Punti di vista da un altro pianeta

mercoledì 30 marzo 2011

Per un pugno di chilowatt

Infine non si può trascurare il fatto che nemmeno l'energia "pulita" esiste davvero, ma la produzione di elettricità ha sempre un costo in termini energetici ed ecologici che ne determina efficienza e conseguenze ambientali. Per esempio bisogna pur costruirli in qualche modo i pannelli solari, no? E quali ricadute hanno i loro processi costruttivi? Quanta energia si consuma e quanto si inquina per farli? E le pale eoliche? Senza contare l'impatto sull'ambiente che, a prescindere dal lato puramente estetico, e dunque per certi versi opinabile, quegli impianti hanno e che comunque si traduce in ampie porzioni di territorio che devono essere riservate allo scopo. Insomma se l'uomo vuole energia, non può pensare che il suo costo sia trascurabile. Ne vuoi? Allora, mio caro, sappi che devi pa-ga-re. In soldi, salute e bellezza. E più ne vorrai, più il suo prezzo per forza di cose salirà. In soldi, salute e bellezza. Al punto che non è detto che in un futuro più o meno remoto, magari un futuro dove il petrolio sarà esaurito (se finiscono il sale e lo zucchero a casa tua, puoi star certo che presto o tardi succederà anche col carbone e col petrolio) e magari anche i veicoli dovranno essere alimentati a elettricità (o arriverà l'idrogeno?), prima o poi non si finisca per avere problemi a soddisfare il fabbisogno mondiale. Che cosa succederebbe se si arrivasse a quel punto?

Dunque in attesa che arrivino a maturazione industriale gli ormai chimerici impianti a fusione nucleare, promessi ormai da quarant'anni, che presentano una virtuale inesauribilità delle fonti, che non immettono nell'atmosfera prodotti di combustione, e che sono considerati «intrinsecamente» sicuri, non tanto perché incidenti non possano accadere, quanto perché almeno il reattore non contiene sostanze radioattive, ma che non si sa quando e se saranno mai davvero disponibili (le cose sono molto più complesse di quanto ci si aspettava), o che salgano alla ribalta industriale processi di produzione dell'energia davvaro innovativi e potenzialmente interessanti come l'Energy Catalyzer, cosa si deve fare? Alla luce di tutte le considerazioni fatte finora, che idea farsi oggi (in vista del referendum, e dopo l'astuta moratoria)? In che direzione orientarsi? Dove andare a piazzare il baricentro del triangolo costi-rischi-benefici? Quali considerazioni pratiche si possono fare, senza lasciarsi portare via dalle impetuose e superficiali correnti di pregiudizi ed emotività?
Se persino di fronte a un disastro come quello di Fukushima, lo stesso Giappone non sembra avere alcuna intenzione di rinunciare al nucleare, credo che valga la pena considerare che ci possono essere fattori da cui non si può prescindere, che magari - proprio come nel caso del Giappone (le cui 56 centrali pare coprano il fabbisogno interno per solo il 25%!) - sono legati anche al territorio e alla popolazione. Quando hai così tanta gente che consuma così tanta energia elettrica su una superficie così esigua, come fai a produrre abbastanza elettricità per tutti, se non (anche) col nucleare? Non dico che questo si applichi all'Italia, piuttosto che qualsiasi tipo di considerazione va valutata con equilibrio. Per esempio, nel caso dell'Italia, in che misura incide sul rifiuto del nucleare l'applicazione della visione affaristico-mafiosa in stile cemento dell'Aquila? E soprattutto, ha davvero importanza nell'economia delle considerazioni? O finisce per essere solo un altro aspetto di natura emozionale, proiezione energetica di una sfiducia diffusa e ormai fortemente radicata verso tutti gli organi di potere, di controllo e di gestione? Eppure pensate che cambierebbe qualcosa nell'opinione della gente avere una qualche garanzia che le centrali venissero costruite ed esercite (e le scorie smaltite) secondo la più aggiornata e onesta "regola dell'arte"? In effetti non sembra che il dilemma affligga i tedeschi. Forse la proverbiale competenza, precisione e senso dell'onore, della responsabilità e del sacrificio giapponesi (benché qualche scheletrino nell'armadio sembra ce l'abbiano pure loro) hanno messo al riparo i cittadini del Sol Levante dall'incubo della contaminazione?

/continua (e finisce) lunedì prossimo

lunedì 28 marzo 2011

Non tutti i funghi vanno bene per il risotto

Dunque partiamo dal presupposto che in ballo ci sia l'Energia. E basta. Quindi sfrondiamo (utopisticamente) la faccenda dalle tentacolari e appiccicose appendici affaristiche e demagogiche. Il mondo ha bisogno di energia sotto forma di elettricità. E ne vuole sempre di più. Bisogna alimentare schermi al plasma in 3D, home theater 5.1, blu ray disc player, HD recorder e decoder assortiti. Ci sono chili di batterie da ricaricare in continuazione: tablet touchscreen, cellulari smartphone, netbook ultralight, e-book wi-fi, console multiplayer, vibratori wireless e rasoi rigorosamente ad hoc per i peli del naso, del pizzetto, di cosce e polpacci, del petto e del pube. Bisogna accendere il robot da cucina per friggere l'aria, azionare il condizionatore per il comfort dei canarini, e far andare il tapis roulant per la passeggiata serale del cane. Per non parlare della poltrona massaggiante simil-shiatsu, delle luci alogene cangianti coi colori della cromoterapia ayurvedica, della sveglia graduale per un rebirthing senza fine, il diffusore di aromi ambientali alle essenze orientali (alternate ogni tre minuti taoiste/shintoiste/buddhiste/zen/taoiste/shintoiste/buddhiste/zen...) come pure della caffettiera di Clooney, della gelatiera di Springsteen, della bistecchiera di Madonna e della panettiera di Batman. Prese, ciabatte e prolunghe che si moltiplicano per mitosi. Da un lato il tuo comfort e il tuo benessere [musica ambient, lounge, pseudo new age], dall'altro turbine che ci devono dare dentro. E in mezzo una teoria sterminata di centri commerciali, come i punti di una matrice che definisce l'essenza più intima della realtà.

