parlare delle sezioni dedicate agli esperimenti scientifici che a Dachau vennero svolti con grande solerzia, vista la grande disponibilità di cavie (umane) a perdere.

E almeno un paio di volte non posso evitare di essere sopraffatto dall'empatia e dalla commozione, come quando lo sguardo mi si posa sulla cartolina disegnata con immenso e tangibile amore, che un ospite del campo ha spedito a casa come augurio alla mamma per la sua festa (vedi a fianco), oppure nella riproduzione del dipinto così intriso di profonda e assoluta disperazione che il prigioniero David Ludwig Bloch realizzò nel 1940 dopo la sua liberazione (vedete qui sotto). Oltre a individui, ci sono anche comitive. Ce n'è una proprio qui, vicino ai pannelli che parlano degli ebrei. La guida parla loro in inglese, ma non so da dove vengano. So che alcuni ragazzi della comitiva si siedono contro un muro della sala, aprono un paio di confezioni di patatine e cominciano a sgranocchiarle. Non fanno casino. Non è che ridano o chissà che. Però quel comportamento mi dà fastidio. Lo trovo irriguardoso. In questa sala ci appendevano i prigionieri con le mani dietro la schiena come maiali pronti per essere scannati. Ci sono ancora i segni delle travi da cui pendevano i ganci, accompagnati dagli agghiaccianti disegni fatti dai prigionieri. Eppure quei ragazzi non ci vedono alcun problema a improvvisarci un bel brunch. Crunch crunch crunch. È un problema mio? È la mia ipersensibilità marziana? Non lo so. Ma intanto il retrogusto di prima è tornato alla ribalta come un conato di bile.


La testimonianza prosegue di tragedia in tragedia fino alla liberazione del 1945. Poi, prosciugati dal lungo orrore, si esce sul piazzale antistante, assolato come un deserto, dove c'erano le due file di diciassette baracche ciascuna che ospitavano i prigionieri. Oggi ne restano solo due, ricostruite per essere visitate, con le brande in legno a castello a tre piani. In fondo al viale, i memoriali dedicati ai cattolici, ebrei e musulmani che qui hanno lasciato la vita, mentre più in disparte il crematorio. Tornando verso l'edificio principale si nota una grande scultura che domina il piazzale. Si tratta del Monumento Internazionale alla Memoria di Nandor Gild (1968) che stilizza un filo spinato con un groviglio corpi umani. Trovo sia molto bella e che valga la pena una fotografia. Ma sembra che, dopo il cancello con la scritta, questo sia il soggetto preferito dai visitatori. Tutti lì davanti a farcisi fare una foto da far vedere alla mamma. E io, che vorrei scattare una foto senza (un cazzo di) nessuno davanti, non riesco. Cioè per un po' paziento e aspetto l'attimo buono. Poi arrivano due tizi (NB non italiani) che hanno tutta l'aria della coppia di omosessuali (ma magari mi sbaglio, eh). Comunque sia, 'sti due gironzolano avanti e indietro il monumento per un po'. Poi si decidono. Uno - quello con la macchina fotografica - si allontana e va a prendere posizione per l'inquadratura. L'altro si mette in posa sotto il monumento. Quindi mentre il primo comincia ad allineare l'obiettivo della digitale per lo scatto, l'altro fa una risatina, si volta di culo e mima di tirarsi giù i calzoni (giuro, non me lo sto inventando). Quindi si rigira per essere immortalato, ancora più divertito.

Finalmente riesco a farla, 'sta fotografia, dopodiché mi allontano. Lo sgradevole retrogusto di prima ha finalmente trovato una connotazione precisa nel momento in cui mi viene da domandarmi se questi due, ma anche coloro che ormai in parecchi vedo intorno a me, si rendono davvero conto di quello che è successo qui, su questa medesima terra che i nostri piedi stanno calpestando. Se percepiscono il dolore che ha attraversato questo luogo. Non un dolore qualsiasi, ma un dolore che un uomo ha inflitto a un altro uomo con l'animo di chi si diletta in una nuova raccapricciante disciplina sportiva. O se invece costoro guardano le fotografie di umanità violata e leggono le testimonianze di gratuita sofferenza con lo stesso animo con cui si piazzano davanti a un film con Christian De Sica o - per essere più internazionali - a una puntata di Desperate Housewives. Ci troviamo forse davanti a un pericoloso processo globale di fictionizzazione delle coscienze?

Esco riflettendo che non si va a Dachau per fare del turismo. Non si va a Dachau per giocare a nascondino. Non si va a Dachau per mettersi in posa. Del resto a Dachau mica ti vendono le palline di vetro che se le capovolgi, sulla piccola schiera di baracche vedi scendere la neve. Ma forse è solo perché nessuno ha ancora pensato di farle con la cenere.

giovedì 27 gennaio 2011

Memory Reloaded

Il fatto che in altri momenti storici la congiunzione di Crisi Economica e Propaganda (feroce) abbia portato a effetti politici e sociali terribili e devastanti, fa' sì che il Giorno della Memoria acquisisca, oggi, ovvero in un momento storico di Crisi Economica e Propaganda (feroce), un significato ancora più forte. Per questo ripubblico, oggi e domani, il reportage della visita che ho fatto quest'estate al campo di concentramento di Dachau. Il mio modo per non dimenticare.


Dachau non è un luogo. Dachau è un tempo. Dachau è una memoria con i denti di lupo. Non ci vuole molto a seguirne le tracce, l'odore, la scia. Da Innsbruck saranno poco più di 200 km. Due ore e mezza di strada rispettando i limiti. Si segue la direzione München, si supera l'ostacolo della tangenziale e, nella periferia a nord-ovest della capitale bavarese, ci si ritrova in questa cittadina fondata nell'805 d.C. a seguito del dono da parte della nobile Erchana della stirpe degli Ariboni di tutte le sue terre site in Dachauua all'arcidiocesi di Monaco e Frisinga. In realtà dalla cittadina non ci si passa, se non si desidera. Usciti dall'autostrada si seguono le indicazioni per [KZ-Gedenkstätte], che ci sono, ma sono scritte al microscopio elettronico e rigorosamente in tedesco (non è che ci tengono a fare molta pubblicità internazionale a Dachau, i tedeschi, e c'è da capirli) - quindi, o sai esattamente che cosa devi cercare, o sei fregato - finché dopo una manciata di minuti si arriva al parcheggio nascosto da alte siepi. Si pagano 3€ per mettere l'automobile nel piazzale, dopodiché non ti verrà chiesto nient'altro, se non leggere, riflettere e ricordare. I brividi nella schiena ce li metterai tu.


