Punti di vista da un altro pianeta

martedì 24 luglio 2012

venerdì 20 luglio 2012

Sogni d'interdipendenza, utopie di lungimiranza

Pensarsi interdipendenti: il (bel) concetto si è imposto almeno due volte, con una certa intensità, dalle piccole (ma interessanti) discussioni che sono nate durante questa breve serie di post legati alla decrescita, all'ecologia, al mondo che dovremmo auspicarci, ovvero per cui dovremmo batterci, e al Festival del Paesaggio Agrario che comincia oggi, con il suo orizzonte verde di ambizioni e speranze. Appare dunque abbastanza evidente a tutti (o no?) che si tratti di una condizione (mentale) necessaria, una sorta di punto di partenza prospettico indispensabile.

Tuttavia, come osservò giustamente SPB, questo stato d'animo "implica accettare di dipendere da qualcuno e che qualcuno dipenda da te, accettare di influenzare e di essere influenzato, accettare di subire le conseguenze di un'azione altrui e di essere causa di conseguenze per altri. Implica, in una parola, la presa di coscienza che non sei solo, nel bene e nel male. E che ciò che fai si riflette, modifica, interagisce con il resto." E questo - ribadisco io - corrisponde in maniera prepotente a una visione olistica che dovremmo avere non solo rispetto all'universo in termini fisici, ma anche alla società in cui gli individui vivono e alle sue componenti in relazione tra loro.

"Ma qual è", continua SPB, "la spinta che ti può portare ad accettare, a cercare, a perseguire il bene tuo e CONTEMPORANEAMENTE quello dell'altro? A non muoverti solo per il tuo, di risultato, ma a muoverti per una condivisione, affinché - e nella misura in cui - il risultato sia utile a te e pure all'altro?" Di sicuro la risposta alla domanda in questione può valere, da sola, l'intero futuro dell'umanità.

E Fulvio the Cat in qualche modo ha provato a dare una risposta quando qualche giorno dopo ha detto: "Ma non sarà che la coscienza civile, e in generale la consapevolezza che 'siamo tutti sulla stessa barca', e quindi la solidarietà e la collaborazione alla lunga danno risultati migliori dell'individualismo, sono un meme positivo che si propaga per contatto, soprattutto sociale? Voglio dire: la televisione ci allontana, promuove l'individualismo e il meme tossico del primeggiare a tutti i costi. La rinascita delle comunità, reali o virtuali, dovrebbe essere una sorta di antidoto."

E si vede che Fulvio è un ottimista. D'altro canto, se siete pessimisti, potreste pensare di rispondere: "Nessuna, non esiste". Oppure se siete giusto un po' meno pessimisti, potreste azzardare un: "Solo una crisi di proporzioni tali da promuovere la maturazione di una forte istanza condivisa che, messa in pratica in termini di solidarietà, possa consentirci, in qualche modo, di salvarci". Quello che voglio invece osservare io, a proposito di questo cambio di mentalità che oggi risulta comunque necessario intraprendere, ma prima ancora, interiorizzare (e anche il più velocemente possibile) e che è emerso, a parer mio, tra le righe delle considerazioni fatte, è questo: ma è proprio necessario vedersi interdipendenti per salvarsi il futuro?

In altre parole, invece di cambiare (stravolgere) la "prospettiva relazionale", che a parer mio è molto difficile, non potrebbe forse essere sufficiente il cambio della "prospettiva temporale"? Voglio dire, non potrebbe essere sufficiente pensare che gli effetti delle decisioni di stamane avranno effetto non solo sulla nostra vita di stasera e di domani, ma anche su quella del prossimo anno o dei prossimi dieci, venti, cinquant'anni? Perché spesso sento sbandierare la retorica su quale accidenti di mondo lasceremo ai nostri figli o ai nostri nipoti. Eppure a me pare che l'Uomo non riesca nemmeno a fare delle scelte a beneficio del mondo che verrà, per lui stesso, tra soli sei mesi. L'Uomo, invece, pensa (sempre e solo) all'adesso, forse perché è l'unica cosa che - davvero - esiste, visto che il passato ormai non c'è più e il futuro ancora non c'è stato. Ma finché sarà così, nessun cambiamento (consapevole e voluto) sarà mai possibile. Nessuna rivoluzione (pacifica) potrà mai essere intrapresa.

/fine (per ora)

[Credit: il quadro in alto è di Elena Puca]

mercoledì 18 luglio 2012

Detrattori della Decrescita, andate a quel paese!