A parte attraverso la fissione nucleare, attualmente esistono diversi metodi "industriali" collaudati per produrre energia elettrica. Innanzitutto ci sono le centrali a combustibili fossili, che sono attualmente la maggioranza in Italia (circa il 77/78% della produzione complessiva, il più delle quali ormai a gas naturale). Poi ci sono quelle da fonti rinnovabili, ovvero le idroelettriche, le geotermiche, l'eolico e il solare - in ordine decrescente di percentuale - che pesano complessivamente per circa il restante 22/23% della produzione. Infine la si può importare dall'estero e l'Italia lo fa in una certa misura a un determinato costo (non ho dati sotto mano). Naturalmente è più che comprensibile che un'analisi complessiva del settore sia assai complicata in quanto deve tenere conto come minimo dei tempi/costi di realizzazione degli impianti, e dei tempi/costi di esercizio dei medesimi, per ciascun chilowattora immesso sulla rete. E a questo punto sul piatto della bilancia oltre alla sicurezza ambientale che costituisce un aggravante per il nucleare (ma non fa sorridere nemmeno nelle centrali a combustibili fossili), sul piatto della bilancia bisogna mettere anche il prezzo legato alla rinnovabilità delle fonti sul lungo periodo. Perché se da un lato anche le tradizionali centrali a combustibili sono penalizzate da scorie e inquinamento, allo stesso modo si avvalgono di fonti esauribili e che (nel caso dell'Italia) vanno per lo più approvvigionate all'estero.
Di fronte a questo scenario, fitto e intricato come un gomitolo dato in pasto a un gatto troppo esuberante, si deve ancora considerare un ultimo fattore: cosa succederà in futuro? Quali sono le stime di richiesta dell'energia nei prossimi anni? Ebbene, se questo che sto per dire vale qualcosa, la più recente versione della normativa elettrica di settore del Comitato Elettrotecnico Italiano (CEI 64-8 V3) prevede che in unità abitative di superficie superiore ai 75 metri quadrati gli impianti elettrici dovranno essere dimensionati in modo da poter stipulare contratti con i venditori di energia per potenze impegnate fino a 6kW, il che significa il doppio dell'attuale. Energia elettrica significa utilizzatori, utilizzatori significa dispositivi elettrici, dispositivi elettrici significa mercato e mercato significa economia. In altre parole la norma traduce in cifre quella che sembra la previsione di una tendenza in cui gli utenti compreranno sempre più diavolerie che avranno bisogno di essere alimentate/ricaricate. Eccolo dunque il trend, in una predisposizione di raddoppio della potenza elettrica resa disponibile agli utenti. E se per ora c'è ancora la discriminazione dalla superficie complessiva dell'abitazione, c'è da scommettere che non ci vorrà molto prima che i 6kW verranno applicati a tutti, con piena soddisfazione dei centri commerciali aperti domenica e festivi, e delle società di prodotti finanziari pronte a servire su un piatto d'argento un finto tassozero per ogni esigenza. Così, in fin dei conti è questo che si deve mettere sul piatto del fabbisogno energetico, non perdetelo di vista.

/continua (mercoledì)

[Credits: la foto dei tralicci è (c) di Paolo Margari]

venerdì 25 marzo 2011

Siamo tutti topolini a caccia di formaggio

Per quanto l'incidente sia un evento teoricamente remoto, il fatto che la sua probabilità non sia mai zero costringe a non poter trascurare la portata delle conseguenze di quell'unico, possibile caso di fallimento. Il walkman mi mangia il nastro? Il frullino trancia un dito al mio bambino? Il preservativo scoppia e lei rimane incinta? Un pneumatico cede di schianto e ci lasciano la pelle in quattro? Il condizionatore mi si fotte e sono obbligato a sudare come una bestia? Un gabbiano viene risucchiato nel motore e l'aereo cade facendo duecentocinquanta vittime? O per qualche ragione il raffreddamento va in vacca, il nocciolo si fonde, il contenimento si incrina e milioni di persone vengono contaminate con gravi conseguenze alla loro salute per decenni e generazioni a venire? Detta così sembra facile. Ma a un esame più attento l'onestà di ragionamento ci chiederebbe di trovare un modo per comparare eventi più frequenti, ma più "lievi" perché non comportano la morte di nessuno o comunque di pochi, con altri, molto, molto più rari, che però implicano il potenziale coinvolgimento di milioni di persone per un tempo molto più lungo. Perché alcuni rischi, anche più consueti, ma altrettanto reali e decisamente più assidui, vengono accettati, e altri invece no? È un puro fatto di sensibilità personale? È il brivido della paura atomica? Lo spettro atavico del fungo che spazza ogni cosa? Il fatto che sia qualcosa che non si vede, da cui non ci si può difendere, che tocca il mondo come una maledizione, e che avvelena la casa e l'orto, le mucche e i bimbi?

Del resto, se da un lato ci mettiamo tutte le analisi teoriche di rischio possibili, dall'altro possiamo dire che la statistica mondiale delle centrali nucleari che sono state in esercizio finora ci parla di (nella classifica di pericolosità degli incidenti dei Livelli da 1 a 7):

>Livello 2 (guasto) = n. 2 incidenti noti (Civaux, Francia 2002 e Forsmark, Svezia 2006)
>Livello 5 (incidente grave con rischio esterno) = n. 2 incidenti noti (Three Mile Island, USA 1979 e Windscale, GB 1957)
>Livello 6 (incidente serio) = n. 1 incidente noto (Kyshtym, URSS 1957)
>Livello 7 (incidente molto grave) = n. 1 incidente noto (Chernobyl, URSS 1986)