Per giungere all'ingresso della struttura c'è un breve tratto da fare a piedi, la ghiaia che scricchiola sotto i piedi sono frammenti di ossa polverose. È metà mattinata e non c'è ancora molta gente. Da qui ancora non si vede niente, ma c'è già qualcosa che mi prende nel mezzo del petto. Suggestione o altro? Non so. Però so che quando sento delle voci (NB italiane) che parlano ad alta voce, mi fanno l'effetto delle unghie su una lavagna. Vorrei dirgli qualcosa. Qualcosa che ha a che fare col rispetto del dolore e l'omaggio alla memoria. E se fossero stati dei ragazzini forse l'avrei fatto. Ma costoro ragazzini non sono. Sono signore e signori, maturi e attempati, che parlano di frivolezze come se si stessero aggirando alla fiera patronale, tra banchi di mutande e pentole antiaderenti. Meglio superarli e lasciarseli indietro. Eppure il loro atteggiamento lascia un residuo dentro di me, come un retrogusto che devo ancora identificare e che solo verso la fine della visita riuscirà a mettere a fuoco.

Il tempo per orientarmi e mi trovo al cospetto della cosiddetta Jorhaus Tor, il cancello situato nell'edificio dove si trovava il comando delle SS, attraverso cui tutti i prigionieri dovevano passare per entrare nel campo. Anche qui, come nel caso di Auschwitz e di molti altri lager, nella trama del ferro battuto fa bella mostra di sé il grottesco e crudele messaggio di benvenuto ai prigionieri Arbeit Macht Frei, ovvero Il lavoro rende liberi, come un cioccolatino sopra il cuscino nella stanza dell'hotel. E proprio lì davanti non posso fare a meno di notare la calca disordinata di gente (NB non solo italiani) che fa a gara per farsi immortalare con la scritta sulla sfondo. «Chiudi la porta..., dài chiudi la porta che non si vede bene la scritta, ok, così va bene, ora vai un po' più indietro, a destra, aspetta..., abbassati un po', okay, sì ma sorridi, fico!... clic, oh, no aspetta è venuta una schifezza, troppo scura, rimettiti lì. E richiudi quella cazzo di porta! Vabbè, aspetteranno un attimo per passare, 'sti stronzi...», e via in tempo reale su Facebook/Twitter/Flickr/Splinder/Blogger...

La visita prosegue nel grande edificio principale, dove erano situati guardaroba, cucine, officine e bagni, nonché un certo numero di spazi dedicati a tortura e vessazioni assortite. L'esposizione ripercorre cronologicamente la storia del campo, partendo dall'antefatto, ovvero dalla situazione politica e sociale venutasi a creare in seguito alla disfatta della Germania nella I Guerra Mondiale, la Repubblica di Weimar, la grave crisi economica e sociale degli anni '20, la conseguente progressiva ascesa del NSDAP (Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei), e la sua affermazione nelle elezioni del 1932. Dachau fu il primo "campo" istituito da Hitler solo poche settimane dopo la sua "presa di potere" avvenuta il 30 gennaio 1933, per togliersi di mezzo soprattutto gli avversari politici, comunisti innanzitutto, ma anche socialdemocratici, sindacalisti e in seguito pure conservatori e monarchici. Il suo triste primato lo rese anche una sorta di campo di "esempio" e di "prova" per tutte le sistematiche e disumane applicazioni di abuso, violenza, tortura e sterminio che sarebbero venute da lì in avanti, sempre più efferate, fino alla fine della II Guerra Mondiale. Ma di questo ne parliamo domani.

[Nota: "Unsere letzte Hoffnung" significa: "La nostra ultima speranza"]

/continua

mercoledì 26 gennaio 2011

Psicopatologia della politica quotidiana (rewind)

"[...] Si ravvisano dunque nei comportamenti di S. (74 anni) dei preoccupanti elementi che mettono in discussione la sua obiettività e le sue capacità di giudizio e costituiscono il segnale di un serio problema di personalità ancora non del tutto chiarito, ma senza dubbio ben radicato nella psiche del paziente. Del resto, essendo la proiezione la realizzazione mentale di un primordiale meccanismo difensivo, nel caso di S. le manifestazioni in tal senso sono talmente forti ed esplicite che configurano un quadro psicopatologico piuttosto serio. Seguono appunti esplicativi.

Il fenomeno del transfert in S. è stato osservato più volte e con una ripetizione di contesti ossessiva-compulsiva di tipo quasi maniacale che esclude qualsiasi tipo di casualità. Nella fattispecie, una delle più frequenti situazioni-tipo rilevate è quella in cui il paziente tende genericamente ad accusare l'interlocutore di averlo insultato, quando invece è lui il primo a indulgere alla villania, peraltro quasi con un certo autocompiacimento. Spesso per fare questo utilizza lo stratagemma della battuta, ma risulta forzato e falso e si capisce che è l'inconscio a venirgli in soccorso per dissimulare un comportamento che lo stesso paziente sa essere deprecabile. È stato osservato tra l'altro che tale condotta si rivolge specialmente verso membri del sesso femminile nei confronti dei quali il paziente dimostra uno scarso senso di rispetto e un innato sentimento di maschilistica arroganza. Senza contare che l'ambito di tali insulti coinvolge sovente all'aspetto estetico, cosa che denota un'ossessione patologica del paziente per l'esteriorità, non solo quindi dell'interlocutrice femminile, ma - nell'ottica proiettiva - anche di se stesso. Una presunzione narcisistica quindi, peraltro già confermata tricologicamente e verificabile anche a una semplice occhiata.

Una seconda situazione-tipo è quella in cui il paziente accusa il suo interlocutore (di nuovo l'accusa preventiva, utilizzata a baluardo difensivo), spesso indulgendo alla veemenza e al turpiloquio, sempre con modalità espressive a senso unico, di ribaltare la realtà, quando si è reso altresì evidente in occasioni plurime che è invece lui stesso ad avere l'inclinazione al sovvertimento di ciò che lui stesso ha dichiarato, sostenendo (il giorno dopo una data dichiarazione) di essere stato frainteso, quando basterebbe il riascolto delle sue affermazioni per capire che non poteva essere frainteso in alcun modo. In questo comportamento si denota un'avversione per una realtà che il paziente vorrebbe controllare sotto tutti gli aspetti, ma si accorge di non riuscirci mai nella misura in cui vorrebbe. Tale aspetto configura nel paziente la tendenza sempre meno latente al delirio onnipotentivo.