Tu parli di Decrescita e per uno che annuisce ce ne sono almeno cinque o sei che storcono il naso e uno, il più fesso di tutti, che ride. Non so se le percentuali sono queste, ma quando mi è capitato di accennare il discorso su forum o altrove, mi sono accorto che per lo più la gente non è pronta ad accettare questo nuovo paradigma e fa di tutto per aggrapparsi al (bellissimo) status quo, cercando di dimostrare che sono tutte palle. Le argomentazioni in genere sono due. La prima è quella che sì, è vero che le risorse non sono infinite, però basta "controllare" la crescita in modo da non esagerare, non sprecare, ottimizzare, avere maggiore onestà nell'amministrazione di pubblico e privato eccetera eccetera. Peccato che tutte queste (belle) cose vadano in conflitto con il dio-profitto e i suoi angioletti di Wall Street. Ma in fondo questo è solo un dettaglio. La seconda è quella degli esperti, secondo i quali non è vero che le risorse sono limitate perché il pianeta viene continuamente rifornito di energia dal Sole, dunque, almeno finché il Sole splenderà, sulla Terra si troverà comunque qualche modo per estrarre risorse utili alla Crescita continua.

Ora, se ce qualcuno tra voi che ha voglia di spiegarmi meglio il concetto, gliene sarei grato. Dal canto mio mi pare che questo ragionamento faccia acqua da tutte le parti, semplicemente perché - e qui non mi invento niente - (1) l'energia che riceviamo dal Sole è sotto una determinata forma (radiazione) e l'equivalenza relativistica massa-energia non è utilizzabile a nostro completo piacimento, come per esempio nei replicatori di Star Trek, per intendersi, dove puoi creare qualsiasi cosa materiale utilizzando pura energia immagazzinata da qualche parte e (2) certe risorse non vengono comunque reintegrate o, se anche sussistessero le condizioni per esserlo, avrebbero tempi di reintegrazione di gran lunga superiori ai tempi umani di consumo delle medesime. Basti pensare a quello che sta succedendo con gli idrocarburi (per altre analisi a riguardo vi rimando, se volete, al Libretto Verde).

Quindi? Quindi, per farla breve, rassegnatevi al fatto che la Decrescita è qualcosa con cui nel medio o lungo periodo l'umanità sarà - volente o nolente (e proprio qui sta il punto cruciale) - costretta a confrontarsi, qualcosa di inevitabile e di necessario per sopravvivere, perché è altrettanto inevitabile e necessario che l'entropia aumenti, che l'energia si degradi e che il vostro frigorifero, per raffreddare la vostra birra, debba essere collegato alla presa di corrente. Funziona esattamente allo stesso modo anche su Marte. Capisco che si tratti di una sorta di lutto da elaborare per moltissimi di voi, e che non sia per niente facile adattarsi a questa nuova prospettiva, ma che ci vogliate credere o no, la festa sta finendo, i palloncini si stanno raggrinzendo, i festoni sono già andati da un pezzo e nella tinozza del punch galleggiano un reggiseno, un paio di boxer e un preservativo usato. Così a questo punto c'è (assoluto) bisogno di qualcuno che abbia voglia di sporcarsi le mani per mettere a posto il casino. Eppure non vedo tutte queste mani alzate.

/continua

lunedì 16 luglio 2012

Biologicamente mangiando

Che si debba spendere di più per gli alimenti naturali è qualcosa che ha del surreale. Fermo restando che, in qualità di consumatori, è difficile (impossibile?) stabilire il grado di biologicità di un prodotto naturale, come pure il livello di artificiosità di un prodotto industriale, vista dall'altra prospettiva è altrettanto surreale che si preferisca spendere meno per degli alimenti non naturali, ovvero più o meno pesantemente industrializzati. Anche questo dà la misura di come oramai il sistema ci abbia assuefatti a ritenere auspicabile la diminuzione di prezzo di un prodotto, a discapito della relativa diminuzione della sua qualità. E questo anche perfino rispetto alla considerazione che si tratta di prodotti alimentari, dunque che ingeriamo e metabolizziamo, con tutti i rischi per la salute a medio e lungo termine, spesso sconosciuti o addirittura inconoscibili (ed è proprio all'interno di questo territorio oscuro che il sistema pascola indisturbato). Senza contare che la produzione di tipo industriale ha bisogno di elevate quantità produttive per mantenere i prezzi concorrenziali, anche a discapito degli enormi e inevitabili sprechi che comporta.