Naturalmente gli incidenti a livelli più bassi (0 e 1) non salgono alla ribalta della cronaca non comportando rischi di sorta, quindi non è dato conoscerne il numero. Gli altri sono quelli citati sopra e quelli davvero degni di nota, ovvero che implicano un serio pericolo per la popolazione, sono dal Livello 6 in su. Ora Fukushima attualmente sembra attestarsi verso un Livello 6 e questo, aggiunto ai dati precedenti, significa due guasti molto gravi in 57 anni circa (la prima centrale nucleare al mondo fu costruita nel 1954), il che a sua volta porta a desumere - in via del tutto teorica e molto qualitativa, naturalmente (i dati di esercizio sono pochi per farne un uso statistico vero e proprio, e il numero di centrali in attività può cambiare) - che nell'ambito degli impianti nucleari si possa verificare orientativamente un incidente grave al mondo ogni poco meno di trent'anni. Per quanto dunque il dato non abbia i crismi per essere benedetto dall'ufficialità della scienza statistica, può almeno significare che - considerata all'atto pratico - la sicurezza, per quanto sbandierata e ricercata, può essere facilmente messa alla prova sia dalla fallibilità dell'uomo, che dalla casualità della Natura. (Qui il Prof. Francesco D'Auria docente di Ingegneria Nucleare all'Università di Pisa giunge a conclusioni non molto dissimili con il conforto dei numeri e della sua competenza nel settore).
Se pertanto il rischio (calcolato) esiste sempre ed è un prezzo che si deve aggiungere a quello che bisogna pagare anche in termini economici per ottenere qualcosa, per tentare di uscire dall'impasse si deve mettere sull'altro piatto della bilancia tutto ciò che si ricava per quel prezzo. In altre parole i vantaggi di tutti i generi, messi tuttavia in competizione con tutti gli altri metodi che, in un modo o nell'altro, consentono di raggiungere gli stessi obiettivi, magari con prezzi e prestazioni diverse, ma anche con rischi (calcolati) diversi e con tutta probabilità nient'affatto trascurabili.

/continua (lunedì)

giovedì 24 marzo 2011

Il nocciolo (fuso) della questione

Quello che c'è in giro in questi giorni non si può chiamare il "nucleare". Chi lo fa, sbaglia. E questo significa che sbagliano tutti. Sia i sostenitori, che si sentono defraudati di qualcosa, del sogno impossibile dell'onnipotenza elettrica, dell'illusione di un'immagine vincente da spendere in campagna elettorale, di un orizzonte rosato profilato di guadagni e mazzette; sia i detrattori che finalmente sentono di poter allargare il petto, alzare il mento e dire, con quella faccetta un po' antipatica da primi della classe: «Lo dicevo io!» No, tutti quanti sono in errore. Perché quello cui tutti fanno riferimento in questi giorni tristemente nipponici, non è l'amato-odiato "nucleare". Così, nudo e crudo come una barra d'uranio lasciata scoperta. No. Quello che c'è in giro adesso è come il risultato di una mutazione genetica dell'originale, un isotopo ontologico derivato dalle stesse radiazioni di Fukushima. Si chiama "nucleare emotivo". Ed è qualcosa di molto diverso per tutti.

Di fronte a un pianeta sempre più affamato di elettricità, prendere decisioni drastiche e definitive su un programma energetico che da un lato prevede montagne di soldi di investimenti, e dall'altro coinvolge migliaia e migliaia di lavoratori e comporta anni, se non addirittura decenni, di cantieri, a fronte di una catastrofe epocale come quella giapponese, è un'autentica sciocchezza. Come chiedere a una ragazza di sposarla al primo appuntamento, solo perché ve l'ha data, o come chiedere a un ragazzo di sposarlo al primo appuntamento, solo perché non ve l'ha chiesta. Non ci vuole Sigmund Freud per capire che quelli non sono momenti di lucidità, che si perde il lume della ragione. Sono indicazioni, su questo non c'è dubbio. E devono contribuire a innescare una riflessione. Ma è meglio sedersi e aspettare un attimo che cali l'adrenalina prima di saltare alle conclusioni che possono cambiare il volto a una generazione, in meglio, certo, ma anche in peggio.

«È illogico», direbbe il mio amico Mr. Spock facendo lievitare un sopracciglio, mettersi tutti lì in piazza, con i cartelli scintillanti e gli slogan in canna, a condannare il nucleare solo sulla base di una catastrofe. Fino a un millisecondo prima dell'abbattersi dello tsunami non andava forse tutto per il meglio (o no?)? Le procedure di sicurezza non erano ok (o no?)? C'erano pericoli (o no?)? Chernobyl non era un incubo ormai superato (o no?)? Il nucleare di oggi aveva qualcosa a che vedere con quello di venticinque anni fa (o sì?)? Senza contare tutta la sabbia che ti va negli occhi quando senti parlare della famosa III Generazione di reattori (politicamente?) supersicuri. Ma anche la III+, per chi ama la comodità senza rinunciare all'estetica, e perfino la IV, quella più prosperosa, magari anche un po' imbottita, che non guasta mai, sebbene disponibile solo tra dieci o vent'anni, ma ne vale la pena. Non ci vuole dunque Marie Curie per capire che la "moratoria" di un anno sul nucleare (ovvero per 12 mesi pensiamo ad altro e lasciamo passare così lo tsunami emotivo che offusca i nostri giudizi) è un'emerita sciocchezza proposta a fini esclusivamente strumentali, visto che c'è un referendum di mezzo e si sa che non c'è come un'emozione a mettere 'l pepe al cul dell'elettore. Anche perché le considerazioni (serie) sul nucleare che potremo fare tra un anno, non saranno diverse da quelle (serie) che possiamo fare oggi. Dunque proviamo a farle subito e leviamoci il pensiero.