Una terza circostanza peculiare e ricorrente è l'accusa (N.B. ancora l'accusa precauzionale), questa volta non a un singolo interlocutore, ma a intere categorie professionali, di essere "un cancro", di "mettere a rischio la democrazia", di essere un pericolo per la "libertà" e via di questo passo. In questo caso l'elemento del transfert persecutorio raggiunge il suo apice e sottolinea il ruolo dell'inconscio del paziente che sposta caratteristiche proprie su altre persone a titolo di autosalvaguardia. In accordo con l'interpretazione freudiana, si ritiene in prima battuta che le proiezioni illustrate configurino nel soggetto gravi elementi di paranoia per il trattamento dei quali (e per evitare che lo stesso paziente faccia del male a se stesso e - soprattutto - al Paese) si consiglia di procedere a un immediato ricovero del paziente a tempo indeterminato in un'apposita struttura riabilitativa. Si raccomanda una stanza con pareti imbottite e infermiere ciospe."

[Nota: come accennato dal "rewind", questo post non è inedito, bensì del 25 marzo scorso. Poiché può essere sfuggito a molti (il blog era agli inizi), ho pensato di riproporlo oggi (con qualche insignificante variazione): mi sembra sempre in tema.]

lunedì 24 gennaio 2011

Le coordinate della felicità

Che cosa significa essere "felici"? Non voglio addentrarmi in un ginepraio stucchevole di buonismo e filosofia spicciola. Ma lasciatemi dire che la "felicità" è la misura dell'estetica della vita. E ogni estetica è condizionata e influenzata dai tempi in cui si trova. Non esiste un bello assoluto, come non esiste una felicità assoluta. Dunque riformulo la domanda più correttamente. Che cosa significa essere "felici" oggi? Quali sono i parametri con i quali le persone misurano il proprio grado di raggiungimento della felicità?

Naturalmente questo varia in base alle proprie attitudini e alle proprie esperienze, ma esiste una "felicità sociale", intesa come una "felicità media" statisticamente intesa. In altre parole: la maggioranza degli individui pensa che la felicità consiste in [xxxyyyzzz]. Qualsiasi cosa vi vada di scrivere tra le parentesi, poche sono innate, molte invece sono acquisite, anche se il più delle volte non ci se ne accorge. Forse, meglio, più che "acquisite", si dovrebbe dire, nella maggioranza dei casi, "manipolate". Difatti, pur contando le proprie personali inclinazioni dettate dalla personalità di ognuno, per il resto è la società a programmare le felicità, stabilirle e legittimarle nella forza ambivalente della condivisione e della competizione popolare. E lo può fare tanto meglio, quanto più ha a disposizione mezzi invasivi e ripetitivi, che mettono in campo messaggi lusinghieri e seducenti. Il tutto fin dalle più tenere età, quelle in cui le tavolette di creta sono ancora belle morbide, vellutate, perfette per essere incise.

Dunque quali sono i modelli di felicità che i giovani - ma non solo - sviluppano e fanno propri oggi? Quella felicità intesa come insieme di ambizioni e aspirazioni che costruiscono il concetto di soddisfazione e di realizzazione di sé? Quali sono i canali che veicolano i parametri della felicità e i modelli che ne attestano i valori? Mila Spicola si chiedeva qualche giorno fa sull'Unità: «Come lo spiego in classe a un 14enne che non è bello essere Ruby...» Non è forse questa la ragione (ultima, ovvero la prima) del fallimento della politica di cui parlavamo nel post precedente, perché è anche la ragione del fallimento di una società intera, e pertanto quello su cui - prima di ogni altra cosa - bisognerebbe cominciare ad agire?

venerdì 21 gennaio 2011

Provare a prendere la politica (e i suoi luoghi comuni) per le palle

In questo squallidissimo contesto politico, che non dovrebbe far accapponare la pelle solo ai cittadini ideologicamente di opposizione, ma a tutti coloro che hanno a cuore la decenza, il rispetto e la civiltà di tutti quei valori che dovrebbero animare, prima di tutti gli altri, la vita delle persone e che sembrano ormai definitivamente discaricati al sesso e al denaro, come condizioni necessarie e (soprattutto) sufficienti alla soddisfazione e al successo esistenziale, senza nemmeno più quel senso di vergogna che una volta veniva glassato dal paravento dell'ipocrisia, viene da chiedersi che cosa dovrebbe mai fare un politico di qualsiasi estrazione ideologica (sempre che questo abbia ancora un senso, al di là delle pure categorie merceologiche della politica) per andare controcorrente, per cercare di invertire quella che sembra ormai più che una tendenza in atto, bensì una tragica, consolidata decadenza.

E non ne faccio una questione strettamente moralista. E nemmeno d'onore. Sono convinto che il titolo "onorevoli" attribuito agli eletti in Parlamento provenga tradizionalmente da loro stessi (smentitemi se non è così), come ad autoaffermare e rafforzare di fronte al popolo la propria legittimità a stare lì. Insomma non si viene eletti perché si è onorevoli, ma si è onorevoli perché si è eletti. Dunque non sono così ingenuo da pensare che possa esistere una politica "pura", immune ai suoi propri meccanismi seduttori e compromissorî.

Così, complici soprattutto questi strani giorni, da un lato sconquassati da scandali pruriginosi senza precedenti e dall'altro testimoni dell'apparente salire alla ribalta dello scenario politico italiano di almeno un volto nuovo, volto che si chiama Nichi Vendola, viene da domandarmi cosa dovrebbe veramente fare un politico per poter essere apprezzato e stimato nel suo ruolo (almeno tanto quanto può esserlo un politico, date le premesse di cui sopra). Nella fattispecie la considerazione mi sorge a valle della lettura di un articolo di Roberto Cotroneo, intitolato Nichi, l'acqua calda della sinistra, che - se non l'avete fatto - vi invito a leggere.

