Punti di vista da un altro pianeta

lunedì 31 ottobre 2011

Figli di noia

Poi è facile che in questo periodo ti capiti di parlare della crisi. Tipo qualche giorno fa, al lavoro, con alcuni colleghi (ci sono testimoni pronti a giurarlo). Parte tutto da una trattativa in corso per dei nuovi contratti collettivi. I sindacati ti hanno anche dato il classico volantino con le tabelle. Si parla di una proposta di aumenti di una manciata di decine di euro spalmati su tre anni. E mentre - manco a dirlo - commentate disincantati la sostanziale irrisorietà dell'incremento degli stipendi, tu butti lì (apposta) un piccolo sasso nello stagno: «Invece di aumentarci lo stipendio, potrebbero diminuirci le ore di lavoro». Al che tutti smettono di parlare e tu vieni guardato dai colleghi come se fossi un marziano, cosa che, date le circostanze, potrebbe anche essere considerato un complimento.

La statistica suggerisce la probabilità che in quel frangente di colleghi ce ne fossero un po' di tutte le età, vicino a te, giovanissimi neolaureati, di quelli che magari vivono ancora coi genitori, meno giovani, sposati da poco, alcuni con figli piccoli che la notte li fanno andare fuori di zucca, e impiegati - chiamiamoli - "maturi", di quelli che non vedono ancora il traguardo della pensione, ma che sono ormai fuori dalle logiche dei pannolini o della discoteca, uomini potenzialmente tranquilli, insomma. Eppure tutti, giovani, vecchi, uomini, donne, invariabilmente tutti quanti, ti guardano e fanno segno di no con la testa. «Figurati!» dice uno. Lo sguardo al marziano di poco fa è diventato l'espressione che si riserva a uno che non capisce un cazzo, la qual cosa in effetti non esclude la prima. «No, no!» esclama un'altra, quasi con il terrore che le tue parole possano essere prese sul serio da qualcuno. «E poi cosa cazzo faccio se rimango a casa?» aggiunge un terzo, sgomento. «Spendo!» si risponde da solo un istante dopo, dando voce al traguardo di un ragionamento tutto suo. «Eh sì» annuisce quella di prima. «Se stai a casa, cosa fai?» alza le spalle, «finisce che vai a farti un giro al Centro Commerciale...» e da lì a tirare fuori il bancomat per portarti a casa qualcosa che non ti serve, anzi, di cui fino a mezzo minuto fa non sapevi neanche l'esistenza, non è niente di più di un battito di farfalla che vola di fronte alla borsa di Hong Kong.

Dice eloquentemente Paolo Cacciari nel suo Pensare la decrescita:
"[il lavoratore si riduce a essere un] biodigestore che metabolizza il salario con le merci e le merci con il salario, transitando dalla fabbrica all'ipermercato e dall'ipermercato alla fabbrica."
E non è forse questa l'altra faccia dello stesso perverso circuito di (dis)valori responsabile, nei contesti finanziari, della dipendenza dal profitto a tutti i costi come (unica) virtù da perseguire, e tutto il resto intorno a fare da semplice accidente collaterale, quando non ostacolo da cercare di rimuovere a qualunque prezzo? Vivere-per-essere-ricchi e vivere-per-comprare sono due aspetti complementari di realizzazione individuale nell'avere. Solo che in questo caso la spirale è - se possibile - tremendamente più triste e prosaica e, per questo, tragica, perché testimoniata da individui che, pur subendola in toto, l'hanno fatta propria come normale (anzi ovvio) stile di vita, abituale modo di essere e di vedere le cose, anzi addirittura l'unico possibile, in quanto nella loro prospettiva non ha alcun senso prendere in considerazione alcunché di diverso, tipo sedersi e provare piacere dal leggere un libro, realizzare un lavoro a maglia, dipingere in riva al mare, fare del bricolage, giardinaggio, trekking, piuttosto che dal sentire il brivido del rumore della strisciata di una carta di credito o dall'accarezzare con lo sguardo la pendenza positiva del grafico dei guadagni dell'ultima speculazione in borsa che hai fatto.

La percezione del tempo libero dunque non è (più) vista come un'inestimabile ricchezza a credito dell'individuo in quanto fonte di arricchimento e di potenziale realizzazione sociale, culturale, familiare, personale, bensì come una voce a debito nel bilancio dell'esistenza personale in quanto portatrice di spese (per lo più inutili, ma - ahimè - inevitabili!), meglio ancora se in comode rate mensili a un tasso speciale* fatto apposta per te (prima rata a partire da gennaio 2012).

/continua
(*offerta valida solo fino al 31 ottobre 2011)

giovedì 27 ottobre 2011

La condanna del frigorifero

È curioso (e molto interessante) scoprire che i teorici della decrescita hanno fatto partire il loro ragionamento sull'insostenibilità di una società basata sulla crescita illimitata da un presupposto di pura fisica. In genere, quando si sente spiegare la decrescita, si ascolta invariabilmente il seguente ragionamento intuitivo: un mondo finito non può avere crescita infinita, ovvero prima o poi lo sviluppo esaurirà le risorse. Okay, la riflessione pare piuttosto evidente, ai limiti dell'ovvio. Eppure non tutti sono d'accordo. Nella fattispecie c'è chi contesta questa logica sostenendo che ciò non è necessariamente vera giacché la Terra non è un sistema chiuso (ovvero "finito"), bensì riceve costantemente energia dal Sole. Questo, a giudizio di coloro che non credono alla necessità della decrescita, basterebbe a rendere le risorse del pianeta teoricamente infinite (o almeno disponibili fino a quando ci sarà la nostra stella in queste condizioni di stabilità a rinnovarle), a patto - s'intende - di saperle sfruttare con efficienza.