Poiché del nucleare è l'aspetto della tutela e dell'incolumità che sgomenta più d'ogni altro, è opportuno partire facendo qualche riflessione in merito all'ambiguo e fantomatico concetto di "sicurezza". Ebbene, è presto detto: la "sicurezza" non esiste. È una chimera, un miraggio, una figura mitologica nell'olimpo dell'ingegneria applicata (che poi non vale forse la stessa cosa nella vita?). Non c'è niente di sicuro. Ciascuna applicazione tecnologica, rispetto al proprio ambito, ha il suo grado di insicurezza, ovvero la sua possibilità di fallire. Tutto quello che si può fare è minimizzarne il rischio, cosa che si traduce nell'abbassare il più possibile una probabilità statistica. E questo dovrebbe valere tanto più, quanto più il fallimento di una tecnologia si traduce in un pericolo (grave) per la vita e l'ambiente. Quindi diffidate di coloro che se ne vanno in giro a dire che la tale cosa «è sicura». Mentono. La sicurezza è un concetto compromissorio mediato dalla probabilità. Per esempio nei reattori di terza generazione, l'obiettivo in termini di sicurezza è avere un reattore che, secondo il calcolo teorico, presenti un guasto con un danneggiamento grave del nocciolo "meno di una volta ogni cento milioni di anni". Che magari per molti può essere considerato accettabile (e qui sta il compromesso), ma che non significa mai. E qual era il rischio statistico stimato per Chernobyl o per Fukushima? In che misura questi calcoli tenevano conto, oltre che delle possibili avarie tecniche dei componenti, di tutte quelle variabili non facili da valutare come errori umani o - appunto - eventi naturali catastrofici, o meglio ancora, la possibile concatenazione incidentale di tutti questi fattori?

/continua (domani)

martedì 22 marzo 2011

Sì, dai, telecomandami tutto... (finalmente un nuovo post sul sesso)

Che cos'è che fa sì che un individuo preferisca rinunciare a un mese di sesso col proprio partner (o dice di essere disposto a farlo in linea teorica), pur di restare depositario del telecomando di casa? Il succo della notizia di alcuni giorni fa è questo, premesso che la situazione varrebbe per circa il 25% degli intervistati e che non è detto che l'articolo di Repubblica non abbia semplificato un po' troppo, giusto per poter rientrare nel paradigma della notizia perfetta, ovvero del cane che morde l'uomo. Ma supponiamo, per amor di post, che le cose stiano così e proviamo a fare qualche considerazione a ruota libera.

La prima cosa che viene da pensare è che la televisione sia ormai diventata più desiderabile del sesso, ovvero che la televisione dia maggiori soddisfazioni psicologiche (fisiche non mi risulta che ne dia) rispetto all'attività sessuale, per lo meno dunque in termini di capacità di "intrattenimento". La seconda (che sembra la stessa cosa, ma non lo è) è che in generale il sesso sembrerebbe aver perso la sua attrattiva e quello che il sesso dava alle persone, può essere surrogato più facilmente dalla scatola magica, eliminando in un colpo la fatica, il sudore, il problema della posizione, dei peli nelle gambe e delle ascelle pezzate, l'ansia da prestazione e il rischio della delusione. Tuttavia a ben vedere il punto nodale della questione non coinvolge la televisione, bensì il telecomando. Dunque non si parla qui tanto della visione dei programmi televisivi (dunque non ci si riferisce a cosa si guarda), bensì esclusivamente dell'esercizio di un potere assoluto in merito a che cosa far mostrare alla televisione. E pertanto i discorsi cambiano un poco.

Se infatti consideriamo la faccenda, come fa lo studio, nell'ambito di una coppia, c'è un aspetto vagamente vessatorio in tutto questo, oserei dire sadomaso, giusto per mantenere il parallelo sessuale. Io (sia lui o lei, non importa) dispongo del telecomando e ti costringo a vedere quello che io voglio. E tu subisci (e soffri). Non c'è richiesta, non c'è compromesso, non c'è discussione, non c'è: «Preferisci vedere questo, o vedere quello?» e nemmeno «Oggi vediamo quello che voglio io, domani quello che vuoi tu». È la tirannia del palinsesto casalingo. E al godimento di vedere il programma desiderato, si aggiunge quello che nasce dalla sofferenza altrui. «Vuoi vedere la Champions? E invece ti cucchi Desperate Housewives! Tiè». O viceversa, naturalmente. Qui però il parallelo sadomaso in realtà si infrange, perché se da un lato si può concedere la possibilità all'esistenza di un sadismo televisivo, la controparte masochista è dura da immaginare (almeno per me).

Da questo punto di vista in effetti il quadro sembra difettare di realismo. Del resto lo studio (o per lo meno l'articolo di Repubblica) non specifica se c'è una prevalenza maschile o femminile in quel 25% di potenziali videodittatori, o da quanto stanno insieme le coppie in questione, ragion per cui per costoro il sesso potrebbe già essere entrato nel dimenticatoio per conto suo e il telecomando non costituire più un elemento competitivo, ma l'ultima (e unica) spiaggia. Naturalmente lo studio non considera la possibilità che nella casa esista più di una televisione, né che la coppia abbia la possibilità di registrare i programmi per poi vederli in differita. Dunque, in ultima analisi, se si applica la regola di Holmes (non John, quell'altro...) in base alla quale "Una volta eliminato l'impossibile, quello che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità", esiste una sola spiegazione che lo studio non dice, ma che risulta evidente.

Un intervistato su quattro ha l'amante.

giovedì 17 marzo 2011

Esercizi di ucronia risorgimentale

Che cosa sarebbe successo se quel giorno di 150 anni fa Sua Maestà Vittorio Emanuele II non avesse assunto il titolo di Re d'Italia "per sé e per i suoi successori"? Che cosa sarebbe successo se, invece di preparare armi e bagagli, quella sera del 4 maggio, Giuseppe se ne fosse andato a farsi un buon vino in un'osteria dell'angiporto della vecchia Genova? Per capire la portata di quello che si festeggia oggi, sarebbe forse un buon esercizio cercare di capire che cosa sarebbe potuto succedere, se le cose fossero andate diversamente.

