Punti di vista da un altro pianeta

venerdì 29 ottobre 2010

L'assedio infinito del pensiero

.Chi sei?
Come potete avere intuito da quanto detto finora, è abbastanza chiaro che fin dalla vostra nascita il vostro cervello ha subìto un costante assalto di memi di tutti i generi che sono andati a formare quello che siete oggi, ciò che pensate e il modo in cui vi comportate. Io sono i miei memi, potreste dire. Il punto è che molti di essi non vogliono il vostro benessere o la vostra felicità, ma soltanto essere replicati. Proprio come i “geni egoisti” di Dawkins, essi sono dei “memi egoisti” che pensano solo alla propria sopravvivenza e alla loro replicazione. Tuttavia a questo punto si rende necessaria una precisazione. Naturalmente non voglio intendere che i memi, come i geni, siano dotati di uno scopo consapevole. Ciò è ovviamente fuori discussione. Eppure il loro comportamento secondo il modello genetico/memetico, è tale per cui si può considerare come se fosse così. Insomma, semplicemente questo modello funziona e illustra la realtà in un modo originale e adeguato, al punto che ci fa capire molte cose.

.Come distingui?
In base alle loro azioni, i memi possono essere suddivisi in tre categorie principali: i memi-distinzione, i memi-strategia e i memi-associazione. Tutti i concetti che possediamo sono memi-distinzione, ovvero ciò che ci serve per poter dare un nome alle cose. L’”Italia” è un meme-distinzione, ovvero esiste come concetto politico, determinato da altri memi che sono i confini che la delimitano, la lingua che vi si parla, le leggi che vi vigono eccetera. Anche “Marte” è un meme-distinzione che serve a intendere il quarto pianeta del Sistema Solare, ovvero la mia casa. Da questo punto di vista si comincia a capire che i memi non costituiscono mai verità assolute e il problema, semmai, comincia a sussistere quando voi credete che lo siano. Ma di questo parleremo più avanti. Insomma, l’uomo in quanto tale non esiste. Lo stesso concetto di “uomo” è un meme-distinzione. Lo stesso vale per il mare, la Via Lattea, i gatti e la pastasciutta. Ogni cosa che l’uomo pensa è un concetto inventato per riferirsi a un oggetto presente nell’universo e quindi non è l’oggetto stesso, ma un meme-distinzione. I loghi famosi, per esempio, costituiscono dei memi-distinzione molto potenti, una volta che vengono programmati nelle menti degli individui. Il marchio della Coca-Cola, ovvero il logo della Nike, possono essere determinanti a fare in modo di essere scelti a discapito di altri loghi che non vengono riconosciuti dagli individui, perché non fanno parte del loro bagaglio di memi-distinzione.

.Come agisci?
I memi-strategia sono invece quelli che vi dicono come vi dovete comportare in determinate situazioni. Per esempio, se il semaforo è rosso sapete che vi dovete fermare, mentre se da lontano scorgete un’automobile della Polizia ferma sul ciglio della strada, è facile che il vostro piede destro vada automaticamente a premere il pedale del freno, anche se non state superando i limiti di velocità. Del meme-strategia fanno parte tutte quelle convinzioni (buone o cattive che siano) in base alle quali siete convinti che produrranno determinati effetti sulla realtà. I primi memi-strategia vengono appresi già nella primissima infanzia. Mettersi a piangere per farsi mettere il ciuccio, è un classico esempio di meme-strategia infantile. Ma ci sono memi-strategia che ci si porta dietro anche da adulti. Il punto cruciale è capire quali sono quelli che ci guidano inconsapevolmente, verso scopi non produttivi. Senza contare il fatto che possono esserci memi-strategia con cui veniamo astutamente programmati per gli scopi altrui.

.Come ragioni?
I memi-associazione sono invece memi collegati tra loro, senza che sia necessario un nesso logico vero. Per esempio il binomio “donne-motori” è un meme-associazione molto forte. I memi-associazione sono potenti veicoli per infettare le menti degli individui con nuovi memi-strategia. Il condizionamento pavloviano ne è l’esempio più tipico. Nel film di Stanley Kubrick, Arancia meccanica, il protagonista viene programmato per associare immagini di violenza orribili (e per sbaglio anche la Quinta Sinfonia di Beethoven) con un profondissimo malessere fisico. Il meme-associazione violenza(musica)-malessere infetta il protagonista con un nuovo meme-strategia in base al quale non può fare a meno di sentirsi malissimo ogni volta che un istinto violento cerca di prendere il sopravvento su di lui, od ogni volta che ascolta la Quinta Sinfonia di Beethoven. I meccanismi su cui si basa la pubblicità non sono molto diversi. Pensate per esempio a qualche musica utilizzata come colonna sonora per qualche campagna pubblicitaria, anche di alcuni o molti anni fa. Se alla radio vi capita di ascoltare questa canzone, la vostra mente tenderà forse ad andarsene per i fatti suoi a pensare alle immagini dello spot televisivo? In tal caso il meme-associazione si è prepotentemente radicato nella vostra mente senza il vostro consenso. E a questo punto è troppo tardi: siete già stati condizionati.

/continua

mercoledì 27 ottobre 2010

Orgasmi multipli porno sessuali

.Accoppiarsi
Ve l'avevo promesso che si sarebbe andati sul sesso. E ogni promessa è debito. Del resto non è necessario scomodare i dettami della psicologia evoluzionista, per comprendere che il sesso ha ricoperto il ruolo principale nel modellare i comportamenti degli esseri umani dai tempi preistorici fino alla civiltà moderna. Basta fare una ricerca su Google o guardare le copertine di Panorama. Del resto, se siete qui a leggere questo post, significa che siete l’ultimo anello di una catena di coppie di individui che, per migliaia di anni, si sono accoppiati con successo. Il sesso è dunque il sistema con cui i geni si replicano e si trasmettono alle generazioni successive. Ed è abbastanza prevedibile, perciò, che i geni abbiano fatto di tutto per cercare di rendere il sesso sempre più efficace e appetibile. Nel corso di un’evoluzione selettiva durata milioni e milioni di anni, i geni hanno dunque remato a favore della possibilità di discriminare fisicamente i partner più adatti attraverso la percezione di odori e colori, fino allo sviluppo delle capacità di scegliere i compagni più desiderabili in termini di forza e affidabilità nella cura dei figli. Senza contare anche che un sesso più piacevole e un partner maggiormente attraente si sono rivelate caratteristiche in grado di fare decisamente la differenza. E allora cominciano così a spiegarsi anche i business della cosmetica, della moda, della chirurgia estetica, del fitness, dello spettacolo e ultimamente anche della politica...

.Godere
Che ne siate convinti o no, gli istinti primordiali su cui poggiano i memi “devo essere in forma”, “devo avere il seno grosso”, “non posso vivere senza addominali a tartaruga” odorano ancora dell'umidità delle caverne. Ma nell’ambito della memetica, il sesso sembra possedere un ruolo ancora più importante. Come afferma il già citato Richard Brodie, uno dei maggior esperti di memetica, “visti attraverso la memetica, tutti i valori, i codici morali, le tradizioni e le idee di Dio e i diritti sono il risultato dell’evoluzione dei memi. E l’evoluzione dei memi è guidata dalle nostre tendenze genetiche che a loro volta si sono evolute intorno al sesso.” Prendiamo come esempio la ricerca del potere e del dominio tipica del maschio. Questo comportamento si è sviluppato e si è mantenuto nel corso dei millenni semplicemente perché il maschio dominante ha sempre potuto disporre di un maggior numero di accoppiamenti. Del resto l’istinto biologico del maschio è quello di fecondare il maggior numero possibile di femmine, assecondando il più possibile quella che è la produzione di un grandissimo numero di cellule riproduttive propria dell’apparato riproduttivo maschile. Altro che concetto di famiglia naturale!