Ebbene, Cotroneo apprezzato scrittore (da non confondere con l'omonimo Ivan con il quale non mi risulta imparentato), partendo dall'analisi di C'è un'Italia migliore, libro di Vendola edito da Fandango, contesta al leader di SEL il fatto di essere "emozionale", ma che alla
"fine l’elenco dei temi seri affrontati da Vendola in questo libro è identico a quello dei luoghi comuni a cui sono collegati. Condivisibili i problemi. Eppure misteriose le soluzioni."
E Cotroneo non è il primo che sento esprimersi in questo modo a riguardo. Alla sinistra si contesta sempre la vacuità del pensiero. Grandi ideologie, ma nessun idea, grandi speranze, ma nessuna soluzione, grandi discussioni, ma nessuna azione, così, presto o tardi, la bolla di sapone - pop! - finisce per esplodere e non ne resta niente. Tanto (pro)fumo e niente arrosto, insomma, neanche una briciola. Il problema è che a me questa considerazione, in cui è caduto (anche) Cotroneo, sembra essa stessa diventata un annoso e pregiudizievole luogo comune.

Quando mai il politico parla al cittadino elettore di soluzioni? La missione del politico è prima di ogni altra cosa sventolare specchietti per convincere il cittadino a votarlo. E l'unico modo in cui può farlo è sentimentandolo sui luoghi comuni. Inutile che parli di PIL, bilanci, deficit, percentuali, soluzioni pratiche, difficili da comprendere e giudicare anche dai tecnici addetti ai lavori. Del resto non è forse vero che i temi degli slogan politici da qualsiasi parte essi provengano sono sempre gli stessi? "Più lavoro", "Scuola migliore", "Aiuti alle famiglie", "Sostegno ai giovani", "Meno tasse", "Sanità più efficace", "Pensioni più ricche", "Maggiore sicurezza", "Incentivi alle imprese", "Energia pulita" ecc. Non sono in fin dei conti anche questi, o soprattutto questi, "luoghi comuni", ma in fondo anche quelli che fanno bene o male la vita delle persone? E perché allora queste stesse contestazioni non vengono rivolte anche ai politici di centro-destra, giacché anch'essi sono tutt'altro che immuni al paradigma di essere tutti chiacchiere e distintivo?

Alla fine quello che conta prima di ogni altra cosa, dunque, non sembrano essere le idee (sempre opinabili), non le capacità personali (Superman non esiste), nemmeno l'onestà (la politica corrode). Che cos'è allora che dovrebbe importare secondo voi? Che cosa dovrebbe realisticamente cambiare? Come si può uscire da questo disorientante labirinto escheriano le cui pareti sembrano fatte di qualunquismo riflettente?

Un'idea a riguardo ce l'ho, ma mi piacerebbe sentire prima voi senza condizionare le vostre risposte.

[Credit: la foto della bolla di sapone è di Richard Heeks]

martedì 18 gennaio 2011

Ridateci i cerchi nel grano, per favore!

L'ultima parte della puntata di Voyager di ieri sera è stata istruttiva come poche altre. Prima di vederla, infatti, non avevo ancora ben chiara in testa l'idea del punto che si può osare raggiungere nel prendere per i fondelli i telespettatori e non solo non pagare dazio, ma avere anche successo (e un congruo stipendio). E questo non è certo un complimento nei confronti dei telespettatori. In fondo il furbacchione è lui, Roberto Giacobbo, che da anni e anni a questa parte sguazza nel millantare misteri dove pur qualche legittimo interrogativo esiste, ma soprattutto a inventarne di nuovi, del tutto inesistenti, con servizi imbarazzanti, per farcire di fuffa il palinsesto di una trasmissione che può essere apprezzata sul serio solo da encefalogrammi piatti.

Il servizio di chiusura della serata di ieri è dedicato a Stephen King, lo scrittore, proprio lui, e la prima cosa che viene da chiedersi è: che cosa diavolo c'entra King con Voyager?! È stato recentemente rapito dagli alieni? I suoi libri sono dettati in scrittura automatica da spiriti di trapassati? O è lui stesso un extraterrestre? No, è assai più probabile che sia solo un discendente dei templari. O che il suo potere - vai a vedere - sia dovuto al fatto che in realtà è il custode del Graal o dell'Arca dell'Alleanza o di entrambi. E per questo lui è immortale, onnisciente e dotato di poteri che neanche ci sogniamo.

Invece no, niente di tutto questo. Cioè, magari... Giacobbo parte mostrando la residenza vittoriana di King a Bangor nel Maine, una villa tutto sommato sobria per uno del conto in banca di King. La telecamera indugia sul cancello di ferro battuto ornato con demoni e pipistrelli e le iniziali S e K e, strisciando di fronte alla villa, il presentatore comincia a domandarsi qual è il segreto di un uomo di successo come King, che ha raggiunto la popolarità planetaria grazie a storie dell'orrore, insinuando che ci sia qualche elemento misterioso nella capacità creativa di King. Forse esoterico o soprannaturale? Del resto siamo su Voyager, no? Magari un bel patto col diavolo, vergato col sangue in una notte di luna piena! Giacobbo, serpentello, non lo dice mica, certo, ma quel sibilo con cui pronuncia le "s" qualcosa deve pur significare. «Perché King», spiraleggia, «nonostante tutti i soldi che ha fatto, e che potrebbero consentirgli di vivere ovunque nel mondo, è rimasto a Bangor, una cittadina così dimessa del Maine?» allude Giacobbo lucidando la mela. Come se Bangor avesse il potere di trasmettere allo scrittore qualche tipo di potere o energia nascosta, come se It fosse ben più di qualcosa di immaginario.

Quindi il servizio prosegue alternando immagini di questa graziosissima cittadina della provincia americana, con i suoi parchi, le sue cisterne, le sue lapidi e i suoi cittadini (tutti sovrappeso), con le interviste di un paio di individui del luogo: un libraio, che ci rivela - bontà sua! - che King è un grande e le sue storie sono fortemente legate a Bangor e a quei luoghi, e un altro scrittore locale, che afferma di aver riconosciuto almeno dieci posti di Bangor e dintorni (addirittura dieci? Su oltre trenta romanzi e racconti?! That's really cool!) riportati nei libri di King e che il Maine è un luogo impervio con lunghi inverni oscuri, freddi e inospitali, dove non è difficile immaginare di restare isolati o non soccorsi dopo un incidente. E questo, manco a dirlo, scatena l'immaginazione. Figuriamoci la nebbia in val padana.