Anche (o soprattutto) chi sventola fazzoletti verdi e sputa sul tricolore, dunque farebbe bene prima a chiedersi come sarebbe cambiata la storia intera dell'Italia, senza quella lunga catena di eventi che ha portato prima all'Unità e poi a quello che l'Italia è oggi. Considerato anche che in questo frattempo ci sono state due guerre mondiali devastanti che si sarebbero verificate ugualmente e che hanno toccato l'Italia da molto vicino, un ventennio di regime totalitario che ha portato di fatto a una guerra civile, un referendum monarchia/repubblica dai risvolti oscuri, dei periodi difficili come gli Anni di Piombo, ma anche dei tempi almeno apparentemente più fiduciosi come gli anni '60 e il Boom Economico (senza arrivare alla deriva estrema tra Tangentopoli e il Bunga-Bunga), ha senso anche solo pensare che le cose sarebbero andate per forza meglio? A prescindere dagli esiti territoriali che avrebbero potuto avere le guerre mondiali, e il Fascismo, che forse non ci sarebbe stato (e dunque forse sarebbe saltato anche il referendum), non possiamo sapere se ci sarebbero state analoghe Guerre d'Indipendenza o plebisciti che hanno portato il Nord sotto un'unica bandiera. Ma volendo divertirsi a immaginare un esito non dissimile si può pensare a un Nord, quello che oggi è del Bossi, del Cota e del Trota, sotto la monarchia dei Savoia. In questo caso il Re sarebbe oggi l'oltremodo stimabile Vittorio Emanuele IV e il suo successore al trono sarebbe il nobile Principe Emanuele Filiberto.

Ma ovviamente l'esercizio della fantasia ucronica ci autorizza a spingerci oltre. E se dunque in uno dei mondi possibili Vittorio Emanuele IV potrà passare alla storia come il re dei festini nella Palazzina di Caccia di Stupinigi, Emanuele Filiberto potrà essere ricordato per aver portato al successo la Sabaudianet, il network delle televisioni reali fondate dal padre lungimirante. Pertanto credo sia perlomeno una manifestazione di scarsa prospettiva storica (per non dire di idiozia bell'e buona), pensare che abbia un qualche senso criticare l'Unità d'Italia quale progenitrice dei mali nazionali di cui si è testimoni oggi. Perché i mali nazionali in realtà hanno origine dalla mentalità di quegli stessi italiani che alla fine del XIX secolo ancora dovevano essere fatti, giacché chi aveva gli occhi per vedere già si era accorto che erano ancora ben lungi da esserlo. E se oggi di fatti in giro in effetti ce ne sono parecchi, purtroppo non è nel senso che intendeva il D'Azeglio.

martedì 15 marzo 2011

Un inganno di rango

Questo che vedete è un esempio di pubblicità maliziosamente manipolatrice. Da qualche anno a questa parte, infatti, i produttori hanno trovato evidentemente molto vantaggioso dal punto di vista del marketing far doppiare i personaggi dei film di animazione ad attori famosi, in maniera da spacciarli per i protagonisti dei film e guadagnare un sacco in termini di pubblicità, tant'è che su IMDB e altrove, quelli che sono soltanto i doppiatori, sono ormai indicati come protagonisti, che non è esattamente la stessa cosa. I distributori ovviamente ci vanno a nozze, ma per lo meno per chi vede i film in lingua originale corrisponde in qualche modo al vero.

In Italia invece, patria del doppiaggio (non di rado disdicevole), naturalmente è quanto di più falso. Nella versione italiana di Rango, ovviamente di Johnny Depp non c'è neanche un pelo del suo bel pizzetto. Il doppiatore italiano di Rango si chiama Nanni Baldini, il quale - se andiamo a scavare - non è nemmeno il doppiatore tradizionale di Johnny Depp, che si chiama Fabio Boccanera. Quindi per certi versi la fregatura è duplice. Resta dunque l'intento - davvero ai limiti della legalità - di attirare l'attenzione dei potenziali spettatori con un nome noto, e l'insulto alla loro intelligenza che può pensare ci sia veramente Johnny Depp dietro quei begli occhioni verdi a palla.

Però almeno una consolazione c'è: non l'hanno fatto doppiare né a Checco Zalone, né a Roberto Benigni.

lunedì 14 marzo 2011

venerdì 11 marzo 2011

Apologia della privacy violata (ovvero ecco a voi il reality più peloso della storia)

Tutto ciò che è preso di nascosto ha un sapore più dolce. È qualcosa che ha a che fare con la delizia del furto. Il brivido di piacere dell'orecchio appoggiato contro la porta e captare bisbigli. L'emozione di essere scoperti e, nel contempo, quella di conoscere in via esclusiva un segreto rimasto finora inviolato, sconosciuto. Un segreto che potrebbe anche non esserci, ma si sa che al di là della porta chiusa, anche le cose più ordinarie diventano rivelazioni da togliere il fiato, mentre quelle più straordinarie sono capaci a volte di suscitare oltraggiosi ricatti, altre volte di avviare indagini giuridiche o, assai più raramente, come in questo caso, di riconciliare l'anima con il mondo. Del resto quante volte la porta ha i contorni di una tana?

C'è da dire che senza dubbio la tecnologia ha spazzato via il vecchio fascino dell'occhio dal buco della serratura, lasciandolo prerogativa infantile, ma ha permesso cose che fino a poco tempo fa erano impensabili. Come per esempio quella di sistemare una webcam all'ingresso della tana di un'orsa e permettere così di seguirla lungo tutto il suo letargo invernale. Dunque assistere mentre partorisce, accudisce i cuccioli, li nutre, li pulisce e gioca con loro. Se fosse un programma tv si potrebbe chiamare Il Grande Orsetto. È invece il caso dell'eccezionale attività di monitoraggio che il North American Bear Center ha avviato già dallo scorso inverno, quando l'orsa Lily partorì la piccola Hope. Quest'anno la situazione si è ripetuta e la popolazione della tana è ulteriormente aumentata e a Lily e Hope (che a un anno vive ancora con la mamma) si sono aggiunti due nuovi cuccioli, Jason e Faith.