.Riprodursi
D’altro canto, avendo solo un numero limitato di possibilità in termini di cellule riproduttive e di gravidanze possibili, la femmina tende invece a capitalizzare il valore della riproduzione cercando partner dalle caratteristiche più adatte sia in termini fisici, che in funzione della stabilità dei legami. Per questo tradizionalmente la donna sceglie il suo partner e l’uomo compete con altri uomini per essere scelto. Sotto questo aspetto, la donna storicamente ha ricoperto il ruolo di portatrice di stabilità e sicurezza, laddove l’uomo ha sempre teso verso l’instabilità e il rischio, pur di conquistare quote di potere (e di accoppiamento) sempre maggiori. Così, se l’infedeltà maschile sembra non possa essere altro che il risultato dell’istinto di cui parlavamo poc’anzi, quella femminile sembra legata non tanto al desiderio di rimanere incinta, quanto alla ricerca dei favori di un uomo di maggior potere che possa procurare più cibo per lei e per i suoi figli. In effetti, nella preistoria il cibo poteva costituire una merce di scambio per il sesso e anche oggi qualcosa di questo comportamento è senza dubbio rimasto, in senso lato, nel ruolo del denaro.

.Avvantaggiarsi
In ogni caso, il sesso è sempre stato l’obiettivo numero uno ed è impossibile affermare che non lo sia ancora oggi. Naturalmente tutti questi discorsi prescindono da principi etici, religiosi o culturali di qualsivoglia natura e fanno riferimento solo agli istinti ancestrali integrati nei geni di maschi e femmine. In questo complesso gioco di equilibrio, la morale, sia essa religiosa o laica, soprattutto in ambito sessuale trova un posto ambiguo. Sotto certi aspetti, sembra che la morale tenda a voler farci andare in direzione opposta a quello che ci suggeriscono i nostri geni, ovvero i nostri istinti. D’altronde la morale può anche essere vista come una sorta di diffusione ingannevole di memi preposti a far diminuire le possibilità di accoppiamento degli altri, favorendo le proprie. La psicologia evoluzionista tende così a spiegare la diffusione del concetto di ipocrisia rispetto ai nostri istinti sessuali: diffondere idee morali per poi violarle segretamente a favore di qualsiasi possibilità di accoppiamento si presenti. È questo il motivo per cui è lecito aspettarsi molta ipocrisia intorno all’argomento “sesso”, ed è altrettanto lecito aspettarsi che verso questa forza istintiva così potente siano indirizzati i memi migliori.

[Nota: naturalmente il titolo del post è quello più memetico che sono riuscito a immaginare (compatibilmente con la decenza). Vedremo se il numero di clic rispetto alla media lo confermerà.]

/continua

lunedì 25 ottobre 2010

In principio era Sharon Stone

.Alla base
Basta che diate un'occhiata a qualsiasi telegiornale per rendervi conto che ci sono aspetti propri dell’essere umano del XXI secolo che non sono molto diversi da quelli che animavano i relativi progenitori preistorici. Secoli di civiltà (e progresso?) non sono stati capaci di spazzare via certe caratteristiche comportamentali semplicemente perché troppo radicate all’interno della biologia umana, grazie all’azione dei geni. Oltre a quanto detto nel post precedente, scopriamo così che geni e memi non hanno solo peculiarità simili, ma sono anche legati gli uni agli altri attraverso il potere degli istinti. In altre parole, il gene massimizza le possibilità di sopravvivere e replicarsi, suggerendo al suo organismo ospite la sensibilità agli istinti primari ovvero:
pericolo
cibo
sesso
Tutti i comportamenti primordiali sono riconducibili a questi tre istinti, ed è un luogo piuttosto comune (un’utopia?) pensare che cultura e civilizzazione siano in grado di tenerli a bada. Ma quando si parla di cultura e civilizzazione, stiamo parlando proprio di informazione e quindi, guardacaso, di memi. Così è facile rendersi conto che non sono tanto cultura e civilizzazione a tenere a bada gli istinti, ma piuttosto sono i memi a servirsi degli istinti per diffondersi e replicarsi. In effetti si può considerare che i memi abbiano iniziato a proliferare e a evolversi nel momento in cui l’essere umano ha raggiunto quel minimo grado di intelligenza tale da consentirgli di interagire con i suoi simili attraverso una qualsiasi forma di comunicazione.

.Le relazioni pericolose
Molto probabilmente ciò è avvenuto attraverso la trasmissione del concetto di “pericolo”. Il pericolo, di qualsiasi natura sia, un incendio, un predatore, una corrente troppo forte, la minaccia di un gruppo terrorista o un'imminente crisi economica, è così intimamente legato all’istinto di sopravvivenza, che la sua discriminazione anticipata diventa di importanza cruciale al fine della preservazione dell’individuo, e quindi dei geni che l’individuo porta con sé. Questo vale anche nel comportamento di moltissimi animali. Non c’è niente cui l’uomo sia più sensibile come al pericolo e alla paura che vi si associa come sentimento. Se si vuole fare una campagna di educazione stradale, per esempio, è più efficace mostrare immagini con le tragiche conseguenze di una condotta sbagliata, piuttosto che insistere sulle regole di un comportamento corretto. I memi associati al pericolo sono quindi “buoni memi”. La capacità da parte dell’individuo di tenere sotto controllo il pericolo e la paura, va a beneficio degli altri due istinti. Maggiore sicurezza infatti significa sia maggior possibilità di ricerca di cibo, sia maggior possibilità di accoppiamento. Questo non è vero solo nelle foreste di migliaia e migliaia di anni fa, ma anche nella società odierna, dove il termine “sicurezza” può essere inteso non solo in senso preistorico, ovvero come incolumità personale, ma anche come “sicurezza economica”. Così, dopo aver scampato il pericolo, l’altro grande istinto da placare è il bisogno di cibo. La fame è un istinto fortissimo, essendo, come il pericolo, strettamente connesso alla sopravvivenza dell’individuo. Basta fare caso ai memi legati al cibo o alla cucina che vengono diffusi da radio, TV, riviste, amici. Non solo il cibo è uno dei nostri bisogni primari, ma al cibo è spesso anche legata la ricerca della nostra accettazione nei confronti del prossimo, ovvero soprattutto la soddisfazione del nostro terzo istinto: accoppiarci. E qui veniamo all’argomento caldo.

La prossima volta però.

/continua

sabato 23 ottobre 2010

Einstein, sesso e rock & roll

.Tre punti fermi
Riprendiamo il discorso precedente dal parallelo di Dawkins tra codice genetico e informazione. Ebbene, esistono tre caratteristiche fondamentali che accomunano geni e memi: longevità, fecondità e fedeltà di copiatura. La prima indica che un meme, come un gene, deve durare per lungo tempo. Nel nostro patrimonio genetico sono presenti sequenze di basi che sono lì da milioni di anni, mentre ci sono memi saldamente radicati nella nostra mente fin dalla preistoria come - per esempio - l’idea della divinità. Altri memi possono invece essere più recenti. La breve sequenza di note di Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo è un motivo musicale che è certamente nella vostra testa e probabilmente resterà memorizzata anche in CD, DVD, file mp3 e spartiti musicali ancora per molte decine di anni, se non centinaia, e tramite questi supporti verrà trasmessa ad altre menti ancora per molto tempo. Ma ancor più della longevità, per i memi è importante il concetto di fecondità, ovvero la misura con cui un meme è in grado di replicarsi. Restando in tema musicale, la fecondità di una canzone potrebbe essere misurata in termini di vendita di CD, la fecondità di un’idea scientifica potrebbe essere valutata in base al numero delle sue citazioni in successivi articoli scientifici, e la fecondità di un blog dal numero delle sue visite o dei commenti che riesce ad attrarre per ogni suo post. Da questo punto di vista Yesterday e la Teoria della Relatività Generale contengono memi molto fecondi, come pure i blog che - in un modo o nell'altro, a proposito o meno - parlano di sesso.