Infine Giacobbo arrotola il suo corpo sinuoso intorno a due aneddoti come frutto di rivelazioni esclusive, suggerendo che da queste esperienze - ohibò - King possa essere stato influenzato nella sua professione. La prima è legata all'infanzia dello scrittore che "viene colpita, oltre che dalla scomparsa del padre, dalla morte di un suo amico. All'età di quattro anni, i due sono impegnati a giocare vicino ad una ferrovia, quando l'amico del futuro scrittore cade sulle rotaie e viene travolto da un treno. King, in stato confusionale, torna a casa senza ricordare quanto successo." (fonte: Wikipedia.it) La seconda è quella dell'incidente (di dominio pubblico) che King subì il 19 giugno 1999 quando venne investito da un minivan che lo lasciò in fin di vita sul selciato. Per fortuna lo scrittore si riprese, ma nella trasmissione viene detto che merito della guarigione sarebbe in gran parte dell'immaginazione di King che lo avrebbe aiutato a superare il dolore. Niente male questa, no? Senza contare la singolare coincidenza che secondo Giacobbo l'investitore, Bryan Smith, sarebbe morto entro poche settimane dall'incidente, guarda caso proprio il giorno del compleanno di King. Anche qui, la lingua biforcuta non aggiunge niente se non sibili e sinistri fruscii. Le sue insinuazioni stanno nelle omissioni, nei toni melliflui, negli sguardi ammiccanti, nei toni cupi della musica. In realtà Smith è morto sì, il 21 settembre, ma dell'anno successivo. Nel mondo esistono anche queste cose qui. Hanno coniato un termine apposta: coincidenze.

Ora c'è bisogno di dire che è ovvio che ogni esperienza fa lo scrittore? C'è bisogno di dire che è ovvio che un luogo e le sue suggestioni fanno lo scrittore? C'è bisogno di dire che è ovvio che uno scrittore metterà in qualche modo dentro le sue storie il suo vissuto, i suoi luoghi, i suoi personaggi, in generale le sue conoscenze ed esperienze filtrate ed elaborate dalla sua immaginazione e dalla sua sensibilità? Che cosa c'è di strano in tutto questo? Nulla. Qual è il segreto? Nessuno. Che cosa rende tutto questo in tema con una trasmissione di misteri? Niente, se non Giacobbo stesso e il fatto che l'unico vero voyager qui è proprio lui che, in compagnia di almeno un operatore, si è fatto una bella vacanza nel Maine a spese dei contribuenti solo per inanellare una serie di idiozie vuote e pretestuose, come un jackpot di disonestà intellettuali, che suonano come una truffa giornalistica e un vero e proprio insulto all'intelligenza dello spettatore medio. Bè, su quest'ultima però non ci giurerei.

venerdì 14 gennaio 2011

Sotto la vernice della realtà

Non sono mai stato un tipo da racconti. Non so perché. Eppure tranne isolate, particolari ed effimere stagioni come innamoramenti estivi, come quando persi la testa per i racconti di Dino Buzzati, di Isaac Asimov e di Philip K. Dick, come in una specie di equivalente letterario di un'educazione sentimentale attraverso cui dovevo per forza passare, nella mia passione di lettore la narrativa breve non ha mai trovato granché spazio. Ripeto, non so bene perché, anche se ho la consolazione di sapere di non essere il solo. Può essere una sorta di (errato) convincimento in base al quale nella lunghezza è più facile trovare soddisfazione intellettuale (su questo basta leggersi molti racconti di David Foster Wallace per venire smentiti, spudoratamente). Oppure può essere l'esigenza di avere a disposizione il tempo letterario per sviluppare un coinvolgimento maggiore nei confronti dei personaggi. Oppure - e qui chiudo, giuro - può essere la trasposizione cartacea di una voglia di conquista, come optare per il sudore di un'arrampicata di terzo grado (e relativa polenta in baita), piuttosto che a una Coca-Cola liscia con quattro noccioline in croce alla fine di una breve passeggiata davanti al mare. Fatto sta che, come me, molti non sono tipi da racconti. Però, quando vale la pena, bisogna anche avere il coraggio di contravvenire alle proprie inclinazioni.

Sono convinto inoltre che oggigiorno un lettore consapevole debba averne anche un altro, di coraggio: quello di osare. Uscire dalle predeterminate rotte commerciali o pseudotali, quelle dei grandi gruppi editoriali che hanno il monopolio della distribuzione e l'egemonia della prima fila (ma anche quelli della seconda e della terza ecc.) dei banchi delle librerie, e che in questo modo impongono titoli, mode, gusti e autori. Non che non ci sia niente di buono da leggere, anche lì in mezzo, ma meno di quanto si creda o facciano credere le copertine sgargianti e i nomi altisonanti (l'ultimo - scadente - Stephen King ne è un ottimo esempio). Il resto, e qui mi riferisco soprattutto agli autori italiani, bisogna saperselo andare a cercare. Con dedizione. Magari usando Internet, i blog, i forum, anobii, persino Facebook, come mappe in cui orientarsi. Con pazienza, come cercatori di tesori antichi. Fidandosi di qualche sito o rivista, spendendo il tempo a vagliare i propri informatori, recensioni e recensori, come investigatori spiantati ma appassionati. E con (appunto) un po' coraggio. Perché per quelle due o tre volte che può andare storta e si becca la sòla, una volta va bene. E quella volta si viene ripagati con qualcosa di prezioso, qualcosa di nuovo, di originale e di (finalmente) fuori dalle consuetudini e dai cliché. Qualcosa che sorprende per vitalità letteraria, per energia dello stile, per effervescenza delle idee, qualcosa che è capace di tenerti il cervello in movimento e spiazzarti a ogni pagina con una specie di continuo gioco di prestidigitazione del pensiero, sempre sospeso tra comicità e tragedia, in una realtà che si fa surrealtà, per dire che forse la verità sta nel viceversa, e sfregando con uno straccio imbevuto di solvente sull'apparenza delle cose, rivelare che sotto - guarda un po' - sono i piccioni ad avere il privilegio di conoscere i segreti del mondo.

(Almeno) tutto questo è Acquaragia, pregevole raccolta di racconti di Stefano Domenichini edita da Perdisa Pop. A proposito di quello che si diceva, tenete d'occhio entrambi, ci sanno fare.