A questo punto, i difensori della tesi dell'insostenibilità del sistema economico rincarano la dose, affermando che basta applicare la Seconda Legge della Termodinamica per dimostrare che di questo passo la razza umana non ce la potrà fare a tirare avanti a lungo. Si parla di venti o trent'anni al massimo da oggi. Per chi non si intende di fisica, il concetto è riassumibile in questo: non è possibile far passare spontaneamente calore da un corpo freddo (ovvero a temperatura minore) a un corpo caldo (ovvero a temperatura maggiore). In altre parole, se volete bere una bevanda a temperatura minore dell'ambiente, dovete metterla dentro un apparecchio che consuma più energia di quella che entra in gioco nel solo processo di raffreddamento, un'energia usata al solo scopo di far diminuire la temperatura della vostra bibita. Questo si lega al concetto di aumento di entropia, ovvero della misura dell'irreversibilità dei processi (il motivo per cui - per esempio - non si può inventare un motore perpetuo o non si può separare il caffè e il latte del cappuccino) e all'aumento del disordine dei sistemi, che in ultima analisi dà il grado di indisponibilità di un sistema a produrre lavoro, per cui al termine di un processo fisico la qualità dell'energia utilizzata peggiora, il che significa che, benché l'energia si conservi, non si trova più nelle stesse condizioni di produrre lavoro come all'inizio.

Fu l'economista rumeno Nicholas Georgescu-Roegen all'inizio degli anni '70 ad avere per primo l'intuizione di applicare questo concetto ai sistemi economici, diventando così il padre della moderna idea di decrescita e il suo massimo caposcuola. Il punto, invero piuttosto semplice, è che siccome tutti i processi produttivi industriali e sociali sono processi bio-fisici, e dunque di fatto assoggettabili anch'essi alle medesime leggi della fisica di cui sopra, in pratica qualsiasi "lavoro" che facciamo fare a un processo o a una macchina, ha un suo rendimento che, per quanto massimo, non è mai il 100%. Ciò significa che tutto ciò che facciamo (costruiamo, produciamo ecc.) ha sempre una ricaduta, un prezzo da pagare in termini energetici, anche per il solo fatto di volerlo fare (costruire, produrre ecc.), pertanto
"qualsiasi processo economico che produce merci materiali diminuisce la disponibilità di energia nel futuro e quindi la possibilità futura di produrre altre merci e cose materiali.

Inoltre, nel processo economico anche la materia si degrada ("matter matters, too"), ovvero diminuisce tendenzialmente la sua possibilità di essere usata in future attività economiche: una volta disperse nell'ambiente le materie prime precedentemente concentrate in giacimenti nel sottosuolo, queste possono essere reimpiegate nel ciclo economico solo in misura molto minore ed a prezzo di un alto dispendio di energia.

Materia ed energia, quindi, entrano nel processo economico con un grado di entropia relativamente bassa e ne escono con un'entropia più alta. Da ciò deriva la necessità di ripensare radicalmente la scienza economica, rendendola capace di incorporare il principio dell'entropia e in generale i vincoli ecologici."
(fonte: Wikipedia)
Da queste considerazioni Nicholas Georgescu-Roegen invocò la necessità di creare un approccio radicalmente nuovo all'economia, una filosofia (lui la chiamò bioeconomia) che tornasse a far dialogare il sistema produttivo con il pianeta che lo ospita e ne destina le risorse, un binomio che l'economia postbellica di stampo neoclassico aveva negato, disgiungendo in maniera netta e senza possibilità di appello i processi produttivi dall'ambiente in cui essi avvengono, in nome della corsa ultraliberista allo sviluppo, al benessere e - soprattutto - al profitto.

Ebbene, se non ora, quando?

/continua

martedì 25 ottobre 2011

Nella testa di un Black-Bloc (una specie di lettera)

Che cosa ti mulina nel cervello quando ti armi di mazze e bastoni e te ne vai in giro mascherato a spaccare tutto quello che ti capita a tiro, come una specie di supereroe al contrario? A più di qualcuno - puoi scommetterci - verrà voglia di rispondere: «Niente! È proprio questo il punto». Eppure io non ne sono convinto, e anche tu sai che liquidare la faccenda in questo modo non rende giustizia al tuo agire. Perché se alla maggioranza non sembrerà ci sia bisogno di grosse giustificazioni per un'attività come la tua, se non quelle della rabbia e della barbarie, in realtà in qualche modo tu hai comunque bisogno di giustificare a te stesso le azioni che intraprendi, tanto più quanto più sono potenzialmente rischiose e pericolose per la tua incolumità (della tua fedina penale non ti frega un cazzo, lo so). Del reso non è così che succede sempre? Tutti noi dobbiamo giustificare a noi stessi i nostri comportamenti, tutti noi ci costruiamo i nostri alibi. Dunque so bene che il movimento cui appartieni è assai variegato e trasversale, difficilmente inquadrabile, ma anche tu hai i tuoi "precettori morali".

Leggo da un giornale una specie di intervista a quello che dovrebbe essere una sorta di teorico del movimento (sei forse tu?), uno che conosce le tecniche di eversione urbana, uno che sa come muoversi, ma che è ben consapevole anche del perché. «Bruciare un’auto o spaccare le vetrine sono gesti che hanno il valore simbolico del nichilismo che rappresentiamo, come la scritta “Gameover” fatta con lo spray su diversi muri della città». Quindi non c'è alcun valore, se non la distruzione. Perché «nella società si è creato uno spazio vuoto, così come al corteo di sabato. E noi lo abbiamo riempito con la nostra rabbia: l’unico spazio organizzato per noi è quello che produce rottura, tutto il resto della nostra componente è rappresentato dall’individualità», aggiunge. Dunque «sabato (il 15 ottobre, NdA) l’obiettivo, raggiunto, era dimostrare che manifestare in corteo non ha più senso: bisogna realizzare il conflitto, attuare la rabbia, rendere la violenza plastica ed evidente».