Perché, forse l'avrete capito da altri post che avete visto passando di qui, noi marziani abbiamo un debole per i vostri orsi. Li troviamo molto più veri di voi (ma anche di noi) e ci capita, quasi a tradimento, di scoprirci a invidiarli. Per la totalità della loro indipendenza, per la loro prerogativa di essere veri oltre ogni possibilità, sia nelle manifestazioni di violenza selvaggia, sia in quelle di tenerezza estrema, per la loro opportunità di non doversi scontrare col compromesso e l'inganno, per la loro immunità alle manipolazioni, per la loro capacità di essere perfettamente liberi e dunque anche - forse - felici.

Senza contare che, proprio come noi marziani, non avendo proprio niente da nascondere, non sentono il bisogno di un ddl contro le intercettazioni o di una riforma epocale della giustizia.



[Nota #1: A dispetto delle facili compiacenze ruffiane che queste immagini straordinarie possono suscitare, questo post nasce come un appunto da mettere da parte e poter così ritrovare in qualunque momento, come una medicina contro lo stress, la presunzione, l'avidità, la frustrazione, la voglia di guardare la tv e il desiderio di un'automobile ultimo modello.]

[Nota #2: Se non avete tempo per guardare tutti i nove minuti e rotti, fate almeno un salto nei dintorni del minuto 5:30.]

martedì 8 marzo 2011

8 marzo: una nuova* preghiera laica

Per lui: Ti prego, maschio italiano, evita almeno quest'anno, di fare le tue solite figure di merda. Non comprare mimosa. O se proprio lo vuoi fare, fallo per dare qualche spicciolo a un immigrato clandestino. Ma sii coerente: non regalarla alle tue donne, siano esse madri, mogli, fidanzate, colleghe di lavoro, figlie, amanti, escort, nipotine di Mubārak o bambole gonfiabili. Ti prego, almeno una volta l'anno, non essere ipocrita. Per una volta evita di crogiolarti nell'illusione che un bel mazzo di mimosa possa infiorettare le tue mancanze di rispetto, le tue parolacce, le tue scortesie, i tuoi apprezzamenti con gli amici al bar, i tuoi calendari di GQ appesi nello stipetto in palestra, le tue foto piccanti nel computer, trasformando il tutto in venialità profumabili. La mimosa è pianta effimera e le sue piccole stelle, così belle e accese e fragranti, sono destinate a collidere in buchi neri al primo "non rompermi i coglioni", "questa pasta fa schifo!", "vuoi chiudere il becco?". E quindi, già che ci sei, evita - per carità - anche gli auguri.

Per lei: Ti prego, femmina italiana, evita almeno quest'anno, di lasciarti trascinare in uno dei quei locali di dubbio gusto con le lucine colorate, le bistecche di legno, le tequile a fiumi e quei tristi spettacolini tipo Full Monty de noantri, insieme con la tua cumpa di colleghe/amiche/sorelle, a simulare assatanamenti testosteronici che non sono propri della tua biologia endocrina e sono un insulto alla tua dignità e alla tua intelligenza. Come se l'affermazione della tua emancipazione e del tuo diritto al rispetto per la tua persona passassero attraverso un variegato catalogo di urletti nei confronti dei movimenti pelvici di una ciurma di pupazzoni unti d'olio dall'aspetto un po' gommoso come dei simbolici Big Jim: schiacci il tasto ed esce lo sfaccimm'. Ti prego, ti prego, ti prego: fammi continuare a credere che sei molto migliore di così, fammi continuare a illudere che sei almeno un po' migliore di lui.

Così sia.

[*Piccole variazioni alla preghiera dello scorso anno]

lunedì 7 marzo 2011

Chiare, fresche e dolci cosa?

C'è un'università che organizza il convegno "Petrarca tra Genova e Venezia". Roba per addetti ai lavori s'intende. Le cose fatte dalle università sono sempre un po' così. Studiosi certo, storici una manciata forse, studenti anche quelli, magari un po' di più, per lusingare il professore di turno. E pure qualche appassionato di storia della letteratura italiana, in giro si sarà fregato le mani. Ma non è che all'uomo della strada interessi granché il Petrarca, a meno che Madonna Laura non si riveli una via di mezzo tra Belèn Rodriguez e Lady Gaga. E questo è un dato.

Poi succede un altro fatto. Che uno dei massimi studiosi italiani del poeta di Arezzo si chiami Enrico Fenzi e in gioventù abbia fatto parte delle Brigate Rosse. Ora per farla breve, e correndo il rischio di semplificare troppo, costui ha militato nel gruppo terroristico e sfruttando il suo ruolo di docente di letteratura italiana presso l'Università di Genova in buona sostanza tentava di fare proseliti fra gli studenti per la causa terrorista. Siamo nella seconda metà degli anni '70. Nel '79 egli fu arrestato una prima volta, ma assolto per insufficienza di prove. Il 4 aprile dell'81 fu arrestato nuovamente e stavolta condannato, per cui alla fine si fece il carcere fino al 1985 e la libertà provvisoria fino al 1994. Poi uscì. Per la cronaca si dissociò dalla lotta armata nel 1982. E tutti questi sono altri dati.

Ora torniamo al convegno. L'università in questione, che poi è proprio quella di Genova, invita Fenzi a parlare sul Petrarca. E come succede in questi casi, tutto tace. Del resto, chi se le fila queste cose, se non i tipi di cui sopra? Poi a un certo punto la faccenda sale alla ribalta della cronaca e si alza un coro di sdegno e un'eco che rimbalza di proteste, di gente che si straccia le vesti, di anatemi. Cosa che è successa proprio qualche giorno fa. In prima linea c'è l'Associazione Italiana Vittime del Terrorismo che dice si tratta di un oltraggio ai caduti per mano delle Brigate Rosse. Scomoda anche le parole del Presidente Napolitano che il 9 maggio 2008, in occasione della Giorno della memoria delle vittime del terrorismo, disse:
"Chi abbia regolato i propri conti con la giustizia ha il diritto di reinserirsi nella società, ma con discrezione e mai dimenticando le sue responsabilità morali, anche se non più penali."
Ma non ci sono solo loro. A destra e a sinistra, si sentono prese di posizione contro la scelta di invitare Fenzi a parlare sul Petrarca.