Eppure quello del "biologico" e del "naturale" è un business in crescita. Forse il solo. Quelle di prodotti naturali sono forse le uniche categorie di negozi che si vedono fiorire, a fronte di tante altre che la crisi sta mettendo in ginocchio. E su questo mi vengono spontanee due osservazioni. La prima è l'impressione (che però non riesco a focalizzare, aiutatemi voi) in base alla quale nel ragionamento c'è di mezzo un ossimoro intrinseco, ovvero: può un "business" essere (davvero) "naturale"? La seconda invece è: "perché" questo business è in crescita? La terza (sì lo so, avevo detto due, ma nel frattempo me n'è venuta in mente un'altra) è: ha senso che (o che senso ha che) questo business sia in crescita? Ebbene, se la prima domanda - come dicevo - la lascio a voi, alla seconda mi verrebbe da rispondere: perché la gente cerca di tutelare la propria salute mangiando cose (che ritiene in qualche modo) più sane. Ma il punto è un altro. Quando mai i prodotti "non naturali" hanno dimostrato la loro pericolosità al punto da deciderne l'abbandono? Okay okay, sappiamo che a volte sono salite alla ribalta delle sofisticazioni, anche gravi, tipo il tristemente celebre vino al metanolo o le recenti mozzarelle blu, senza contare tutto il problema legato agli OGM, ma chi può veramente dire in che misura possano nuocere i prodotti industriali in condizioni normali?

La mia idea è che invece la gente tenda ad avere una certa voglia di Natura, ma che ne cerchi una sorta di surrogato liofilizzato, ovvero comodo. In altre parole, se volessi dei prodotti (davvero) naturali, te li dovresti coltivare o dovresti comprarli direttamente da un produttore di fiducia. Per il resto, ovvero per tutto quanto esiste di (pre)confezionato anche cosiddetto naturale, che so pasta, biscotti, pane, eccetera, se volessi dei prodotti il più possibile naturali, dovresti farteli in autonomia a partire il più possibile dalle materie prime. E sotto questo aspetto mi pare evidente che questa prospettiva dovrebbe stravolgere completamente le modalità di gestione di una famiglia, in termini di impegni e (soprattutto) tempi dedicati a certe faccende piuttosto che ad altre. Insomma, anche in questo caso mi pare si finisca nei territori della (pura) filosofia, ovvero a discutere di quale dovrebbe essere il modo (più giusto) di vedere il mondo e il proprio stile di vita all'interno di esso.

Infine l'ultima domanda: il fatto che questo business sia in crescita cosa ci dice? Che la gente ha sempre più voglia di cose naturali? O che la gente ha sempre più paura delle cose artificiali? Stiamo dunque forse assistendo a una perdita progressiva di fiducia da parte del pubblico (anche) nelle capacità industriali di fornire prodotti alimentari che possano essere considerati sani (sani in senso lato)? E se invece anche al mercato degli alimenti naturali si debba applicare il modello base del business, ovvero che per essere tale e sostenersi ha sempre e comunque bisogno di creare nella platea di consumatori un bisogno più grande di quanto quel bisogno non sia in realtà?

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sabato 14 luglio 2012

Che cosa c'entra questo con...

Quello che potete vedere qui sotto è il cortometraggio che nel 1989 vinse l'Oscar nella categoria Miglior Cortometraggio Animato.



Giusto a proposito della crisi, dei conflitti, della politica, dei minuetti che vediamo da mesi ballare a Bruxelles in punta di spread, della decrescita (ovvero della sua negazione) e di tutti i discorsi che stiamo facendo in questi giorni riguardo gli argomenti correlati al Festival del Paesaggio Agrario e della mentalità di fondo dell'essere umano, ovvero della fattiva dominanza del suo antico cervello rettiliano.

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venerdì 13 luglio 2012

Una volta, qui, era tutta città

Ci fu un'epoca, non molto tempo addietro, in cui si assistette a una specie di migrazione di massa: dalle campagne alle città. Perché la città era una terra promessa, la città era una cornucopia delle possibilità, foriera di ricchezze, di comodità e di cose mai viste. La città era un orizzonte di modernità e progresso. E modernità e progresso erano l'industria. L'industria era il lavoro. Il lavoro era la crescita. La crescita era la sicurezza. Andare in città significava (credere di) andare incontro al futuro con una speranza nuova, che era quasi una certezza, che quel futuro sarebbe stato meglio del passato, ovvero che i figli avrebbero potuto godere di una vita migliore di quella dei loro genitori. E la crescita è diventata la Crescita.