E io che ero convinto che ce l'avessi a morte con il sistema! Che ti battessi anima e (soprattutto) corpo contro il capitalismo selvaggio. Che fossi una specie di No Global che non ci sta più con la testa e ha deciso di darci dentro sul serio. 'Fanculo a tutti quanti! Io pensavo che quando ti accanivi contro i bancomat, li usassi come friabili metafore delle teste dei banchieri, vampiri del mondo. Che avevi comunque un obiettivo ideologico. Mostrare qualcosa al mondo. E usare la violenza per evidenziarlo, perché i media sono assai più sensibili a un vetro rotto che a un fischietto. Non che questo avrebbe giustificato il tuo agire, o che mi avrebbe fatto sentire più vicino alle tue modalità, ma almeno avrei avuto a disposizione delle coordinate di pensiero leggibili, comprensibili, interpretabili, entro cui incasellarti. Invece oggi scopro che forse ho sbagliato tutto. O forse che sono solo rimasto indietro di dieci anni. Forse.

Allora eccolo lì: nichilismo innanzitutto. La mancanza di una visione futura che rende il presente inutile e dunque passibile di una distruzione immune da sensi di colpa. Dunque sbagliano di grosso quelli che ti dipingono oggi come un moderno "rivoluzionario", come una specie di Che del nuovo millennio. Non sei affatto un Robin Hood postmoderno, che vuole rubare ai ricchi per dare ai poveri. Nessuna ideologia politica di mezzo. Perché per te lo scontro sociale non è (più) un mezzo necessario all'instaurazione di un cambiamento, bensì è esso stesso divenuto un fine, anzi "il" fine. Per te esiste solo la rottura. Come una protesta che non solo non sa come uscire dalla propria spirale di opposizione per diventare proposizione, ma cui in fondo non interessa neanche cercare un modo per farlo. Da strumento, la protesta diventa scopo, puro, distillato, perché la speranza è morta e sepolta, perché non credi in niente, se non nella tua rabbia inesauribile. Eppure a me pare di intravedere un paradosso in questo ragionamento. A te no?

Se sei nichilista, se non credi nel sistema, se non ti importa del sistema, se non ti frega un cazzo del sistema, perché allora gli muovi "guerra"? Se pensi che davvero l'anarchia sia l'unico modo per uscirne, se le "cose" per te sono solo sovrastrutture inutili di una società capitalista da distruggere e quindi di cui non ti importa un fico secco, perché non ti levi dai coglioni e ti ritiri a vivere in un bosco, anarchicamente, nichilisticamente, lontano da questa società (e dalle sue vetrine, dai suoi bancomat, dalle sue griffe e dai suoi centri commerciali) che odi? Perché rivolgere tutte queste energie nei confronti di una cosa in cui non credi? Non si combatte forse per (contro) qualcosa che in qualche modo sta a cuore? Ah già, sì certo, scusa, tu mi hai parlato di combattere per combattere, perché dici che è (solo ed esclusivamente) nella rottura che trovi un'espressione di realizzazione e di identità. Ma non ti pare che questo sia un atteggiamento che manifesta di fatto un istinto suicida che non ha il coraggio di esprimersi per quello che è, rivolgendosi all'esterno invece che all'interno? Un'alternativa è invece che, in questi tuoi proclami, tu stia mentendo a noi, come (forse) tu fai con te stesso o che i tuoi "precettori morali" fanno con te, e la tua rabbia derivi in ultima analisi dalla tua incapacità di integrazione in un sistema che fa con te come l'uva con la volpe. Forse a ben vedere ti converrebbe.

lunedì 24 ottobre 2011

venerdì 21 ottobre 2011

Apologia dell'astronave rigata

Ho un'astronave rigata, embè? Che avete da guardare (e - soprattutto - da giudicare)? Vorrei vedere voi, a svolazzare avanti e indietro in mezzo a campi di asteroidi che manco il traffico del GRA alla vigilia di Natale, o a fare l'Alberto Tomba tra detriti spaziali assortiti, rottami di vecchi Shuttle esplosi e satelliti in fin di vita pronti a precipitare su luoghi densamente popolati. Per non parlare di mettersi lì, a disegnare cerchi nel grano la notte, al buio, senza vederci un accidente (la mia vecchia astronave non ha l'optional della visione infrarossa e non posso certo accendere i fanali e farmi sgamare). È matematico che, per quanta attenzione ci possa mettere, una riga qua e un colpetto là, prima o poi li fai. Senza contare quei pirati di Sirio B che girano per i parcheggi dell'Area 51 e ti bollano i paraurti come niente, quando va bene senza neanche lasciarti un biglietto attaccato all'oblò, quando va male invece denunciandoti, bastardi!, che sei stato tu lo stronzo a danneggiarli, ma figurati se c'è un testimone in giro. Insomma, ho un'astronave rigata e bozzoluta, permettetemi di chiamarla "vissuta", ma me la tengo così.

Già, perché non sono come quei marziani sempre lì a strigliare e lucidare, che appena scorgono una righetta in controluce, diventano blu, gli si gonfiano le antenne perché non sopportano di vedere la loro astronave meno che scintillante e vellutata come metallo liquido, a prescindere da quello che si deve sborsare per metterla a posto. Per loro l'astronave non è un mezzo di trasporto, è un fine di trasporto, che peraltro quando sei a bordo nemmeno puoi vederla, come è fuori. Però evidentemente costoro si sono convinti che, dal di fuori, gli altri si facciano qualche idea (sbagliata) su di loro a prescindere. Quindi non ci pensano due volte e al primo difettuccio optano sempre per una seduta dal carrozziere, come una sorta di chirurgia estetica per interposta lamiera.