.Cosa conta
Tuttavia la vera bontà di un meme, come quella di un gene, si evidenzia dalla migliore combinazione tra longevità e fecondità. Esistono idee o canzonette che si diffondono in maniera assai rapida, ma che vengono dimenticate molto presto, e altre che invece sono destinate a durare a lungo pur diffondendosi magari più lentamente. Solo in questo secondo caso si potrà parlare di memi davvero buoni. Per quanto riguarda invece la terza caratteristica, la fedeltà di copiatura, è abbastanza intuitivo che sovente i memi non possiedano un’alta fedeltà di copiatura. I memi che ho scritto in questo articolo sono già alterati rispetto a quelli di cui ho letto e mi sono documentato e, in questo stesso momento in cui state leggendo questo post, nel vostro cervello si stanno diffondendo memi che probabilmente sono già diversi rispetto agli originali. Se poi parlerete di questo argomento con qualche vostro conoscente, a vostra volta replicherete i miei memi in maniera leggermente alterata e così via. Accade un po’ come nel gioco del telefono senza fili, in cui il primo giocatore esprime una frase o un concetto che, con un passaparola, viene trasmesso a un altro giocatore e poi a un altro ancora in una catena di “n” giocatori al termine della quale il concetto torna al giocatore di partenza il quale, a questo punto, avrà seri problemi a riconoscere il concetto di partenza.

.Sintesi
La fedeltà di copiatura può dunque essere un modo di pensare all’evoluzione dei memi analogamente a quando avviene un errore nella trasmissione del patrimonio genetico. Se l’errore che avviene nella trasmissione del nuovo codice genetico conduce alla costruzione di un individuo con maggiori possibilità di replicare e diffondere il suo DNA, ovvero anche quel gene, il nuovo gene si diffonderà, altrimenti scomparirà nell’arco di poche generazioni. Stessa cosa succederà per il meme evoluto. Così, secondo i moderni modelli suggeriti dalla genetica e dall’evoluzione, e dalla memetica e dalla psicologia evoluzionista, è perfettamente legittimo considerare geni e memi come entità che hanno un loro scopo, ancorché inconsapevole: sopravvivere e replicarsi. In quest’ottica ogni essere umano è il risultato finale di una sintesi tra geni incorporati nel nucleo delle sue cellule e memi acquisiti dall’esterno durante tutta la sua esistenza. Ma se da un lato, come abbiamo visto, un gene sopravvive se è buono, ovvero se corrisponde a caratteristiche vantaggiose per il corpo che lo ospita e in questo modo si trasmette alle generazioni future, su che cosa fa leva il meme?

Ne parliamo al prossimo giro.

/continua

giovedì 21 ottobre 2010

La mente soggiogata e il pannolino vincente

.Ouverture
Come forse i più assidui frequentatori di Marte avranno capito, uno degli argomenti che più mi stanno a cuore, e che non a caso fa parte anche gli scopi primordiali di questo blog, è l'indipendenza del pensiero, la capacità dell'individuo di porsi domande, di non dare niente per scontato, in una parola di dubitare. E nell'età dell'informazione, questo è tanto più un argomento scottante, quanto più è difficile discriminare la realtà dalla finzione e la verità dalla manipolazione, soprattutto in considerazione del fatto che la conoscenza della verità è sempre soggetta a un determinato grado di approssimazione e che l'uomo (ma anche il marziano) tende a esercitare una pigrizia innata che lo porta a credere a priori, piuttosto che a mettere in discussione.

Così, partendo dall'affermazione che ho fatto in un commento, ovvero che i media spesso giustificano i loro palinsesti dicendo di propinare quello che gli spettatori vogliono, ma senza dimenticare anche che i media sono in grado di modificare i gusti degli spettatori e dunque di decidere che cosa gli spettatori devono volere, e riferendomi genericamente agli ultimi post che hanno proprio ruotato intorno al ruolo dei media nella rappresentazione di alcune recenti vicende di cronaca italiana, vorrei arrampicarmi su una montagna e guardare la faccenda da una posizione sopraelevata, dare insomma uno sguardo al fenomeno nel suo insieme. E per farlo mi ci vorrà qualche post. Spero avrete voglia di seguirmi in questo percorso.

.La domanda
Partiamo dunque con la domanda di base: ritenete di essere liberi di pensare? Pensate davvero di essere in grado di compiere scelte in maniera completamente autonoma? Benché possiate non essere d’accordo con me, lasciate che vi dica che molto probabilmente la risposta a entrambe le domande è No. Gli ultimi cinquant’anni, ma in particolare gli ultimi venti, hanno visto una crescita esponenziale dei metodi di diffusione dell’informazione. Senza entrare nel merito specifico della loro qualità, i media si sono espansi per quantità e velocità, diventando sempre più invasivi e pervasivi. Televisione, editoria, telefonia cellulare, Internet, tutto ciò che fa cultura e comunicazione contribuisce a creare e a diffondere - consapevolmente o meno - dei nuclei di pensiero e di opinione che si insinuano nella mente delle persone e si replicano, contagiando altre menti come vere e proprie epidemie di idee. Ma non basta. Essi sono capaci di evolversi e modellare i vostri pensieri e le vostre azioni come creta senza che ve ne accorgiate. Credete che stia esagerando?

.Di cosa stiamo parlando
Il primo a introdurre il concetto di “meme” fu Richard Dawkins nel suo celebre Il gene egoista (1976, Mondadori). “Meme” è l’abbreviazione di “mimeme” dalla radice greca che significa imitazione e per il celebre biologo costituisce l’analogo culturale di quello che per la biologia è il gene. Esiste infatti una potente analogia tra la trasmissione e l’evoluzione dei geni e la trasmissione e l’evoluzione dei memi. Il DNA, ovvero il gene, è la molecola replicante che, partendo da una sorta di brodo primordiale, ha prevalso negli organismi biologici, mentre il meme è “l’unità base della trasmissione culturale o imitazione”. Per Dawkins un meme può essere “un motivetto, una frase a effetto, i vestiti alla moda, forme di vasellame o di arcate”. Nel corso degli anni a venire, durante i quali il concetto di meme è stato studiato e si è sviluppato, sono poi sorte altre definizioni, come quella psicologica di Henry Plotkin secondo cui “un meme è l’unità dell’eredità culturale analogo al gene, [...] la rappresentazione interna della conoscenza”, o quella di Richard Brodie in base alla quale “il meme è un’unità di informazione in una mente, la cui esistenza influenza eventi tali che più copie di esse vengono create in altre menti”.