Pur nella rispettosa consapevolezza che ci sono persone che in quella sciagurata stagione di violenza e di terrore hanno perso la vita, se si vuole considerare il concetto nudo e crudo di "giustizia" e si vuole pensare che la "giustizia" valga ancora qualcosa, ovvero che una persona possa - grazie alla "giustizia" - pagare i suoi conti con la società e rimetterla al pari con essa, allora resto disorientato di fronte a tali reazioni, così veementi da convincere gli organizzatori extrema ratio ad annullare del tutto il convegno. Del resto credo che ci si possa porre nei confronti della questione, senza dubbio molto spinosa e delicata, solo in due modi.

1) Fenzi ha pagato? Allora perché non lasciarlo lavorare e vivere la sua vita? Fare una lezione sul Petrarca in qualità di grande esperto in materia quale egli è, va a confliggere con le sue "responsabilità morali" o va in contrasto con la "discrezione" di cui parla il Presidente Napolitano? L'Aiviter sostiene che il convegno onorava Fenzi. Dunque chiedere a un esperto di tenere una lezione su un poeta del '300 significa onorare l'esperto? Il fatto che lui "salga (di nuovo) in cattedra" (come faceva ai tempi) a parlare a un convegno sul Petrarca offende la memoria delle vittime del terrorismo? Con tutto il rispetto per esse, la faccenda, nella sua petrarchità, ha un sapore paradossalmente strumentale che finisce per far confondere la giustizia con il perdono, il Canzoniere con l'oblio. Permettere a Fenzi di parlare in pubblico sul Petrarca non significa assolverlo dai suoi peccati, né dimenticare quello che ha fatto e le gravi responsabilità che ha avuto. Ma non permettergli di farlo significa ritenere che la giustizia non sia mai abbastanza e che ci sia sempre bisogno di qualcosa in più, qualcosa che, proprio per questo, perde i connotati di giustizia e diventa, se non uno strumento di vendetta, quanto meno una ritorsione senza fine.

2) Fenzi non ha pagato? Questa assomiglia molto all'idea che un individuo (Fenzi in questo caso diventa solo un esempio) in fin dei conti non possa mai ripianare i suoi conti con la società, nel momento in cui la pena che gli è stata comminata presto o tardi gli consente di ritornare a fare parte della società stessa. In effetti da quassù non sento mai dire che questo o quello hanno pagato abbastanza. Da questo punto di vista l'annullamento del convegno, è la prova del fallimento della giustizia stessa, se non quella dei tribunali, di certo quella delle coscienze. In tal caso forse sarebbe meglio che si mettessero al bando le ipocrisie e si andasse in giro a manifestare a favore della pena di morte.

venerdì 4 marzo 2011

Che cosa volete che sia, un culo...

Non lasciatevi ingannare dalle apparenze. Sapete che non sono come gli altri. E questa non è la solita furbata messa in atto solo per mostrare un culo acchiappacontatti. Perché da qualche giorno a questa parte col mio telescopio ho visto popolarsi le vostre città di questi manifesti pubblicitari del marchio di abbigliamento Silvian Heach, che peraltro ora stanno anche scomparendo con altrettanta solerzia, sotto la pressione di un'indignazione diffusa. Siccome la pubblicità non è solo la anima cinica e bieca del commercio, ma anche lo specchio di una società in perenne mutamento, vorrei provare ad analizzare brevemente la faccenda dalle due prospettive più ovvie: quella morale (ovvero è lecito mostrare pubblicamente una roba del genere?) e quella tecnica (ovvero a cosa/chi giova una pubblicità di questo tipo?), tenendo peraltro conto del fatto che i due aspetti sono facce di una medesima medaglia. Vediamo.

Quello più eclatante è senza dubbio l'aspetto morale, difatti il manifesto ha sollevato un po' ovunque cori di proteste. Perciò è da qui che voglio partire, perché limitarsi a liquidare la faccenda con: «Il manifesto è osceno» mi pare semplificare troppo. Se dunque consideriamo l'aspetto etico ci troviamo subito di fronte al dilemma di dover stabilire un confine tra quello che si può fare e quello che non si può fare, quello che offende e quello che non offende, quello che si può mostrare e quello che non si può mostrare. Il famoso "senso del pudore". In altre parole dovremmo chiederci se l'immagine è volgare o no nel 2011 e, se lo è, soprattutto perché lo è. Allora guardiamola e analizziamola senza farci condizionare dalle chiappe al vento. Dunque... la ragazza è all'aperto, in piedi contro il parapetto di quello che sembra un ponte, è sola, voltata di schiena, si tira su la gonna mostrando il fondoschiena e ammicca senza esitazioni verso l'obiettivo del fotografo, ovvero verso lo sguardo di chi la sta osservando.

E questo già ci fa notare almeno due cose: 1) che l'immagine, nonostante il contesto reale, è del tutto inverosimile e 2) che c'è una specie di compiacimento esibizionista e provocatorio nell'atteggiamento della ragazza. Ora, la considerazione (1) dovrebbe portarci alla conclusione che l'immagine contenga una specie di messaggio che va oltre quello che si vede, come un sottotesto subliminale, mentre la (2) dovrebbe portarci a chiederci a chi pensiamo si stia rivolgendo la ragazza. Inutile dire che la mancanza delle mutande è un'informazione precisa che porta istintivamente a pensare che la tipa si stia rivolgendo a un maschio, e non a una femmina. E questo a ben vedere appare curioso, perché non dimentichiamo che si tratta di una pubblicità di una linea di abbigliamento femminile e dunque dovrebbe essere indirizzata innanzitutto a donne. Eppure la superficie dell'immagine ha una connotazione fortemente maschilista e questo sembrerebbe andare contro quello che dovrebbe essere lo scopo dell'immagine stessa.