Ebbene, questi proprio io non riesco a capirli. Non riesco a comprendere quale giovamento si possa trarre nel privarsi di palate di quattrini solo per rendere l'astronave lucida e scintillante fino al prossimo incidente di percorso che, potete scommetterci (e vincerete), presto o tardi comunque si verificherà. Insomma, dal momento che non si tratta di una questione di sicurezza ovvero di funzionalità, ma si rimane all'interno dei confini della pura estetica, non capisco proprio che soddisfazione si possa ricavare dal buttare via le proprie risorse in questo modo, se non quella di ritrovare così carrozzata non solo la lamiera, ma anche un fragile ego sempre in debito di una bella smaltata.

Insomma, se in una notte di autunno, di quelle magari con un velo di foschia che aleggia basso e pesante sui campi deserti e incolti, e le nuvole che giocano con uno spicchio di luna sottile come la falce del destino, vi capita di alzare gli occhi al cielo e di scorgere un'astronave tutta rigata e bozzoluta, ebbene sappiate che a bordo ci sono io.
E me la tiro, pure.

martedì 18 ottobre 2011

Se la protesta è contro se stessi

Smettetela di scendere in piazza! Finitela di organizzare cortei e manifestazioni che nella migliore delle ipotesi servono a dimostrare (solo) l'esistenza di un sentire comune, a sollecitare le endorfine di un sentimento di condivisione idealista, per illudersi di potere fare qualcosa, ma che nella peggiore delle ipotesi prestano il fianco alla violenza di pochi e alle strumentalizzazioni di alcuni. In entrambi i casi non servono a niente, se non a confortare le coscienze di chi le fa, mentre quelli contro cui la protesta si scaglia, restano a guardare comodi nei loro salotti in pelle di coccodrillo, o dietro il cristallo diamantato degli ultimi piani dei loro grattacieli. Negli ultimi quarant'anni la società è cambiata profondamente e le cause di disagio e gli obiettivi del dissenso non sono più quelli di una volta. Così anche la protesta non può essere più quella di una volta. Perché a quelli lassù non gliene frega un cazzo di voi che manifestate, a migliaia, a milioni. Non gliene importa un fico secco, perché anche se siete in tutte le parti del mondo, e manifestate, e gridate slogan, e vi dipingete la faccia, distribuite volantini, spammate e-mail, fate gruppi su Facebook e trascinate cartelli e striscioni, in mezzo a tutta questa voglia di cambiamento, sarete anche indignati, ma restate comunque dei consumatori. Ed è inutile che vi nascondiate dietro un pugno alzato, a voi piace essere consumatori.

Perché è evidente che la società di oggi si mastica la coda in un paradosso consumista, come in una specie di Sindrome di Stoccolma in salsa finanziaria. Da un lato i carnefici, il CEO, l'AD, il Presidente, il GM (che non è il Grande Marziano!), dall'altro le vittime, cioè tutti voi. Ma quanti di coloro che erano in corteo sabato erano consapevoli che stavano di fatto protestando contro se stessi? Perché protestavano contro un modo di intendere la società che è anche il loro modo di essere società, e forse persino di volere la società. Quanti iPhone ci saranno stati dentro quel corteo? Quante smart card di abbonamento a Sky? Quanti jeans Diesel? Quante paia di scarpe Geox? Quante macchine Nespresso? Quante tessere Mediaworld? Quanti finanziamenti in corso per comprarsi il televisore al plasma o le vacanze alle Maldive? E quanti di quelli sarebbero disposti a dare un calcio a tutto questo? Perché il sistema delle banche e delle multinazionali, degli imprenditori e degli industriali, quello che invoca la crescita come unico modo (pazzo e irragionevole) per trovare una via d'uscita al labirinto della crisi, non è qualcosa di disgiunto e separato dalla realtà della piazza antagonista. Anzi, i due schieramenti sono di fatto strettamente interdipendenti, in una sorta di simbiosi fatale. Questo significa che ciascuno dei due potrebbe decidere di spezzare il legame morboso di questa Sindrome e decretare la fine dell'altro, se solo lo volesse.

E il modo sarebbe anche piuttosto semplice e (non del tutto) indolore: basterebbe smetterla di comprare roba inutile. Basterebbe che per un anno, la gente si limitasse a comprare solo ciò che le serve per mangiare. Niente auto nuova, niente telefonino ultimo modello, niente computer più potente, niente vestito alla moda, niente cialde per il caffè al gusto di nocciola rosa del Madagascar, niente Mediaset Premium. Del resto è facile presumere che chiunque (o almeno la stragrande maggioranza dei cittadini e anche degli "indignati") abbia in casa abbastanza "cose" per tirare avanti un anno senza dover comprare niente, ma senza per questo dover rinunciare a granché. Semplicemente evitare acquisti non utili o non (davvero) necessari. È evidente che una strategia come questa se (come dovrebbe essere), fosse adottata da milioni di persone, metterebbe in grave crisi le aziende. Però, e qui sta il "non del tutto" indolore, va osservato che quelle società a loro volta sono quelle che danno lavoro alle persone che quella stessa roba la devono comprare. Ed ecco dunque spuntare di nuovo quella specie di strano cordone ombelicale simbiotico che tiene in vita madre e figlio allo stesso tempo. Non si può spezzarlo senza uccidere entrambi. Questa è una società che vive in equilibrio su un lungo filo sottile e le misure che si richiedono servono solo ad allungare quel filo, non a far scendere da esso. Dunque non si può pensare di cambiare questa società senza essere disposti ad accettare (tutti) le conseguenze della sua fine. Non si può scendere da questa giostra colorata e luccicante senza fermarla. Forse è per questo che si protesta e basta. Voi volete scendere?