Ecco alcuni esempi piuttosto comuni. Una canzone che resta in vetta alla hit parade per molte settimane contiene buoni memi, una religione che fa molti proseliti ha alla base buoni memi, la pubblicità di un pannolino che ne incrementa le vendite diffonde buoni memi, un video cliccato da milioni di persone su You Tube possiede buoni memi. Ma attenzione: con “buoni memi”, non intendo tanto memi che abbiano caratteristiche buone o positive, quanto piuttosto memi che possiedono un’elevata capacità di replicarsi, proprio come i geni. Insomma, come il gene si trasmette di generazione in generazione, secondo le regole biochimiche proprie della basi azotate e condiziona l’aspetto e il funzionamento del corpo in cui abita, il meme si trasmette di cervello in cervello e condiziona il comportamento della mente in cui riesce a mettere radici. Da questo punto di vista il gene è l’elemento basilare che costituisce l’hardware, ovvero il nostro corpo, mentre il meme è il mattone fondamentale che costituisce il software, ovvero la nostra mente, i nuclei di pensiero e di opinione di cui parlavo prima. Il punto cruciale è che, come secondo Dawkins avviene per il gene, l’unico scopo del meme è di sopravvivere e replicarsi il più possibile, proprio come un virus. E questo il più delle volte avviene in maniera non consapevole, andando così a mettere in dubbio la libertà di pensiero del soggetto.

Come ciò possa avvenire, lo vedremo a partire dal prossimo post.

/continua

lunedì 18 ottobre 2010

Del Grande Gioco e di altre prostituzioni

I media rappresentano la realtà. È il loro lavoro e lo fanno seguendo le regole del Gioco, anche in considerazione del fatto che, sia quelli al di qua del video, che quelli davanti alle telecamere, concorrono entrambi a realizzare il Gioco stesso. Anzi, a ben vedere si tratta di un gioco a quattro: i Media, la Realtà, gli Sponsor e gli Utenti, e basta che manchi uno solo di questi soggetti per far affondare il Gioco stesso. Mi chiedo dunque cosa ci sia mai da scandalizzarsi se in un telegiornale l'uscita dei minatori viene paragonata all'uscita dei ragazzi dalla casa del Grande Fratello. Stesso tipo di entusiasmo, di protagonismo, di gestualità, di luci, di obiettivi schierati. Il paragone in effetti è legittimo e, come spesso riesce a fare la potenza della metafora, la dice più lunga di tutti i possibili editoriali, saggi e opinioni di esperti di teoria della comunicazione e dell'informazione. Ma cosa c'è davvero di male?

I media rappresentano la realtà. Dunque ne fanno un racconto e come tale non corrisponde mai alla verità, ma è giocoforza una narrazione o, se vi piacciono i neologismi, una fictionizzazione. Se a questo si aggiunge il fatto che i media si propongono (e dunque vengono percepiti) come stimolatori della celebrità, in un ciclo perverso in base al quale se sei famoso vai sui media, ovvero se vai sui media sarai famoso, e che oggi viene persino data agli Utenti la possibilità di autogestire il Media stesso con videocamere, telefonini e You Tube, è difficile meravigliarsi per dei picnic domenicali sui luoghi del delitto, con il plaid scozzese piazzato il più possibile vicino al pozzo, due panini (preconfezionati) e poi via, a farsi le foto di fronte al garage. Sorprende forse di più la reazione ipocrita dei media ufficiali che si scandalizzano di fronte a queste manifestazioni, abbozzano un'autocritica sulla spettacolarizzazione del crimine e del dolore, e poi - pettinata per bene la coscienza - continuano come prima. In fondo una gita ad Avetrana è comandata dagli stessi impulsi di una visita ai cancelli di Neverland. Sentire il profumo di quello che i media hanno mitizzato e, in questo modo, sentirsi parte di quello stesso mito, e magari contribuire a crearlo. Ma anche - perché no? - avere bisogno della conferma di una realtà apparentemente troppo brutta e tragica per essere vera. Eppure tutto questo fa parte del Gioco e degli effetti delle sue regole. Perché dunque stigmatizzare le sue conseguenze, quando la colpa è del Gioco stesso?

I media rappresentano la realtà, ma lo fanno filtrando quello che fa comodo a loro. È come assaggiare un dado da brodo e credere che quello sia il gusto del brodo. Quello che viene offerto dai media è un concentrato di realtà il cui gusto non corrisponde a quello della realtà stessa. Eppure l'effetto è questo - l'amplificazione - e, a dispetto delle proteste e di tutte le possibili autocritiche, è inutile dire che non è giusto. Che è uno schifo. Che la TV del dolore è scandalosa perché strumentalizza la tragedia a scopo di lucro. In realtà tutto quello cui si assiste è solo la conseguenza delle regole del Gioco di quest'epoca, regole globali, che nel corso degli ultimi decenni sono emerse in maniera naturale da questo modello di società, esattamente come una coscienza può emergere da un'intelligenza artificiale. Se dunque vi scandalizzate della televisione, dei media e dei loro spettacoli, allora dovreste scandalizzarvi prima di tutto di tutte le regole del Gioco che fanno sì che quelle manifestazioni conquistino l'attributo di normalità.

Insomma, da quassù sto maturando sempre più la convinzione che anche questa faccenda stia acquisendo lo status di luogo comune, di bandiera da sventolare per sentirsi migliori. L'ennesima ipocrisia liofilizzata e sponsorizzata. D'altro canto voi siete gli Utenti, ovvero uno dei quattro soggetti necessari affinché il Gioco esista, quindi sarebbe sufficiente il vostro agire per farlo crollare. Sarebbe la più grande rivoluzione non violenta della storia. Ma non credo che ce la farete mai perché, anche se non lo ammetterete mai, questo Gioco vi piace troppo.

giovedì 14 ottobre 2010

Il bigodino della speranza

Due mesi abbondanti di campeggio in uno dei deserti più duri del pianeta possono mettere alla prova le unghie e i capelli di chiunque. Figuriamoci se non è una vacanza. Ecco dunque doppie punte, colori spenti, chiome polverose e sfibrate, pelle stanca, occhiaie e unghie rotte, magari anche rosicchiate, date le circostanze. Così, prima dell'inizio delle operazioni di salvataggio dei minatori, signore e ragazze, mogli e figlie - poco più di una trentina in tutto - hanno lasciato il campo in cui hanno vissuto tutte le fasi di questa vicenda ormai finita in un meraviglioso happy end, e sono andate a farsi belle.

Secondo quando riportato da moltissimi siti di news di tutto il globo, poche ore prima dell'inizio dei viaggi della capsula, la Peluquería Palumbo di Copiapo ha offerto trattamenti di bellezza a tutte le protagoniste. Capelli, tinte, manicure, forse anche qualche maschera per stappare i pori da quella sabbia senza vita. Sembra che il salone di bellezza abbia offerto gratuitamente i trattamenti, forse in cerca di pubblicità. Ma non è questo il punto. Il punto è che c'è qualcosa di meraviglioso in questo.

Pensare a queste donne che si accomodano su una poltrona imbottita di finta pelle e si fanno massaggiare la faccia e che, con i bigodini colorati in testa e la retina, si lasciano limare le unghie incremate, ha qualcosa di commovente. Perché quando gli uomini usciranno sporchi e provati da settanta giorni di buio, polvere, umidità e aria viziata e la mancanza di un bagno degno di questo nome, con tutta la stanchezza fisica e psicologica, ancorché mitigate dalla felicità di essere rinati, questa volta dal ventre della Terra, cosa potrà importare loro dell'aspetto della moglie o della figlia?


Di certo la prima cosa che si sono detti abbracciandosi non è stata: «Ti piace il mio nuovo taglio?» fosse anche solo per gli occhiali scuri che hanno impedito ai redivivi di vedere la nuance Biondo Miele (cod. 5.34) o le unghie madreperlate con quella sfumatura color salvia (537) che va tanto di moda. Eppure le donne lo hanno voluto fare ugualmente. Per rilassarsi, per cercare normalità, per amore, perché farsi i capelli significa pensare che domani sarà un domani degno di avere i capelli in ordine. Un domani (di nuovo) felice.