Per contro oggi sembra (proprio) che le cose non stiano più così. E per la prima volta da un secolo a questa parte, ma anche forse nell'intera storia dell'Uomo, quando in epoca pre-industriale alla meglio i figli stavano né più né meno come i loro genitori (epidemie e guerre e razzie a parte), i figli finiranno per stare peggio dei loro genitori. E se non accadrà ai figli, potete giurare che toccherà ai nipoti. Perché la Crescita è una bella favola con cui hanno voluto drogarci, essendo essa il carburante inebriante di un sistema (quello capitalista ultraliberista) che brucia la candela da due parti, una favola che non ha un lieto fine, non potendo essere protratta all'infinito per le semplici leggi della fisica, ma che come ogni favola ha una morale finale. E le morali fanno sempre male, perché ti sbattono in faccia i tuoi limiti.

Non credo dunque sia un caso che (proprio) adesso la città non abbia più tutta quell'attrazione di un tempo e che, complici le tecnologie informatiche che possono tenerci aggiornati e in contatto anche da posti decentrati, la campagna e con essa il paesaggio agrario (e il Festival che stiamo promuovendo in questi giorni è solo un piccolo esempio) stiano riconquistando in classifica posizioni che avevano perduto, catalizzando una lenta, ma significativa contromigrazione, che contribuisca a cercare di ripristinare quell'equilibrio con la Natura che il miraggio del progresso e della tecnologia (della Crescita) ci hanno fatto smarrire. Forse, per lo meno nel medio-lungo periodo, è l'unica àncora di salvezza cui possiamo sperare di aggrapparci.

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lunedì 9 luglio 2012

Ambiente: il paradosso della cintura di sicurezza

Una delle più grandi conquiste ecologiche degli ultimi anni, ancorché non si possa dire raggiunta, ma senza dubbio a buon punto, a mio avviso è quella del riciclo. Riciclare gli oggetti, carta, vetro, plastica e alluminio, come pure l'organico, è un gesto semplice e facile da portare a termine, soprattutto da quando la raccolta viene eseguita in maniera capillare (ovvero i bidoni per lo più vengono a te e non viceversa). Eppure, se da una parte c'è moltissima gente che pratica quotidianamente questo gesto di civiltà, ce n'è ancora una moltitudine altrettanto nutrita che se ne sbatte, la ritiene una stupidaggine inutile, una insulsa perdita di tempo, dover pensare a dividere di qua e di là, dover tenere in casa un sacchetto per ogni categoria di materiali, cercare di capire se questa cosa qui, che sembra plastica, è davvero riciclabile o no, e - insomma - non lo fa. Ebbene, di questa reazione non mi interessa il giudizio morale che lascio a voi, mi interessa osservarne la componente mentale.

In altre parole, benché un gesto come il riciclaggio - se eseguito coralmente - possa servire per migliorare la vita della collettività, chi si ostina a non farlo dimostra sostanzialmente due cose. La prima è che la sensibilizzazione all'ecologia è faccenda assai più difficile di quanto non si possa pensare. La seconda è che l'animale-uomo, a meno di non essere minacciato fisicamente, per esempio da un'arma puntata contro di lui o da una malattia incombente, ovvero da un "pericolo" imminente, da qualcosa che gli può fare male e di cui egli si può rendere conto in prima persona, tende sempre e comunque a sottovalutare la percezione della propria rovina o del rischio che corre, soprattutto quando si tratta di qualcosa che non è immediato, ma che è solo la prospettiva più o meno remota di una minaccia che si manifesta come conseguenza progressiva della reiterazione di un comportamento disdicevole.

Pensate allora alle cinture di sicurezza nelle auto. Per convincere gli italiani ad averle ma, soprattutto, a usarle, è stata necessaria l'approvazione di una legge apposita e dunque l'istituzione di una multa collegata all'infrazione di quella medesima legge. Così il pericolo che corre, e che convince l'italiano a usare le cinture, non è più quello del tutto ipotetico di spargere il proprio cervello in mezzo a due carreggiate dell'autostrada dopo essersi fracassato la testa contro il parabrezza, bensì quello ben più reale di prendere la multa.

L'interpretazione alternativa sarebbe quella che l'italiano medio consideri prendere la multa come una situazione maggiormente disdicevole rispetto ad avere la testa ridotta in poltiglia, ovvero che la propria testa abbia un valore medio minore di quello della multa (cosa che peraltro è spesso vero). Si può dunque ritenere che i comportamenti ecologici, per avere successo, debbano passare per forza da una gestione "volontaria" a una gestione "obbligatoria"? In tal caso una gestione obbligatoria avrebbe la necessità di una legislazione adeguata e un adeguato livello di monitoraggio della sua effettiva applicazione, cosa che nel caso dei rifiuti è decisamente più difficile di un posto di blocco della Polizia Stradale.