sabato 15 ottobre 2011

Il primato del dubbio

Guardo le immagini di Roma e non posso fare a meno di ricordare queste parole:
Maroni dovrebbe fare quel che feci io quand'ero ministro dell'Interno. In primo luogo, lasciare perdere gli studenti dei licei, perché pensi a cosa succederebbe se un ragazzino di dodici anni rimanesse ucciso o gravemente ferito. Gli universitari invece lasciarli fare. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri. Nel senso che le forze dell'ordine dovrebbero massacrare i manifestanti senza pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli a sangue e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano. Soprattutto i docenti. Non quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì.
Francesco Cossiga, intervistato da Andrea Cangini 23/10/2008

Nel sempre salutare esercizio del dubbio e della critica, evitando di prendere supinamente quello che ci viene detto, mostrato e commentato e farlo diventare una nostra opinione, e visto che le cose non sono sempre mai fatte senza scopo, una sola cosa viene da chiedermi: chi ci guadagna (di più) da tutto questo? Ognuno è libero di dare la sua risposta.

Per il resto, al di là di qualsiasi dietrologia, vera o presunta, non bisogna dimenticare che un manipolo di stronzi - qualsiasi origine abbia - da un lato non deve poter cancellare il significato della manifestazione e dall'altro non deve condizionare il giudizio sul movimento e su quanto socialmente, ma anche politicamente e ideologicamente, gli sta dietro. Purtroppo sono certo che non sarà così. C'è solo una certezza.

La campagna elettorale è cominciata oggi.

giovedì 13 ottobre 2011

Vaghe stelle della speranza morta ammazzata

Un bastardo ha ucciso un orso. Anzi, un'orsa per la verità. È accaduto la sera del 16 settembre scorso, in un bosco del Minnesota, terra aspra di plantigradi e cacciatori, dove la caccia all'orso è legale per lo meno in alcune settimane dell'anno. Un farabutto ha ucciso un'orsa. Non si sa con certezza la dinamica, ma il tizio ha ammesso di averlo fatto, nella sciagurata consapevolezza di non aver commesso alcunché di illegale, né di male. Un figlio di puttana ha ucciso un cucciolo, perché un'orsa di meno di due anni, ancora tale si poteva chiamare. Pare che il tizio, il cui nome - per ovvie ragioni che andrò a spiegare per chi non conosce la vicenda - è tenuto rigorosamente anonimo, sia un cacciatore conosciuto nel territorio, che non lo faccia per appendere le teste come trofei alle pareti del soggiorno, ma che si limiti - per modo di dire, naturalmente - a uccidere quello che mangia. Un povero idiota ha fatto fuori un'orsetta di circa seicento giorni per la voglia di qualche (cazzo di) bistecca. E se da un lato non c'è alcun dubbio che questo episodio non sia - purtroppo - un evento raro nel mondo, rispetto all'uccisione barbara di animali selvatici (e non), e per di più di cuccioli (e non), questo in particolare assume un significato molto diverso, perché - pur non dipendendo da lei - quella non era un'orsa qualsiasi.

Mi sforzo di evitare di scivolare nella trappola della retorica e in facili lacrimevolezze, sempre dietro l'angolo in circostanze come queste, ma che non mi sono proprie. Quindi mi limiterò innanzitutto a citare un certo numero di fatti. Nel 2010 il North American Bear Center grazie alle nuove tecnologie informatiche intraprende un nuovo progetto di ricerca, provando a inserire una webcam dentro la tana di un'orsa per seguirla durante tutto il suo letargo invernale, in modo che le immagini siano visibili in tempo reale su Internet agli utenti di tutto il mondo. Durante quel periodo, nel gennaio 2010, l'orsa, chiamata nel frattempo Lily, dà alla luce un cucciolo che, come succede in questi casi, viene chiamata Hope (Speranza) per acclamazione popolare. Così la webcam (e la gente di tutto il pianeta, Facebook incluso) può seguire 24 ore su 24 le vicende dell'orsa e della sua cucciola nel primo vero reality plantigrado della storia, compresi i suoi primi rugli di neonata. Il tutto naturalmente prosegue anche dopo il letargo, sebbene stare dietro agli orsi sia più difficile quando possono scorazzare a piacimento nei boschi. Ma Lily è radiocollarata e quindi facilmente rintracciabile dai ricercatori. Hope invece rifiuterà sempre il radiocollare e questo, pur non giustificando il gesto, contribuirà tuttavia alla sua fine (perché il cacciatore non avrebbe sparato a un orso col radiocollare). Nell'inverno 2011 l'esperimento di ricerca è stato ripetuto e Lily e Hope si sono ritrovate nuovamente nella stessa tana e la mamma stavolta ha dato alla luce due altri piccoli orsi, Jason e Faith, di cui il primo non è sopravvissuto (ma per ragioni naturali). Chi desidera ulteriori dettagli, video e informazioni, può cercarli qui.

Come migliaia di altri "utenti", anche io avevo seguito le vicende di questi orsi e dunque la notizia mi ha colpito forte alle spalle e la familiarità - ancorché virtuale - che avevo sviluppato con Hope ha fatto sì che la sua uccisione sia stata per me (come migliaia di altri "utenti") alla stregua della perdita violenta di un'amica. D'improvviso un'intera comunità - ancorché virtuale - di molte migliaia di persone si è ritrovata a condividere tristezza, dolore, sconcerto, indignazione e una rabbia inaudita, e questo è stato possibile solo grazie a una webcam. La webcam dunque è diventata una sorta di amplificatore di una coscienza globale o forse, ancora meglio, della sensibilità di una collettività, a titolo di revoca definitiva del vecchissimo e un po' paraculo ritornello "occhio non vede, cuore non duole". Che dire allora però di tutti gli animali che non sono dotati di webcam e che domani da qualche parte in giro per il mondo si prenderanno un proiettile in testa senza che nessuno versi per loro neanche una lacrimuccia? Purtroppo la consapevolezza condiziona, è vero, ma dovrebbe farlo anche sapere che tutti i giorni ci sono migliaia di cacciatori sparsi per il mondo che passeggiano per i boschi con una doppietta sotto il braccio solo per il gusto di certificare la propria superiorità sulla natura, come se questo potesse garantire una qualche immunità rispetto alle leggi della natura stessa, essendo quello dell'alimentazione uno schifosissimo e squallidissimo alibi.