A meno che, naturalmente, non l'abbiano fatto per le telecamere.

mercoledì 13 ottobre 2010

Al fast food della violenza

Agli esseri umani piace sentirsi parte di qualcosa di speciale. Li gratifica. Nel bene, come nel male. Anzi, soprattutto nel male. Dopo i recenti episodi di violenza, il tassista preso a botte e mandato in coma per aver involontariamente investito e ucciso un cane; una donna - ieri - cui è accaduta una cosa simile per una lite scoppiata per futili motivi; o ancora il tizio che uscì di casa qualche tempo fa e uccise la prima donna che incontrò; per non parlare dei casi di molestia, dalla vicenda di Sarah Scazzi, alla bambina di due anni molestata dal fidanzato ventunenne di sua sorella, sembra stia succedendo qualcosa nell'immaginario delle persone.

Ieri ho letto e sentito in giro di persone indignate, che parlavano di virus della violenza o di follia diffusa nelle persone cui gli uomini si troverebbero esposti oggigiorno, come se questi tempi fossero in qualche modo speciali, come se bisognasse trovare per forza un contenitore in cui mettere questa violenza, forse per capirla, disciplinarla, saperla distinguere o, forse, per riuscire a scartarla, eluderla, come se tutti quanti ne fossero potenzialmente esposti e rischiassero il contagio, come se i tempi fossero diversi, cambiati rispetto a un ipotetico prima. E se i tempi sono cambiati significa che prima era meglio, e se prima era meglio, significa che c'è speranza, perché si può sempre sperare in una remissione, di tornare - almeno per un po' - in una fase migliore di questa, com'era - appunto - prima.

Mi spiace deludervi, ma non è così. Da quassù forse ho la fortuna di vederlo meglio, perché la mia posizione mi consente una visione d'insieme che a voi è preclusa. Vi piaccia o no, l'uomo (ma anche il marziano) è un animale. L'uomo sbaglia. L'uomo ha istinti. L'uomo è violento. Siete davvero convinti che nel medioevo, o ai tempi dei romani, o nel XVII secolo le cose andassero meglio? No. Anzi, penso decisamente che vadano meglio ora, a dispetto di quello che si legge, e si sente, e si vede in giro. Perché è proprio qui che sta il fulcro, la differenza: quello che si legge, e si sente, e si vede in giro. I media.

Giornali e televisioni servono in continuazione il menù della disgrazia. È quello che sanno fare meglio, l'unica cosa che dà un senso alla loro esistenza, sempre in bilico sul filo del rasoio dell'audience, sia essa fatta di spettatori o di lettori. Così il loro compito è cercare, filtrare, vagliare, trovare e raccontare tutte le storie di violenza del mondo e cucinarvele e servirvele in tempo reale, meglio se stanno ancora accadendo, come delle patatine fritte cotte al momento. Sbattervi in faccia il sangue e il dolore e le lacrime e, quando si è fortunati, anche la morte. Perché è quello che vi fa dimenticare il telecomando o cliccare sul link giusto. E la scorpacciata di violenza è servita. Burp.

Tuttavia non dovete mai perdere di vista il fatto che sono i media che confezionano quel menù apposta per voi. Tutto insieme. Ve lo evidenziano, ve lo esaltano, ve lo enfatizzano, affinché voi compriate, leggiate, clicchiate... Così, a un certo punto, senza neanche bene sapere perché, come un fegato spappolato dai continui fritti quotidiani, vi ritrovate convinti che il mondo sta andando a rotoli oggi. In realtà tutto è iniziato molto tempo fa. Tutto ha cominciato ad andare a rotoli quando avete preso un osso tra le dita, avete pensato bene di poterlo brandire come una clava e avete cominciato a usarlo per ammazzare più velocemente la vostra prossima preda. Eravate ancora tutti pelosi, ma l'idea del fast food era già dentro di voi.

martedì 12 ottobre 2010

Morti bianche. E rosse. E verdi.

L'Afghanistan non è un Luna Park. E dall'1 gennaio 2005 i militari ormai sono professionisti. Dunque non è che ti arriva a casa la cartolina e sei costretto a salire sull'ottovolante, lasciando il caffè sul fuoco, la moglie sotto la doccia e il bambino da cambiare. Non succede più così. Professionisti significa che quello che fanno è il lavoro che hanno scelto di fare. E nel ventaglio delle possibilità, c'è anche quella di essere mandati (o di chiedere di andare, perché per molti - tutti? - vale l'autocandidatura) in posti molto pericolosi.

L'Afghanistan non è un Club Med. E il massimo dell'animazione che ti può capitare è una visita del Ministro La Russa. Ma sei tu, soldato, che l'hai scelto nella consapevolezza della pericolosità del luogo e nella speranza che non succeda niente di male. Perché nessuno verrà a dire che i ragazzi (e le ragazze) sono stati convinti ad andare là dicendo loro che era quattro stelle, all inclusive, con piscina, solarium e campi da tennis. Non credo che ci sia laggiù nessuno che non voglia essere laggiù, non fosse altro che per uno stipendio che a casa nemmeno se lo sogna.

L'Afghanistan non è Las Vegas. E se la roulette fa uscire il tuo numero, non sei un eroe. Sei solo un morto sul lavoro, ma con in più le attenuanti che sapevi che era un lavoro molto pericoloso e che il datore di lavoro ha tutte le carte in regola con la 626. Ed eri consapevole che il rischio di incrociare la traiettoria di un cecchino o di mettere il piede su una mina era dietro l'angolo, anche se speravi di non svoltarlo mai. Altrimenti pensi sarebbe il caso di andarsene in giro bardati in quel modo, con il mitragliatore al braccio, il giubbotto antiproiettile sul cuore e qualche granata appesa alla cintura, solo per distribuire merendine al cioccolato ai bambini?

L'Afghanistan non è una Beauty Farm, né una pasticceria, benché il botulino usato per appianare le rughe del tuo Governo scorra a fiumi e ci siano vetrine piene di torte da fare a fette nell'enorme giro di affari della ricostruzione. Invece è una Missione di Pace, chiamata tale per poter farsi beffe dell'Articolo 11 della Costituzione. E tipicamente se provi a metterti in mezzo tra due che non riescono a fare la Pace, finisce che l'occhio nero te lo fai pure tu, anzi per primo tu, che sei venuto a immischiarti. E adesso è inutile che ti stracci le vesti e gridi: «Basta, dobbiamo tornare indietro!» Il punto, semmai, è che non ci si doveva andare fin dal principio. Ma se adesso hai preso degli impegni, e l'hai fatto anche nei confronti di una comunità internazionale, non puoi mica fare i capricci, pestare i piedi e dire che il gioco non ti piace più, portarti via il pallone e tornartene a casa facendo marameo a tutti quelli che restano in prima linea. Purtroppo non è così che funziona, a dispetto del dolore e dell'emotività del momento. Tutto il resto ha il puzzo acre della solita ipocrisia e della strumentalizzazione politica. Un puzzo che assomiglia tremendamente a quello della polvere da sparo.

L'Afghanistan è (ancora) una fabbrica di morti. Già se n'erano accorti a loro spese i sovietici. Si può soltanto ringraziare che adesso la fabbrica non funziona più tanto bene.

lunedì 11 ottobre 2010

Matrioska freudiana in salsa Bond

Questo post è per coloro che hanno (già) visto Inception, oppure non l'hanno visto, ma non intendono andarlo a vedere, oppure intendono andarlo a vedere, ma se ne fregano se inciampano qua e là in qualche particolare del film. Insomma, a qualsiasi categoria di lettori apparteniate, sapete di cosa parla questo post e siete avvisati. Ma sappiate di poter leggere senza temere granché, a patto di saltare il paragrafo tre.