Tre gocce:
"Poi vide un triangolo scaleno che si guardava allo specchio sentendosi brutto e solo. Il Tato aveva la bocca secca. Qualcuno gli diede da bere, o comunque sentì qualcosa di umido che gli accarezzava la lingua. Riapparve il triangolo scaleno. Era abbracciato a un esagono e si sentiva felice." (da La febbre del pellegrino)

"Se i tappeti volassero si potrebbe correre sempre all'ombra. Ho gli addominali contratti, la schiena protesa, flessa. La testa appoggiata al ginocchio, piegato contro la spalla. Gli occhi fissi sulla punta del piede, sollevata fino a estenuare il tendine. Mi sto tagliando le unghie. Dei piedi. Sul tappeto. Se i tappeti volassero le spiagge avrebbero due piani." (da Acquaragia)

"Sparare a Walter Matthau sotto un colonnato di Parigi. Ecco una cosa che non ho mai fatto. Come del resto invitare una donna a cena dicendo: «Dimmi cosa vuoi mangiare che mi metterò qualcosa in tinta». Quasi sempre accettavano, si vede che qualcosa di interessante la inventavo. Mia moglie è morta da quindici anni. Hanno smesso di vendere la saponetta Camay." (da Trilogia di Natale)

Acquaragia
, di Stefano Domenichini, Perdisa Pop (Corsari).

[Credit: la foto dei piccioni è di Alex Healing]

martedì 11 gennaio 2011

Oroscopando ovvero degli indiscutibili vantaggi di avere Marte in trigono

Che bello sarebbe, se credeste agli oroscopi. Ma sul serio, però. Mica come quel Branko di gente che si compra Astra solo a gennaio per vedere in anticipo come andrà il 2011. Vedere quante stelline si becca la propria vita come fosse un film, per decidere se andare a vederlo oppure no. Tanto lo vedrete ugualmente quel cazzo di film. E se poi vi chiudono il cinema a tradimento? Quindi non è questo il punto.

Ah, che bello davvero sarebbe, se tutti quanti voi credeste agli oroscopi. Ma sul serio, però. Mica come colui che si crede Fox e scrocca il giornale al bar o dal parrucchiere e salta politica, cronaca, esteri, sport, cinema, cultura, persino il gossip, e fila dritto alla pagina del Tempo Libero, per vedere in anticipo come sarà il suo tempo nel 2011. Dare una sbirciatina alle previsioni della vita come alla cartina del meteo, per decidere se varrà la pena uscire di casa oppure no. Tanto lo sa che dovrà metterlo lo stesso il naso fuori. E se poi si ritrova la porta sbarrata? Perciò non è nemmeno questo il punto.

Uh, che figata sarebbe, se tutti quanti voi - tutti - credeste agli oroscopi! Ma sul serio, però. Mica come quelli che se ne vanno in giro a dire che sono tutte cazzate, che bisogna essere deficienti, che hanno troppo ragione Piero Angela, la Hack e quegli scetticoni del CICAP, che sono tutte truffe ordite ai danni della povera gente ignorante, che fanno leva sull'eterno bisogno di speranza e sicurezza delle persone, però sanno perfettamente (non lo dicono, ma lo sanno, oh se lo sanno...) che un quadrifoglio funziona benissimo anche se non ci si crede. Dunque volete che sia questo il punto?

Il punto - invece - è che sarebbe bello, davvero bello, se voi credeste agli oroscopi. Ma sul serio. Perché essere convinti, per esempio, che la posizione di un pianeta a caso, Marte!, possa portarvi (o assorbirvi) energie e possa condizionare in bene o in male gli eventi dettati da un Caso che in realtà non esisterebbe affatto, implicherebbe che dovreste credere alla comunione di tutte le cose della Natura. Significherebbe che dovreste sentirvi talmente intessuti dentro la trama infinitesima dell'universo, da sentirvi parte di lui, non separati, da essere spinti a rispettarlo e a credere in esso più che in ogni altra cosa, perché significherebbe fare tutto (anche) per se stessi.

Significherebbe che dovreste sentirvi talmente intrecciati vicendevolmente, da essere spinti (almeno) a rispettarvi di più, gli uni con gli altri, perché come i pianeti - influenzandovi - sono parte di voi, anche voi dovreste sentirvi parte dello stesso organismo che vi unisce, voi terrestri, ma anche noi marziani, tutte le cose viventi e tutte le cose non viventi, in una comunione invisibile, ma simbiotica, integrale e universale. Con il destino di uno che dipende da quello di tutti gli altri e viceversa, come un esercito solidale di moschettieri dell'universo.

Che bello sarebbe, se tutti quanti voi credeste agli oroscopi! Ma sul serio.
Non sarebbe forse un mondo migliore?

venerdì 7 gennaio 2011

Breve elogio della maglia

A me capita di vedere i gomitoli come tubetti di tempera. E quelle scatole sugli armadi o sotto i divani, piene di palle di lana, come quelle affascinanti valigette di legno con tutti quei tubetti in ordine di colore, come arcobaleni acchiappati da uomini dotati di poteri speciali. O forse soltanto capaci di sognare. L'unica differenza è che quelle sfere pelose sono nemiche dell'ordine, e con loro la faccenda di mettersi in fila secondo la lunghezza d'onda non funziona. I gomitoli sono come gli ingredienti primordiali del Big Bang, prima ancora della luce degli arcobaleni, e la loro tendenza naturale è il caos. E non è forse vero che solo dal caos può nascere una stella danzante? (Okay, okay, quest'ultima - lo ammetto - non è mia). Insomma, ci vuole qualcuno che sappia il fatto suo, per avere ragione di loro.

Così lei prende i ferri, più spessi, più sottili, corti o circolari, a seconda del tipo di stelle e galassie e pianeti, e dà forma al lungo filo, come nel gioco di un demiurgo infreddolito. E crea. Ma c'è molto più di quanto sembri in quel suo gesto silenzioso. Non è solo qualcosa che viene (solo) da una tradizione secolare. E men che meno femminile, a dispetto della faccenda delle parche. Non è (mai stato) un privilegio delle nonne e delle (vecchie) zie che parcheggiano sulle sedie a dondolo scricchiolanti davanti alle finestre di legno. Fuori la pioggia o la neve. Il brodo che bolle. Il gatto che fa le fusa vicino al fuoco. Odore di castagne e di galline. E il mondo, quello vero, quello che vive, fuori, che va avanti senza di loro. Odiosi luoghi comuni, duri da abbattere come draghi davanti a un San Giorgio senza cotta di maglia.