Proviamo allora ad andare più in profondità e vediamo se ne esce un'interpretazione diversa. In fondo l'immagine non sta pubblicizzando l'indumento che la ragazza indossa. Fatta eccezione la scollatura sulla schiena, il resto del vestito potrebbe essere fatto in qualsiasi modo. Se vi capitasse di vederlo appeso in un negozio dubito che riuscireste a riconoscerlo. Dunque, viene da pensare che non sia questo lo scopo principale della foto. L'immagine infatti concentra l'attenzione sulla carica erotica della ragazza che prescinde dalla qualità del taglio o del modello che indossa. Della ragazza si vedono le gambe e il culo nudi, dunque il vestito non esalta, né migliora in alcun modo le sue forme, né, più in generale, valorizza il suo look. Tutto il messaggio della rappresentazione visiva è connaturato esclusivamente a quello che la ragazza fa, non a quello che indossa.

Quindi a questo punto gli elementi distintivi sembrano rovesciarsi, perché sembra che il messaggio del manifesto non sia il più logico, ovvero: "Mettiti il nostro vestito, e sarai una gran fica!", ma piuttosto "Sei un'esibizionista come lei? Allora mettiti il nostro vestito!". In altre parole l'atteggiamento della ragazza non sollecita il desiderio e la risoluzione di esso attraverso l'acquisto, ma semplicemente fissa il target del prodotto. Quelle lì sono le donne cui il marchio Silvian Heach si rivolge. Donne che non hanno paura a mostrarsi. Donne fiere del loro corpo. Donne che sanno (e sono disposte a) prendere in mano la situazione.
Donne pronte a dare il culo.

Visto da questa prospettiva il manifesto parla proprio a quel tipo di donna contro cui le donne hanno idealmente manifestato il 13 febbraio scorso. Per questo motivo, e non tanto per il culo in sé, è volgare e svilente nei confronti della donna. Per questo sarebbe naturale che finisse per essere controproducente per chi l'ha realizzato. E se così non sarà, potete stare certi che la colpa non sarà di quella esigua minoranza di uomini (idioti) che avranno deciso di scegliere Silvian Heach per il prossimo regalo alle loro compagne, solo per crogiolarsi non tanto nell'illusione dell'estetica, quanto piuttosto in quella della disponibilità.

giovedì 3 marzo 2011

martedì 1 marzo 2011

Un Oscar senza Grinta

I pregiudizi non sono solo negativi. Possono anche essere positivi. Anzi, quelli positivi forse sono più pericolosi perché più difficili da smascherare, essendo spesso più frutto della buona fede di chi li esprime rispetto agli altri. E, non so voi, ma ho la netta impressione che sia stato questo il caso. Mi riferisco, l'avrete capito, alle innumerevoli recensioni de Il Grinta che mi è capitato di leggere in giro, su Internet, ma non solo. Film che di nomination all'Oscar ne ha raggranellate ben 10, ma di statuette a casa neanche una, e lasciate che vi anticipi, secondo me con pieno merito. Perché tutta la grinta de Il Grinta finisce per esaurirsi alle battute di una ragazzina e alla benda sbandata di un cow-drugo con la faccia di Jeff Bridges.

C'è da dire che di questo film della premiata ditta Coen&Coen&Bridges in giro si leggono magnificenze su magnificenze, a senso unico, un'unica voce di appassionate approvazioni e, per certi aspetti, le nomination all'Oscar sembravano confermare l'entusiasmo. Dunque sono andato a vederlo - ammetto - con un bel fardello di aspettative, che senza dubbio può nuocere, ma tant'è quello che mi è venuto da dire alla fine è stato: «Tutto qui?» Certo, non fraintendetemi, la pellicola è girata ottimamente e gli interpreti sono ben all'altezza. Ma quando le luci si riaccendono, ti vien da dire: «Embè?» Dove sono i Coen? O meglio: c'era bisogno dei Coen? In altre parole: che cosa hanno aggiunto i Coen a questa pellicola? Che poi significa: dov'è la loro cifra stilistica?

Naturalmente, un'opinione fa sempre il bilancio tra il preventivo e il consuntivo, rispetto a una pesa che peraltro non può che essere del tutto soggettiva. Ma in questo caso ho la netta sensazione che la reunion dall'intenso sapore lebowskiano abbia mandato un po' di cuori fuori giri e sul piatto delle opinioni ci sia finito qualche piccolo peso targato "nostalgia" che, in un certo senso, ha pre-cultizzato il film e ha fatto partorire dei giudizi appassionati per una pellicola che non è niente più di un buon film western, esteticamente molto bello, ma che tutto sommato resta freddino, rimanendo comunque sotto di qualche spanna rispetto a western moderni di stampo classico come Silverado di Kasdan, Gli Spietati di Eastwood o Quel treno per Yuma di Mangold. La sensazione mia, insomma, è che qui i Coen abbiano pagato dazio verso una storia che non era una loro storia, una storia che non appartiene alle loro corde, un mondo che non appartiene al loro mondo (forse anche un genere che non appartiene al loro genere), ma che la loro mitologia ormai universalmente consacrata abbia - stavolta a torto - preceduto loro e dunque tratto in inganno molti. E i risultati degli Academy Awards hanno finito per confermarlo, lasciando tutta la truppa a bocca asciutta come un serpente a sonagli nel bel mezzo alla Death Valley.


Riguardo poi agli Oscar, vi dirò il mio parere, per quello che vale. Tenendo conto che della decina ne ho visti sei, ovvero Inception, Il discorso del re, The Social Network, Toy Story 3, Il Grinta e Winter's Bone, penso che abbia meritato più Colin Firth che Il discorso del re, film peraltro intenso ed emozionante a dispetto di un soggetto non certo avvincente. E se su Il cigno nero non mi posso pronunciare, non avendolo ancora visto, forse il film da premiare più d'ogni altro, sommando soggetto, storia, regia e interpreti, a mio avviso sarebbe stato Winter's Bone. Ma certe sporcizie dell'America forse è meglio lasciarle sotto il tappeto.

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