1.
Cominciate col leggervi per favore questa breve poesia.
Questo mio bacio accogli sulla fronte!
E, da te ora separandomi,
lascia che io ti dica
che non sbagli se pensi
che furono un sogno i miei giorni;
e, tuttavia, se la speranza volò via
in una notte o in un giorno,
in una visione o in nient'altro,
è forse per questo meno svanita?
Tutto quello che vediamo, quel che sembriamo
non è che un sogno dentro un sogno.

Sto nel fragore
di un lido tormentato dalla risacca,
stringo in una mano
granelli di sabbia dorata.
Soltanto pochi! E pur come scivolano via,
per le mie dita, e ricadono sul mare!
Ed io piango - io piango!
O Dio! Non potrò trattenerli con una stretta più salda?
O Dio! Mai potrò salvarne
almeno uno, dall'onda spietata?
Tutto quel che vediamo, quel che sembriamo
non è che un sogno dentro un sogno?
2.
La composizione è A dream within a dream di Edgar Allan Poe (1849), e dimostra come in Inception, Christopher Nolan non abbia tirato fuori qualcosa di davvero nuovo. La fascinazione ipnotica del sogno dentro al sogno è roba che arriva da lontano, insomma, ma senza dubbio Nolan gli ha conferito una veste cinematografica tale, sia dal punto di vista del soggetto, che della sceneggiatura, che della regia, da riuscire a coniugare in un'unica pellicola il thriller, la fantascienza, l'avventura, la storia d'amore, la filosofia e il film d'azione, in maniera coerente (al 90%), piacevole e accattivante. E di questi tempi, va detto, non è poco. Però... ci sono almeno due grossi però, che mi sono emersi non solo dalla visione del film, ma anche dalla lettura di recensioni, commenti e dibattiti in giro, e che voglio tentare di argomentare qui.

3.
Il primo però è: come si interpreta il finale del film?
Se vi aggirate per la rete, troverete i forum intasati dai thread sul film e suprattutto sul significato del finale, tra la ricerca spasmodica del riconoscimento di indizi sottili che il regista avrebbe sparso per la pellicola al fine di agevolarne - si fa per dire - la comprensione, e la formulazione di interpretazioni complicatissime che in confronto la Fenomenologia dello spirito di Hegel è Novella 2000. Ho addirittura letto di gente "disperata", perché non ha capito (inizio spoiler) se alla fine Cobb i suoi figli li rivede nella realtà o nel sogno, e se la trottola finale, la cui scena è appositamente tagliata anzitempo da Nolan, si fermerà oppure no, dipanando così il dubbio se quella sia la realtà, oppure il sogno.

Questo è piuttosto sintomatico di come si pongono le persone, ma per lo più i giovani, nei confronti dell'incertezza e del ragionamento. Da un lato, l'incertezza, l'ambiguità, il dubbio, benché facciano parte integrante dell'esistenza di ogni individuo, sono cose insopportabili, difficili da digerire. E se si pensa che tali concetti sono fortemente legati all'idea di futuro, questo ci fa capire quanto i giovani abbiano difficoltà a relazionarsi con esso. Ma questa è altra faccenda. Dall'altro, basta un po' di osservazione e di ragionamento per capire che non c'è proprio un accidente da capire. Non c'è bisogno di scomodare alcuna teoria metafisica più o meno strampalata. Il finale è chiaro e lineare.


Ed è che a Cobb non frega niente della trottola. A lui interessa che - finalmente! - i suoi figli si voltino, lo vedano e lo abbraccino. Difatti lo spettatore lo vede girarsi verso di loro, mentre la trottola ancora ruota su se stessa, e come non guarda lui, se la trottola si ferma o no, non la guarda neanche lo spettatore. Punto. Fine. Perché in fondo tra realtà e sogno non c'è alcuna differenza, se quella del sogno è una realtà talmente perfetta e condivisibile, da risultare sensorialmente indistinguibile dall'altra, come viene presentata nel film. In fondo nel film Cobb ha vissuto cinquant'anni nel sogno con la moglie e quindi lui stesso afferma che comunque quel tempo lo ha vissuto ed è quindi come se quel tempo lo avesse trascorso sul serio con lei, no? Come se fosse stato ugualmente concessa loro una "vita insieme". Quindi sul finale non c'è niente da discutere. O voi la pensate diversamente? (fine spoiler)

4.
Il secondo però è: Inception è davvero l'opera migliore di Nolan, il capolavoro che aspettavamo, il film del decennio, il nuovo Matrix, quella che lo consacra come il nuovo Kubrick, come ho letto da più parti, quasi unanimemente?
La mia personale risposta è NO. Inception è un buon film, sotto certi aspetti è un ottimo film di azione, merce rarissima di questi tempi, ma non persegue una "rottura" con quanto si vede al cinema di questi tempi. Tutt'altro. Ed è proprio l'eccessività dell'azione a penalizzare la pellicola su questo fronte, da cui il titolo del post. E questo, a mio avviso era un po' lo stesso difetto de Il cavaliere oscuro, insieme alla lunghezza esagerata. Senza contare l'inflazione di personaggi monodimensionali e del tutto inutili ai fini dell'intreccio e dell'emozione.

Per questo sono stato colto dalla sensazione - anche se non è ancora una convinzione, ma di questo avrò eventualmente conferma al suo prossimo film - che Nolan si stia via via sempre più blockbusterizzando e per questo si veda costretto (?) ad abdicare, almeno in parte, alla sua autorialità, per soddisfare le esigenze di sbanco dei botteghini dettate dalle grandi case di produzione hollywoodiane. Del resto chi conosce la filmografia di Nolan, si sarà accorto che pellicole come Memento e The Prestige sono cinematograficamente superiori di almeno una spanna a Inception, che nei loro confronti può vantare giusto il primato della spettacolarità.

5.
Così, leggere in giro tutta questa esagerata esaltazione per questo film, mi ha fatto chiedere una cosa: gli ultimi dieci (venti?) anni di cinema e televisione sono forse riusciti ad abbassare drasticamente e inconsapevolmente le aspettative cinematografiche (e le soglie critiche) degli spettatori?

venerdì 8 ottobre 2010

Lapidazione semantica

In base ai risultati di un recente sondaggio, agli esseri umani le cose che piacciono di più sono: il calcio, la cioccolata, le spiagge esotiche, le auto di lusso, le patate fritte e, naturalmente, linciare la gente. Una volta lo si faceva all'aperto. Ci si armava di forconi, bastoni, rastrelli e qualche fiaccola, si prendeva senza troppi complimenti la persona in questione, la si legava, la si trascinava alle porte della città, vicino a un albero abbastanza alto. Poi una corda lanciata intorno a un ramo nodoso come uno scheletro, un cappio, un nodo scorsoio e quando lo sgabello si ribalta o il cavallo prende a galoppare, giustizia è fatta. Una bella giustizia: efficace, rapida, con certezza della pena.