Invece c'è abilità manuale. C'è sapienza tecnica. C'è il sudore del tempo e la disciplina della pazienza. Ci sono regole da seguire e da infrangere. C'è l'immaginazione che danza in equilibrio sulle punte di metallo. E c'è l'estro creativo. E non sono forse queste, le caratteristiche proprie di un'Arte? Eppure non un'arte qualunque. Questa è un'arte speciale o forse un po' più speciale delle altre. Gomitoli come tubetti. Ferri come pennelli. Esseri umani (e marziani) come fredde pareti e affreschi a riscaldarli.

Come ogni attività creativa, naturalmente, ha i suoi tentativi e le sue ripartenze, le sue esperienze e i suoi vicoli ciechi, le sue banalità e i suoi lampi di genio, indifferenze e meraviglie, croste e capolavori.
Ma tutto questo non la rende forse, a maggior ragione, un'Arte?

(dedicato a Knitting Bear e al suo marzianino, con gratitudine)

lunedì 3 gennaio 2011

Comunicazione (astrale) di servizio

Qualora non lo sapeste, volevo segnalarvi che domani mattina in Europa vi sveglierete eclissati. Già a partire dall'alba, ovvero intorno alle 8:00 a seconda della posizione geografica, il Sole si troverà infatti in fase di eclisse. In altre parole domattina dalle vostre parti il Sole sorgerà con la Luna già a oscurarlo parzialmente (per un 10% circa). Il fenomeno proseguirà quindi con la progressiva copertura della stella fino a un massimo di circa il 70% intorno alle 9:00 (l'immagine è una simulazione della massima copertura), per poi diminuire e terminare verso le 10:30.

L'eclisse in questione non sarà dunque "totale", bensì "parziale", e dunque anche al suo massimo non consentirà di vedere a occhio nudo la corona solare. Malgrado ciò sarà senza dubbio un evento comunque molto suggestivo e, considerata la sua rarità, imperdibile. Nubi permettendo, naturalmente. Se dunque il cielo lo permetterà, vi invito a dare un'occhiata in cielo, ma FATE MOLTA ATTENZIONE alla protezione per la vista. Per osservare il Sole direttamente, anche all'alba, NON è sufficiente la protezione degli occhiali da sole, nemmeno quelli più filtranti da montagna. L'esposizione alla luce diretta del Sole a occhio nudo o con protezioni non adeguate, anche per pochi secondi, può provocare gravi danni alla retina. Dunque per osservare il Sole durante un'eclisse come quella di domani servono protezioni adatte, ovvero i classici "occhialini" da eclissi (purché integri) che qualcuno potrebbe aver tenuto in un cassetto, oppure degli occhiali da saldatore (indice di protezione 14). In alternativa esistono le apposite protezioni in mylar che in genere le associazioni di astrofili hanno a disposizione. L'alternativa è osservare l'eclisse in maniera indiretta per proiezione. Qui vedete come si può fare. O di cercare qualche osservatorio o associazione di astrofili nelle vostre vicinanze che organizzi l'osservazione guidata.

Se qualcuno di voi riesce a osservare il fenomeno, mi piacerebbe che commentasse qui le sue impressioni.

I dati per alcune città italiane:

Città......Inizio - Massimo - Fine - Copertura %

Cagliari...7:47:05 - 9:02:12 - 10:27:19 - 64,2
Palermo....7:48:07 - 9:06:22 - 10:34:43 - 64,6
Napoli.....7:51:52 - 9:11:25 - 10:40:40 - 68,9
Roma.......7:51:55 - 9:10:21 - 10:38:21 - 69,6
Bari.......7:54:07 - 9:15:36 - 10:46:30 - 70,1
Genova.....8:03:00 - 9:09:29 - 10:34:58 - 71,2
Torino.....8:11:00 - 9:08:57 - 10:33:31 - 71,4
Firenze....7:53:30 - 9:11:23 - 10:38:27 - 71,5
Ancona.....7:54:42 - 9:14:06 - 10:42:37 - 72,1
Bologna....7:54:00 - 9:12:34 - 10:39:36 - 72,4
Milano.....8:06:00 - 9:11:21 - 10:36:55 - 72,6
Venezia....7:56:28 - 9:15:16 - 10:42:47 - 73,9

(fonte: Coelum)

domenica 2 gennaio 2011

Cartoline da un pianeta immaginato (3 di 3)

Il pianeta truffatore
Poi fu la volta dell'arrivo delle sonde automatiche, e le cose furono destinate a cambiare ancora, sebbene stavolta più velocemente. Nel luglio 1965 la Mariner 4 mandò le prime 21 immagini ravvicinate di Marte, distruggendo così il mito di un pianeta vivifico e lussureggiante, e dipingendolo invece come un mondo arido e morto, qualcosa di molto simile alla Luna. Addio canali, addio mari, addio distese di vegetali. Lassù ci sono solo sabbia e crateri e le ombre scure che si vedevano dalla Terra non erano altro che terreni strutturalmente diversi, in grado di riflettere diversamente la luce del Sole. Fine di tutti i miti. Amen. E invece no. Marte aveva ancora delle sorprese in serbo per la vostra inesauribile immaginazione. Nel 1976 la missione Viking stabiliva una pietra miliare nell'esplorazione dello spazio, riuscendo a far atterrare con successo su Marte un modulo in grado, per la prima volta, di prendere immagini a colori dal suolo e di compiere tre test biologici per cercare tracce di vita. Il cielo rosa fece fare un salto sulla seggiola agli scienziati e non solo. Quello che più d'ogni altra cosa fece trattenere il fiato fu che uno dei test in questione, la prova di cosiddetta Respirometria o Risposta Marcata (Labeled Release) ideata dal prof. Gilbert Levin, diede ripetutamente risultati positivi. In pratica si trattava di somministrare a un campione del suolo di Marte delle apposite sostanze nutrienti (amminoacidi), contaminate con una lievissima dose di C14, isotopo radioattivo del carbonio. Se una forma di vita fosse stata presente nel campione di suolo marziano, essa avrebbe metabolizzato le sostanze nutrienti, rilasciando dei composti di scarto (soprattutto anidride carbonica), che sarebbero stati anch'essi marcati con lo stesso isotopo radioattivo del carbonio. E l'anidride carbonica "marcata" fu effettivamente prodotta, e in quantità decisamente notevoli. Alla NASA ci furono rumori di bottiglie stappate e brindisi, la sera del 30 luglio 1976. Ma, nelle settimane successive, gli altri due esperimenti non confermarono mai i dati del primo test, anzi contribuirono a ridimensionarne il risultato apparentemente clamoroso. Che cos'era successo di preciso? Furono messe al vaglio molte ipotesi, e alla fine la NASA scelse una spiegazione che coinvolgeva meccanismi puramente geochimici, ovvero del tutto avulsi da un contesto biologico. Tuttavia c'è ancora chi (il Prof. Levin, per esempio) è convinto che si sia trattata invece di una prova decisiva della presenza di vita su Marte (ma non ce n'è bisogno, visto che la prova decisiva sono io!). Da allora, però, nonostante il gran numero di sonde, altri esperimenti di questo tipo non sono stati mai più tentati. Nel frattempo, però, l'immaginazione era ancora protagonista, perché nello stesso periodo il Viking Orbiter, il modulo rimasto in orbita, mandava dalla zona di Cydonia un'immagine da far svenire. Sembrava un volto e non ci volle molto perché fosse battezzato la "Sfinge" di Marte. Naturalmente all'epoca non si poté verificare, prendere un'immagine della stessa zona da un'altra angolazione, con un'altra prospettiva o una differente illuminazione, e così immaginario e mitologia ripartirono alla grande. Chi aveva scolpito quella "faccia"? E perché? Si erano estinti? Quando? Impossibile ignorare il ricordo delle Cronache Marziane di Ray Bradbury. Facile altresì, a questo punto, che immaginario e mitologia si spingessero oltre, e infatti nelle immagini della stessa zona furono viste anche piramidi e piccoli villaggi abbandonati. Articoli, libri e congetture fiorirono, e l'ipotesi extraterrestre non fu abbandonata del tutto nemmeno quando nel 1998 la Mars Global Surveyor andò a riprendere la stessa zona con una risoluzione decisamente maggiore, per dimostrare senza ombra di dubbio che il "volto" non era altro che un semplice effetto ottico del punto di vista, della luce e della bassa risoluzione. L'equivalente geologico degli elefanti in cielo fatti di nuvole.