Ecco perché difficilmente tutta la faccenda, in termini ecologici, potrebbe funzionare e perché, come in un labirinto molto difficile, ci accorgiamo di avere girato in tondo e di esserci ritrovati di fronte al problema della volta scorsa, ovvero alla necessità di sviluppare una sensibilità che faccia sì che i comportamenti ecologici - a partire da quelli più semplici come il riciclo, a quelli più complessi come, per dire, la permacultura - diventino "naturali", ovvero parti integranti del nostro modo di vivere, talmente integrate nel nostro comportamento da adottarli non tanto perché siamo giunti al punto che è necessario tutelare l'ambiente, ma perché, semplicemente, è così che è giusto e normale fare.

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mercoledì 4 luglio 2012

Di crisi, futuro, ecologia e altre quisquilie

Sono sempre più convinto che sia necessario osservare e agire sulla realtà che ci circonda, quella fatta di spread che non diminuisce, disoccupazione che aumenta, crescita che non c'è, energia sempre più costosa, rifiuti da smaltire, sprechi (non solo) alimentari, disparità estreme tra paesi ricchi e paesi poveri, nord e sud, conflitti internazionali, sfruttamento della manodopera, inquinamenti assortiti e continuate pure finché vi pare... in un modo diverso, come se tutte queste facessero parte di un unico immenso mosaico che acquista un senso solo se osservato molto dall'alto, un mosaico i cui contorni ci parlano di un'esistenza umana migliore. In altre parole, credo che la situazione attuale dovrebbe convincere tutti che bisogna pensare a se stessi e al mondo in maniera sempre più olistica, ovvero attraverso un concetto di integrazione in un sistema globale interdipendente in cui il futuro di ciascuno, ovvero la qualità di esso, dipende da quello di tutti gli altri e solo un perseguimento condiviso può condurre a un miglioramento globale delle condizioni di vita di tutti.

Del resto va osservato che questo è un assunto che non ha bisogno di connotazioni religiose. Non serve un paradigma: "Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te" o "Ama il prossimo tuo come te stesso". Ma nemmeno andare a infilarsi nel ginepraio di qualche evanescente disciplina New Age. Basta invece la fisica. La pura, nuda, asettica, ma solida fisica, in base alla quale, già nel 1893 affermava tramite Ernst Mach, il Principio in base al quale:

«L'inerzia di ogni sistema è il risultato dell'interazione del sistema stesso con il resto dell'universo.
In altre parole, ogni particella presente nel cosmo ha influenza su ogni altra particella.»

Dopodiché Relatività Generale e Meccanica Quantistica, con tutte le loro conseguenze, non fecero altro che confermare il concetto in maniera sempre meno teorica e sempre più sperimentale, sia nell'macrocosmo, che nel microcosmo.

Naturalmente questa visione si scontra (e violentemente!) con le esigenze private, i personalismi, gli orgogli, gli egoismi, le meschinità, i limiti e tutto quel variegato campionario di prerogative che estraggono l'essere umano dal tessuto connettivo dell'universo e lo illudono di essere un singolo individuo, bastante a se stesso, in cerca di continua autoaffermazione e in eterna competizione con la natura e i propri simili, ovvero, in altre parole, con il mondo intero. È dunque evidente che un qualche tipo di cambiamento, qualsiasi esso sia, per nascere, deve cominciare dall'inversione di questa prospettiva, ovvero da una modifica percettiva di ciascuno rispetto alle proprie relazioni con ciò che lo circonda e alle conseguenze che esse hanno nei confronti di tutto il resto.

Per questo motivo ho colto molto volentieri l'invito degli organizzatori della quarta edizione del Festival del Paesaggio Agrario che si svolgerà i prossimi 20, 21 e 22 luglio nella zona dell'astigiano (qui il programma) a ritornare a parlare un po' di questi argomenti, già toccati qualche mese fa a ridosso dell'uscita del Libretto Verde. Perché un (continuo) movimento di pensiero e discussione è fondamentale essendo il solo modo da cui può scaturire un futuro degno di questo nome, facendoci maturare quell'unica, nuova, sensibilità che - da sola - può salvarci la vita e che, per questo, non dobbiamo mai eliminare dal nostro orizzonte.

Perché questa è una guerra che si può vincere, ma soltanto tutti insieme.

/continua

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