In queste ore dalle vostre parti si sta consumando qualcosa di simile, ancorché con mezzi diversi, ma forse soltanto più moderni. Media, blog, forum, TV, Facebook si scagliano contro quest'uomo che ha compiuto un'azione efferata e spaventosa, agghiacciante e vomitevole. E gli appellativi vengono lanciati come pietre aguzze: bastardo, orco, mostro, bestia. Quando va bene, pazzo. Come un sasso un po' più arrotondato. Eppure questa che parla è tutta gente che non c'entra alcunché con la faccenda. Non mi riferisco dunque ai professionisti delle notizie, quelli la cui penna è gravata del peso della vendita e dell'audience e per questo hanno una giustificazione (per quanto condivisibile o meno), bensì studenti, impiegati, medici, avvocati, commessi, manager, aspiranti scrittori, idraulici, ingegneri, programmatori, aspiranti cantanti, bancari, camionisti e baristi. Costoro una giustificazione non ce l'hanno. Tuttavia se ne stanno tutti lì, a volte quasi come fosse un dovere, e gridano al bastardo, orco, mostro, bestia! E lo fanno come se questo facesse stare meglio loro, sfogasse una specie di rabbia empatica, perché di certo al bastardo, orco, mostro, bestia non gliene frega proprio niente, in questo momento, degli indici puntati su di lui e delle grida e delle smorfie e degli sputi. Senza dubbio ha ben altro cui pensare. Come non può importare a quella madre che ha perso la figlia in quel modo, né alla figlia dell'assassino, che in pochi istante si è ritrovata un genitore trasfigurato in un'anima nera come il fondo di quel pozzo. Anche loro hanno certamente altri pensieri per la testa.

Invece questo assassino è solo un uomo. Un disgraziato, se volete. O un folle. Uno sciagurato. Un miserabile. Un infame. Di attributi e sinonimi ce ne sono in quantità, ma non sono di utilità a nessuno, se non a illudere chi li lancia di aver esercitato un surrogato del linciaggio. Costui è un uomo che ha commesso un gravissimo delitto. E se esiste uno Stato e dunque una Legge che prescrive quale deve essere la pena in questi casi, ebbene è il momento di lasciare fare. È il momento del silenzio e del rispetto nei confronti di tutti, anche soltanto perché, che piaccia o no, come la vittima anche l'assassino è un "essere umano" e basta questo a conferirgli il privilegio di avere dei "diritti". Per lo stesso motivo per cui non bisogna mai smettere di rifiutare di appendere un uomo a un ramo o di prendere a pietrate una donna, per quanto la vocina dell'istinto a volte da qualche parte sussurri (o gridi) il contrario. Perché non ha alcun senso cercare di arginare il compimento di un delitto, con la perpetrazione dello stesso identico delitto. Anche se a volte è difficile applicarlo, il principio del rispetto per la vita vale sempre, che siano cappi, pietre o aggettivi.

giovedì 7 ottobre 2010

Minotauro part-time

Oltre 700 km di autostrade e una via crucis di cantieri monumentali che sembra debbano ricostruirci le piramidi (ma grosse il doppio) mi separano da Brema a quella che è una tappa un po' speciale del mio lungo viaggio teutonico, essendo l'ultima prima del rientro sul mio pianeta. Così mi pregusto una dolce e tranquilla giornata per distendere le mie antenne nella natura della Foresta Nera di cui Friburgo (in Brisgovia), mia méta finale, è la capitale regionale. E mentre l'automobile corre (mica tanto) verso sud, mi è facile fantasticare di boschi incontaminati, montagne selvagge, un'accogliente cittadina caratteristica e dei bei menù a base di piatti tradizionali. Ci potrebbe essere modo migliore per mettere il sigillo a un viaggio bello, ma - ammettiamolo - per nulla rilassante come questo? Tuttavia non è andata proprio così. Del resto, quando mai va così?

Innanzitutto Friburgo (in Brisgovia) non è l'accogliente cittadina caratteristica che mi aspettavo, bensì è di giorno una teoria infinita di negozi e centri commerciali degni della più selvaggia globalizzazione, mentre di notte diventa (inaspettatamente) l'anticamera di un'alcova, con locali notturni da imbarazzo della scelta, professioniste in attesa di clienti e dilettanti a caccia in supertiro. A onor del vero, va detto che l'aspetto che forse maggiormente caratterizza Friburgo (in Brisgovia) è la fitta rete di bächle, piccoli ruscelletti di acqua limpida proveniente dalla Foresta Nera che, incanalati nelle strade parallelamente ai marciapiedi, solcano tutto il centro, come piccole e singolari arterie di freschezza. Un tempo erano utilizzati contro i frequenti incendi, oggi sono un refrigerio per i residenti d'estate, un motivo di gioco per i bambini, e una terribile doppia minaccia per i turisti. Doppia perché innanzitutto il rischio di finirci a mollo è a ogni passo, in secondo luogo perché la tradizione vuole che se ci metti il piede dentro ti sposerai un/una del posto e ti fermerai a Friburgo per sempre. Va da sé che a camminare nel centro di Friburgo (in Brisgovia) si finisce con lo stare sempre un po' col cuore in gola. Insomma, per farla breve, nel complesso ci sono sì belle strade, una grande piazza con la cattedrale e un'accogliente zona pedonale. Ma dalla capitale della Foresta Nera mi aspettavo - chissà perché - qualcosa di più "montano", ovvero di meno "metropolitano". E si sa, avere aspettative nella vita è cosa assai pericolosa.

Ma - e qui veniamo alla nota dolente - se andiamo a vedere, Friburgo (in Brisgovia) non è neanche una città. Nossignore. È un labirinto. Complice infatti anche un (altro!) cantiere che devasta un'intera arteria cittadina principale rendendola quindi di fatto inservibile in entrambi i sensi di marcia, e costringendo così a una gimcana di vie, viuzze, inversioni e svolte obbligatorie, mi è risultata impresa impossibile, dopo la serata trascorsa in centro, ritornare all'hotel, essendo la stessa via dell'andata perduta per sempre. Vicoli ciechi. Altre svolte obbligatorie. Indicazioni mancanti. Zone a traffico limitato. Sensi unici a tradimento. Mappa inservibile. Nomi delle strade (quando si degnano di esserci) scritti ostinatamente con quel tipico carattere gotico che sembra ci voglia una macchina Enigma per comprenderli.

Dunque ormai sono le dieci di sera e qualcuno avrà avvistato un marziano che vaga per la città come un autentico idiota. Io che mai mi sono perso in vita mia, nemmeno quando sono andato fin su Alpha Centauri, in quel momento mi si rievoca lo spettro della mentalità tedesca, quella che non ha bisogno di indicazioni, di istruzioni o di regole. E che se ne frega bellamente delle esigenze o delle difficoltà di chi arriva da fuori. Me ne accorgo una volta di più quando d'improvviso un flash mi illumina a giorno, al punto che le mie antenne rattrappiscono impaurite (non potete capire i brividi). In un millisecondo ho mangiato la foglia. Guardo il cruscotto. La lancetta del tachimetro balla intorno ai 45 km/h. «Ma che cazzo di limite c'è qui per far scattare l'autovelox?» Lo scopro dieci metri dopo: 30 km/h. Dico trentachilometriallora! Se questo non bastasse, scopro che il divieto vale solo dalle 22 alle 6 del mattino. E, manco a dirlo, le 22 sono passate da soli dieci minuti. Nonostante ciò non ho neanche il tempo di svalvolare in pace, perché ho sempre il problema di ritrovare la maledetta strada per l'hotel. E intorno a me è un oceano di nulla in una notte di nuvole. Punti di riferimento manco l'ombra. Palazzi tutti uguali. Strade tutte uguali. Incroci tutti uguali. E pensare di provare a chiedere informazioni in inglese in questo momento mi pare roba da fuori di testa. Sono costretto - extrema-ratio - a seguire l'indicazione per l'autostrada, uscire alla medesima ausfahrt con cui sono giunto qui, e rifare la stessa strada del pomeriggio.