Il pianeta mattacchione
Ma l'uomo evidentemente ha bisogno di mitologie e di immaginazione e nel 1994 Marte fece di nuovo egregiamente la sua parte. Successe quando gli scienziati videro i risultati di alcune scansioni al microscopio elettronico dell'interno di ALH84001, meteorite marziano rinvenuto in Antartide dieci anni prima. In alcune immagini, infatti, sembrava proprio di vedere dei batteri fossilizzati. L'immagine fece il giro del mondo e si gridò alla scoperta del secolo. Anche l'allora Presidente Clinton ne parlò in un discorso. Ma, sebbene ci fossero altre evidenze chimiche precise che potessero portare alla conclusione che effettivamente c'era stato qualcosa di vivo dentro quella roccia, come si faceva a essere sicuri che si trattassero proprio di batteri marziani fossili e non di uno scherzo del microscopio, della sezione, o di qualche altro accidente? Qualcuno ha mai visto un batterio marziano e saprebbe riconoscerne il relativo fossile? Alla fine la maggioranza della comunità scientifica si ritrovò a giudicare la prova del meteorite molto suggestiva, ma per lo meno non definitiva. Anche oggi, dunque, il mito non smette di essere alimentato. E anche quando dei rover comandati dalla Terra scorrazzano in lungo in largo per mesi sulla superficie marziana, c'è la possibilità per Marte di mettere ogni tanto la sua zampata da buontempone. A Spirit e Opportunity, i due sofisticati trabiccoli della NASA che ormai da più di sei anni studiano ostinatamente la superficie di Marte (Spirit in realtà è ormai KO dal marzo scorso), è successo almeno due volte di incappare in sfrontati specchietti per le allodole con cui Marte (o noi marziani?) si diverte a lastricare la strada della conoscenza umana. La prima volta è accaduto quando a un certo punto, nel suo girovagare sulla Meridiani Planum, a Opportunity capitò di inquadrare delle zone del suolo di Marte ricoperte da piccole sferette che gli americani non tardarono a battezzare blueberries, ovvero "mirtilli". Sembrava di vedere una di quelle spiagge tropicali disseminate da mucchietti di palline di sabbia, residuo del pasto di un esercito di piccoli granchi affamati. Naturalmente non si trattava di resti di un'attività biologica, bensì di particolari formazioni geologiche di ematite (ossidi di ferro), che anche sulla Terra si formano in presenza di acqua. Ma questo bastò a suggestionare l'immaginazione. La seconda volta, poi, fu ancora più clamorosa, perché qualche mese dopo il suo arrivo, Opportunity inquadrò e mandò sulla Terra l'immagine di un... coniglio!

L'uomo credulone
Sullo sfondo scuro e rugginoso della sabbia, sembrava davvero un bel piccolo coniglietto bianco con tanto di orecchie. E ci mancava anche che spuntasse Alice, saltellando e tirando fuori la lingua davanti all'obiettivo del rover. Ebbene, per qualche giorno l'enigma ha tenuto banco presso gli scienziati i quali cercavano di capire di che cosa si trattasse. Scattarono ripetute foto dell'"animale" per vedere se si muoveva o se cambiava posizione e, alla fine, giunsero alla conclusione che si doveva trattare di un frammento dell'air-bag che aveva protetto lo stesso rover durante la fase di atterraggio. Ma non ci sarebbe da sorprendersi se, da qualche parte, ci fosse qualcuno, particolarmente sensibile all'immaginazione, che ha ancora il dubbio che si trattasse di un coniglio autentico. Del resto è di Marte che si tratta, mica di un pianeta qualunque. Il pianeta principe di tutte le mitologie, l'unico capace di andare a solleticare il bisogno di emozioni dell'uomo, facendogli credere che la realtà delle cose è sempre più complicata, misteriosa ed esotica di quanto non sia. Ma è anche il pianeta che, anche nel suo lato ormai più scientifico e pragmatico, riesce sempre a trovare la strada per insinuare il frammento del dubbio, il barlume della suggestione, l'eco dello scherzo, il contorno di una nuova mitologia. Perché le mitologie nascono di notte. Le mitologie nascono dal mistero. E finché voi ve ne starete laggiù, distanti, irraggiungibili, intoccabili, noi marziani quassù non la smetteremo di prendervi per i fondelli, sapendo che è proprio questo, in fondo, quello che volete da noi.

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