A questo punto però l'ingiustizia nei confronti di tutti gli altri animali è palese. Perché Hope sì, e gli altri no? Solo per una piccola webcam da qualche centinaio di dollari? Allora perché non mettere qualche bella webcam anche nei mattatoi, negli stalli degli allevamenti intensivi, nei capannoni labirintici con le gabbiette dei polli in batteria? Forza, familiarizziamo con Carolina, la mamma del tuo prossimo arrosto, con Marta che dopo essere stata spennata ed eviscerata si prenderà uno spiedo nel culo, o con Napoleone, legittimo proprietario dello zampone del tuo prossimo Capodanno. Altrimenti smettiamola di fare gli ipocriti e di frignare per la piccola, tenera, dolce Hope.

dedicato a knitting bear


[Credits: il primo disegno dall'alto è di Rachel Rolseth; il secondo è di W. Kranz]

lunedì 10 ottobre 2011

PdL: psico-analisi di una campagna

La nuova, fiammante campagna di adesioni al Popolo della Libertà deve registrare due notazioni d'obbligo, anzi tre, anzi quattro. La prima, esplicita e palese, riguarda l'assenza - per la prima volta da diciassette anni a questa parte - del nome di Berlusconi nel simbolo. E questo è un segnale importante di come lo stesso fondatore del movimento (non chiamatemelo "partito") evidentemente considera la "vendibilità" della sua immagine presso gli utenti più o meno finali, e della direzione finalmente diversa (?) verso cui il partito sta guardando in vista delle prossime elezioni politiche, quando mai saranno.

La seconda, assai più sottile, riguarda la forma degli slogan: tutte domande. Il PdL non aveva mai sollevato quesiti al popolo, non sembrava interessato a voler far ragionare il suo elettorato, piuttosto a servigli dei dogmi preconfezionati senza possibilità di fare ipotesi o di poter deragliare da binari solidamente imbullonati lungo una strada concettuale già tracciata. Questo implica un approccio diverso al destinatario del messaggio, in quanto, contrariamente all'affermazione, la domanda - ancorché retorica - presuppone istintivamente che il destinatario fornisca una risposta e quindi partecipi in maniera attiva all'assimilazione del messaggio/domanda la cui fruizione dunque si completa non solo con la lettura del messaggio in sé, ma anche attraverso l'elaborazione consapevole della sua risposta.


La terza, strettamente collegata alla seconda, è che - come prevedibile - non si tratta di domande normali, essendo domande puramente tautologiche, ovvero quesiti in cui la risposta è già contenuta nella domanda. In altre parole si tratta di false domande cui la risposta è - di fatto - concettualmente obbligata, o intrinsecamente rispetto all'idea che la domanda esprime, oppure rispetto a come la domanda risuona nell'interlocutore. Per esempio "Ami davvero il tuo paese?" Ovviamente tutti coloro che vogliono sentirsi buoni cittadini, o anche solo per amor di carta d'identità, risponderanno "Sì". Tendendo dunque a stabilire una correlazione tra la domanda e la risposta, analogamente questo processo tende a instaurare una connessione tra il mittente e il destinatario, rispetto a una sostanziale unità di intenti che vuole in questo modo configurarsi su un piano subliminale, ovvero assai più profondo e meno visibile.
Ma c'è un'altra cosa.

Le domande che campeggiano sui cartelloni infatti sono cinque, tre delle quali invero assai fiacche e prive di una qualche originalità ("Vuoi difendere la tua libertà?", "Ami davvero il tuo paese?" e "Vuoi dare più forza all'Italia?"). Le ultime due però sono diverse perché non attengono strettamente al piano politico o sociale come le altre, che si rivolgono direttamente al rapporto del cittadino con la sua nazione, o parlano al cittadino del valore cui socialmente egli dovrebbe tenere di più, ovvero la libertà. La quarta infatti recita semplicemente: "Non vuoi arrenderti alle difficoltà?" E trovo che sia anch'essa un po' bolsa. Mentre l'ultima, la più spettacolare, chiede: "Sai distinguere il vero dal falso?" Ed è proprio su questa in particolare che mi voglio soffermare. Qui non si trova alcun riferimento diretto o indiretto alla politica, dunque, né all'economia o alla società. Nessuna citazione dei temi più classici di una campagna politica: lavoro, istruzione, pensioni, giovani, occupazione, sanità, sviluppo, sicurezza, né alcun riferimento a tipici valori politici o sociali. Invece viene tirato in ballo solo il concetto di vero e di falso. Non vi pare strano?