Ci impiego solo un'ora, in tutto, per tornare all'hotel. E dire che saranno stati sì e no quattro chilometri. L'indomani mi aspetta l'escursione alla Foresta Nera vera e propria, che scoprirò labirintica pure lei. Arrivare dove mi ero ripromesso di andare, ovvero sullo Schauinsland il monte alto 1284 m che domina Friburgo (in Brisgovia) e da cui si gode una visuale incantevole di tutta la pianura del Reno, sarà solo un puro accidente del caso (leggi: botta-di-culo-spaziale), giacché anche lì le indicazioni sono totalmente assenti, per lo meno in uscita dalla città. La Foresta (Nera) poi disattende le aspettative, benché mantenga promesse di estetica e natura. Non trovo infatti una montagna aspra, incombente su di me, bensì una collinona verde smeraldo, prati ondulati e boschi di pini molto tedeschi. E un ininterrotto tapis-roulant di frutti di bosco che farebbe la goduria di un orso. Bello ugualmente. E alla fine riesco a stemperare la tensione della serata precedente, pregustando, stavolta davvero, il ritorno sul mio pianeta. In fondo è anche questo il bello di un viaggio, no? Che ti faccia venire una voglia matta di tornare a casa.

/fine

martedì 5 ottobre 2010

Per una democrazia cellulare

Vorrei che qualcuno mi usasse la gentilezza di spiegarmi per quale dannato motivo la scienza è nobilis et pulcherrima quando riesce a mantenere in vita un essere umano, anche se è ormai meno vitale di un cactus del deserto, ed è invece diabolica et ignobilissima quando dà la vita a milioni di bambini in grado di ridere, abbracciare, nuotare e contare le stelle del cielo.

So che c'è di mezzo la faccenda della selezione e della soppressione degli embrioni, ma nell'applicazione del principio del primato della vita, e nell'incertezza insolubile del confine tra materia animata e materia inanimata, non dovrebbe essere preminente il principio della vita evoluta e formata, nella certezza che quella è vita? Se dunque deve essere tutelato a oltranza un ben determinato gruppo di cellule del corpo, perché anche non tutte le altre? Allora, sarà peccato sputare, soffiarsi il naso, piangere e tagliarsi i capelli. Quanto a fare cacca e pipì, quello sarà concesso, naturalmente, purché dietro la recita di tre ave-pater-gloria.

(Scusate la parentesi, cui non ho potuto resistere. Vi do appuntamento a dopodomani per la conclusione del resoconto del viaggio in Germania.)

lunedì 4 ottobre 2010

Nel posto giusto (ma al momento sbagliato?)

È sempre capace di sorprendermi l'Effetto Folla. Quell'inquietante fenomeno di manzoniana memoria, per cui le persone, quando si ritrovano riunite in un gruppo più o meno ampio, smarriscono i loro connotati individuali (e quel poco di ragione che - forse - avevano) per trasformarsi in qualcosa di diverso e genericamente maligno, come in una specie di Dr. Jeckyll e Mr. Hyde sociale. Una sorta di meccanismo di smarrimento soggettivo a favore dell'instaurazione di un regime di personalizzazione collettiva che annulla le singole individualità, verso la manifestazione di una creatura globale, come l'espressione di un formicaio, di un alveare, o di un branco in cui sono gli istinti comuni - quelli riconoscibili e riconosciuti da tutti i componenti del gruppo - a prevalere. Ed è proprio su questo che, ci crediate o no, mi ha portato a riflettere la mia visita a Brema.

Sì, perché - oramai incamminato sulla rapida via del ritorno - non sono capitato a Brema in un giorno qualunque. O meglio, che cosa fa di un giorno qualunque un giorno davvero qualunque? Insomma io pensavo che lo fosse, un giorno qualunque, ma quando ho attraversato il ponte sul Weser, avevo già capito dalle sciarpe che qualcosa non andava. Poi ho svoltato a sinistra bordeggiando il fiume, finché ho attraversato la strada e mi sono infilato nella celebre Böttcherstraße. E le magliette hanno alimentato il mio sospetto. Infine sono approdato nella meravigliosa Piazza del Mercato e i cori hanno confermato i presentimenti e seppellito tutte le speranze che si trattasse di un abbaglio. Di tutti i giorni qualunque in cui potevo capitare a Brema, sono capitato proprio nel giorno qualunque in cui il Werder Brema giocava in casa un preliminare di Champions League. E naturalmente non con una squadra qualunque. No. Con una squadra italiana.

Mi sono dunque ritrovato a passeggiare per il centro profumato di storia, per le vie coronate dalle mirabili architetture anseatiche, per il meraviglioso Schnoor, il quartiere originariamente abitato dei pescatori e oggi gioiellino di viuzze e piccoli, antichi edifici colorati e caratteristici (sebbene invero un po' souvenirizzati), senza poter evitare di essere scortato da questa specie di esercito disordinato, eterogeneo nell'aspetto, ma uniformemente colorato e chiassoso nei fatti che, tra una pinta e l'altra, scandiva coretti a tutto volume a favore della propria squadra, o a detrazione non tanto dell'avversario della serata, bensì dell'altra squadra della città di provenienza, di cui peraltro ovviamente non c'erano tifosi in giro. Dunque a chi diamine si rivolgevano costoro? E che gusto poteva mai esserci nel comportarsi così? Per non parlare degli autobus trasformati in gradinate, e quindi praticabili solo a rischio e pericolo di lasciarci il sistema nervoso, con i poveri abitanti locali per lo più a guardarsi intorno smarriti. E allora ho riflettuto pseudoantropologicamente sull'animale-tifosi, quest'essere simbiotico che trova la sua definizione (realizzazione?) nel gruppo, nella Folla di quelli-come-lui, i duri e puri, quelli che ci sono sempre, quelli che si fanno migliaia di chilometri con una bandiera in mano nella speranza di vedere una sfera rotolare nella rete giusta, quelli che magari ci bruciano pure lo stipendio da operaio, che si sentono di esistere solo in funzione della curva, con addosso quella maglietta lì, che quella sciarpa è più di una carta d'identità e quei colori sono più di un certificato di nascita. E allora mi sono chiesto: perché? È il bisogno dell'autosomministrazione di un'emozione preconfezionata, nell'impossibilità (per incapacità, pigrizia, mancanza di coraggio...) di poterla provare in proprio, la ricerca di una catarsi collettiva alle nevrosi ricorrenti del lato oscuro dell'essere umano, o il bisogno di raggiungere un'agnizione identitaria mai trovata altrove?

Eppure, malgrado il casino generalizzato e la difficoltà un po' irritante di scattare fotografie senza tifosi fuori giri sullo sfondo, tutto questo non è riuscito a infrangermi la bellezza di una città ricca di fascino e di calore, come non mi era capitato finora di trovare durante questo lungo percorso. In poche ore di permanenza, vi ho respirato un'atmosfera di maggior apertura, creatività, multiformità, cosmopolitismo, che altrove in Germania - persino più che a Berlino -, e questo l'ho attribuito forse al suo importante porto fluviale (il secondo della Germania dopo Amburgo, che però non ho visitato), che nel corso dei secoli ha senza dubbio favorito lo scambio di merci, ma anche l'incontro di pelli, gesti, colori, abiti, lingue e pensieri. Oppure no. Magari è stato solo merito dei tifosi.

/continua

License

Creative Commons License
I testi di questo sito sono pubblicati sotto Licenza Creative Commons.

Statistiche

Blogsphere

Copyright © Il grande marziano Published By Gooyaabi Templates | Powered By Blogger

Design by Anders Noren | Blogger Theme by NewBloggerThemes.com