Ebbene, anche questa, come le altre, anzi ancor più delle altre, è una domanda la cui risposta è obbligatoria. Chi non distingue il vero dal falso, significa che è uno che si fa infinocchiare e chi mai ammetterebbe candidamente di essere uno che si fa abbindolare? La curiosità è che ci si vede provenire una domanda sulla verità e la falsità delle cose da parte di un movimento (non chiamatemelo "partito") che ha al vertice un personaggio che apertamente, senza mai alcun ritegno, ha sempre fatto proprio della confusione tra il vero e il falso la sua cifra comunicativa. Vista sotto questa lente, la domanda assume dunque i contorni di una pericolosissima arma a doppio taglio. Per la serie: ma come, proprio tu mi vieni a chiedere questo?! Tu e i tuoi lacchè a gettone, bugiardi matricolati, che non fate altro da diciassette anni che dire una cosa e subito dopo il suo contrario e non fate altro che praticare lo sport di pronunciar menzogne, anche (soprattutto) quando sono facilmente verificabili, dunque smentibili? A me verrebbe da rispondere: certo che so distinguere il vero dal falso, e proprio per questo non mi ci iscriverò mai al tuo cazzo di movimento! Quindi c'è qualcosa che non torna. Possibile che chi ha concepito la frase non abbia pensato alla possibilità di una reazione del genere? Siamo dalle parti del Tunnel Gelmini, o c'è qualcosa sotto?

È evidente che qui l'effetto marketing si gioca davvero sul filo di un rasoio molto sottile e affilato, perché in questo caso il messaggio è ancora più subdolo e fa il doppio gioco tipico del venditore più astuto. Io, che ti sto facendo la domanda, so che tu sei di quelli come si deve, di quelli che non si fanno prendere per il naso, anzi voglio proprio solleticare la tua autostima di soggetto furbo e intelligente. Per questo so che tu penserai che nessuno, mosso dall'intenzione di fregarti, avrebbe il coraggio di porti una simile domanda. Nessuno che volesse abbindolarti sul serio vorrebbe metterti, lui per primo, la pulce nell'orecchio. Dunque la tua retroazione a un simile messaggio sarà quella di tendere a credere alla veridicità della fonte che lo esprime e quindi di schierarti dalla sua parte. Questo se le tue resistenze interne non sono molto forti, naturalmente. Altrimenti scatterà, inevitabile, la pernacchia. Per questo, la frase in sé suona quasi come un'ardita scommessa, o come l'estremo tentativo di salvare una diga che sta mostrando giorno dopo giorno sempre più falle. La sensazione però è che di dita per tappare tutti i buchi stavolta non ce ne siano abbastanza.

giovedì 6 ottobre 2011

La pornificazione della realtà

Una volta, peraltro non molto tempo fa, il caffè con panna era roba per gente lubrica e voluttuosa, lo sconveniente cedimento a un'epicurea tentazione alimentare che, sebbene oggettivamente non avesse nulla di male, tranne forse un picco glicemico transitorio e il rischio - peraltro non trascurabile - di qualche movimento peristaltico incontrollato dovuto ai tradimenti occasionali della panna montata, era considerato socialmente come qualcosa di lascivo, qualcosa che attirava sguardi sbiechi, un catalizzatore di sensi di colpa, dunque da praticare con assoluta moderazione e possibilmente anche con una certa discrezione. Poi giunse una catena di caffetterie dalla vista lunga e presentò ufficialmente al mondo la sua linea di caffè con panna: semplice, con crema di nocciole, con mandorle, con amaretti, con amarene, con marron glaceés, con frutti di bosco, con foglioline di menta, con scaglie di cioccolato ecc. in una costellazione di morbide lusinghe gustative a basso (anzi bassissimo) costo, capaci di far crollare a ripetizione anche gli spiriti più tenaci e morigerati. Non ci vuole molto a capire che l'istituzionalizzazione di una seduzione è sufficiente, col tempo, a modificarne la percezione dell'aspetto morale.

Che il sesso stia subendo ormai da anni lo stesso trattamento non è certo un'intuizione marziana. I media lo apparecchiano in tutte le possibili varianti del Vātsyāyana Kāma Sūtra, come forma suprema di esca pubblicitaria, in termini di avvicinamento asintotico all'orlo del capezzolo, di inquadrature che imitano prospettive da sala parto, di pezzi di gnocca che quanto a silicone sfidano le guarnizioni idrauliche più problematiche, peraltro dotate dell'utilità e dell'espressività di una carta moschicida appesa al soffitto. Ed è inutile dire che le mosche siete voi. Ma non c'è solo questo. Perché non si possono dimenticare tutti i contorni pruriginosi che emergono quotidianamente dalle tristi vicende (più o meno private) dell'attuale Premier & C., e che più o meno ogni giorno vengono servite su un piatto d'argento, ancora calde e fragranti, a beneficio dell'insaziabile morbosità della gente, condite da particolari piccanti sempre più ricchi, sempre più indulgenti nel linguaggio e nelle immagini, insomma sempre più pelose, mentre i media si fregano le mani di fronte a tutto questo ben-di-dio su cui possono affondare i loro canini sempre bisognosi di nuovi scoop, sempre più esclusivi e straordinari.

Se dunque lo sdoganamento del caffè con panna può aver portato nel medio-lungo periodo (sicuramente) a un leggero aumento del colesterolo sociale medio, (probabilmente) a una maggiore incidenza del diabete e (forse) a un lieve incremento nelle vendite di carta igienica, con una partecipazione sempre più frequente di società produttrici di carta igienica in società produttrici di panna da montare, che cosa accadrà mai con il sesso? Se l'imperativo categorico è alzare sempre la posta, crescere pensando di non avere limiti, grattare con le unghie il fondo del barile pensando che il barile sia senza fondo (ma le unghie prima o poi si consumano), vivere schiavi dell'aumento dei fatturati, appendere la qualità delle esistenze alle derivate dei grafici dei guadagni, giacché quello che dopo un po' diventa normale perde giocoforza tutte le sue attrattive, quali scenari sociali possiamo mai immaginare che si realizzino rispetto al sesso entro una decina (o ventina) d'anni da oggi? Se in termini economici qualcuno paventa una recessione come la più grande sciagura possibile a fronte di un'incapacità (intrinseca) del sistema di tenere i suoi grafici sempre in salita, potete giurare che al sesso accadrà qualcosa di molto simile. Solo che in questo caso non la chiameranno recessione, la chiameranno impotenza.

lunedì 3 ottobre 2011

Un marziano in versione pulp

Okay, è inutile che imbastisca tanti giri di parole, faccio coming out e la chiudiamo qui: ormai sono Palahniuk-dipendente. Ho iniziato qualche mese fa con Invisible Monsters e, confesso, il romanzo non mi aveva convinto del tutto, nonostante almeno due temi forti della civiltà contemporanea, il ruolo della bellezza e quello dell'omosessualità, e uno stile brillante, vistoso, incisivo, veloce, a tratti brutale e cinico, e assai poco lineare (nel caso di Invisible Monsters anche troppo) come un videoclip di ultima generazione, forse in ultima analisi uno dei migliori equivalenti letterari degli stilemi della società occidentale. Però era stato sufficiente a mettermi in moto qualcosa, perché dopo un po' di tempo, complice una campagna di supersconti librari di quelli ormai d'altri tempi, mi è capitato in mano Gang bang e lì i morsi della dipendenza hanno cominciato a farsi sentire sul serio.

Divertente e amaro, surrealmente vero nel suo cinismo senza esclusione di colpi, e - dato l'argomento - anche goliardicamente provocatorio e decisamente vietato-ai-minori, ma sempre gestito con sapienza e misura, il racconto in presa quasi diretta dei tre uomini in attesa (nudi) di essere chiamati per essere filmati in un'orgia di una stella del porno ormai al tramonto che, nella sua ultima gloriosa performance, tenta di entrare nel Guinness dei Primati cercando di farsi seicento uomini di fila, è qualcosa che - anche solo per l'originalità del soggetto e dalla struttura con cui è raccontato - sta dalle parti del puro genio. Così, colto da un'improvvisa crisi di astinenza, sono andato a togliere la polvere a Fight club, che mi avevano regalato un po' di tempo fa e che, avendo già visto il film, avevo lasciato ad ammuffire sulla mensola nella convinzione che il ricordo della versione cinematografica targata David Fincher mi avrebbe rubato troppo al piacere della lettura. Ma solo quello avevo, e in qualche modo dovevo pur placare i calci che la scimmia mi stava tirando, secchi, negli addominali (quali?).

Ebbene, innanzitutto devo dire che la visione del film, contrariamente a quanto pensavo, forse è addirittura propedeutica alla lettura del romanzo, perché fornisce fin dal principio un indizio prezioso e cruciale sul protagonista - indizio che naturalmente non vi svelo, ma che sarà immediatamente chiaro a chi ha visto il film (o ha letto il libro fino in fondo) -, e che, pur facendo abortire il colpo di scena finale, a mio avviso avvantaggia la comprensione e di conseguenza l'apprezzamento della storia e delle sue molteplici sfumature. Ma è chiaro che poi il romanzo ha dentro molto di più, sotto la superficie di sapone. Le parole soprattutto, dense, intense, moderne. E la visione mirabile, globale, profonda e rabbiosa della società di oggi, un mondo schizofrenico, malato, nichilista e disperato, incapace di amare e di comunicare, preda della solitudine e dello stress, e prigioniera di paradigmi vacui che il protagonista tenta disperatamente di scardinare (o di far esplodere) fino a un estremo desiderio di morte che è anche un estremo desiderio di (un'altra) vita.

In Fight club, sua opera prima, Palahniuk dimostra tutto lo speciale talento che ne ha decretato la popolarità (per la quale - purtroppo - c'è voluta anche la spinta di un film di grande successo, come spesso accade). Ma sono convinto che sia riduttivo costringerlo dentro i paletti dei modelli di genere. Palahniuk non è (solo) uno scrittore pulp. Palahniuk è un finissimo osservatore del mondo di oggi, dei suoi paradossi e dei suoi cancri, degli individui e delle gabbie dentro cui sono rinchiusi (e si lasciano rinchiudere) dal sistema, ed è un abilissimo costruttore di metafore letterarie. Palahniuk è uno che non si accontenta della prima impressione, ma che cerca le connessioni nascoste. Palahniuk è un autentico scrittore di razza, ed è solo l'etichetta di autore di genere ("estremo") a penalizzarlo presso il grande pubblico rispetto ad altri più celebrati maestri nel ritrarre gli orrori della post-modernità, come David Foster Wallace o Jonathan Franzen, giusto per citarne un paio che sono passati da queste parti, autori comunque difficili da raffrontare con lui, ma ai quali Palahniuk non ha niente da invidiare. Insomma, Palahniuk è da leggere. E basta.
A proposito, vi ho sentito... smettetela di chiamarlo "Palaniuc"! Si pronuncia "Pòlanic".

La citazione:
"Per tenerla su, per farla ridere, racconto a Marla della donna di Caro Abby che aveva sposato un impresario delle pompe funebri bello e benestante e la notte delle nozze lui l'aveva fatta immergere in una vasca di acqua gelida finché la sua pelle al tocco non era sembrata congelata. Poi l'aveva fatta distendere sul letto e l'aveva costretta a rimanere assolutamente immobile mentre lui si accoppiava con il suo corpo gelido e inerte.
La cosa buffa è che questa donna lo aveva accontentato da sposina ed era andata avanti così per i successivi dieci anni di matrimonio e ora scrive a Caro Abby per chiedere ad Abby se secondo lui aveva qualche significato particolare."
[Nota: Il "Caro Abby" di questa fantastica storiella è un evidente riferimento a una classica rubrica di posta dei lettori di una fantomatica rivista che rimane anonima, e viene riportato in questo paragrafo per la prima e ultima volta nel libro. Non c'è alcun altro riferimento nel romanzo. Anche questo è Pòlanic.]

Fight club, di Chuck Palahniuk (Mondadori)

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