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sabato 19 marzo 2016
venerdì 4 marzo 2016
Benvenuti su Ferreromondo (come una specie di follia)
Dal momento che nel mondo in cui viviamo sembra che i super ricchi debbano per forza esserci, il fatto che per Forbes la vedova Ferrero sia in testa alla relativa classifica italiana alla fine a me non dispiace. Non mi dispiace perché, per quanto si possa (anche giustamente) sindacare sulla qualità o gli effetti quanto mai deleteri di Nutella & C. su glicemia, colesterolo, trigliceridi, bilirubina e tutta quanta la nutrita schiera dei delicati parametri ematici umani, in estrema sintesi significa anche che la cioccolata può conquistare il mondo. Ed è meglio la cioccolata che la droga, le mine antiuomo, la televisione commerciale o Donald Trump.
Sogno dunque un pianeta dove ci si possa nutrire di Fetta al latte e Pan e Cioc, ci si curi con i Pocket Coffee, dove si litighi in famiglia a colpi di Mon Cheri e si combattano le guerre tirandosi i Tronky negli occhi. Un mondo dove si faccia il pieno all'automobile (rigorosamente Fiesta) con cioccolata calda, fondente o al latte a seconda della motorizzazione, dove l'unità di misura monetaria sia il Raffaello, dove l'unica discriminazione concepibile sia tra la cioccolata bianca e la noir 99%, dove ci si faccia di Duplo e dove si veneri tutti quanti il dio Kinder, il quale – si sa – non ha niente da ridire (anzi) se ti lasci tentare tre volte tanto.
Sarebbe un mondo nel quale avremmo più brufoli, un intestino tutt'altro che impeccabile e probabilmente il fegato simile a un agglomerato di Ferrero Rocher. Ma sono convinto che, nel complesso, sarebbe anche un mondo (molto) migliore. A patto, naturalmente, che per sbronzarsi non ci fosse solo l'Estathé.
Sogno dunque un pianeta dove ci si possa nutrire di Fetta al latte e Pan e Cioc, ci si curi con i Pocket Coffee, dove si litighi in famiglia a colpi di Mon Cheri e si combattano le guerre tirandosi i Tronky negli occhi. Un mondo dove si faccia il pieno all'automobile (rigorosamente Fiesta) con cioccolata calda, fondente o al latte a seconda della motorizzazione, dove l'unità di misura monetaria sia il Raffaello, dove l'unica discriminazione concepibile sia tra la cioccolata bianca e la noir 99%, dove ci si faccia di Duplo e dove si veneri tutti quanti il dio Kinder, il quale – si sa – non ha niente da ridire (anzi) se ti lasci tentare tre volte tanto.
Sarebbe un mondo nel quale avremmo più brufoli, un intestino tutt'altro che impeccabile e probabilmente il fegato simile a un agglomerato di Ferrero Rocher. Ma sono convinto che, nel complesso, sarebbe anche un mondo (molto) migliore. A patto, naturalmente, che per sbronzarsi non ci fosse solo l'Estathé.
mercoledì 2 marzo 2016
Se il problema (alla fine) è Tobia Antonio
Visto che alla fine - vi piaccia o no - Tobia Antonio (figlio di Vendola e del suo compagno) esiste, vorrei soffermarmi su un aspetto che trovo molto interessante e che riprende parzialmente quanto ho già riportato qualche giorno fa riguardo la presa posizione sul tema da parte dell'Ordine degli Psicologi del Piemonte. L'idea mi è stata sollecitata da un pezzo uscito un paio di giorni fa sul Fatto Quotidiano a firma Alex Corlazzoli in cui si immagina l'impatto di Tobia Antonio con la scuola tra sei/sette anni. Corlazzoli sostiene che, pur nelle attenzioni e nell'amore che i due padri daranno al figlio, difficilmente l'Italia saprà garantire a Tobia Antonio una vita senza discriminazioni a partire da quelle che rischierà di trovare a scuola da parte dei suoi compagni che lo vedranno, per dire, sempre accompagnato da uno o due padri e mai da una madre.
Questo, come dicevo, riprende la questione sollevata dagli psicologi, i quali affermano che l'unico vero problema dei figli di omosessuali non proviene dalla famiglia con due madri o due padri, bensì dalle discriminazioni che la società metterà loro di fronte come bastoni tra le ruote psicologici ed esistenziali. E tutto questo è molto logico e condivisibile. Ma perché allora deve farne le spese Tobia Antonio? Voglio dire: Tobia Antonio viene discriminato? Bene, allora sapete cosa facciamo? Eliminiamo Tobia Antonio ed eliminiamo il problema. Cioè, insomma, il triste paradosso è che invece di pensare all'educazione all'uguaglianza dei più giovani (ma anche dei più vecchi), e a eliminare così le piccole e grandi discriminazioni che potenzialmente potrebbero rendere la vita di Tobia Antonio un inferno, preferiamo eliminare Tobia, ovvero togliere a Tobia – e a quelli come lui – la possibilità di esistere ovvero di avere una famiglia (di qualsiasi genere, purché lo ami) in cui crescere.
Non potremmo invece prendere Tobia Antonio e le altre piccole creature che sono già nella sua situazione o che saranno nella sua situazione, come stimolo per impegnarci, tutti quanti (io, tu che leggi, il tuo fruttivendolo, Giovanardi, l'autista del bus che hai preso stamane, Alfano ecc. ecc.), per garantire loro un futuro senza nessun tipo discriminazione? Non potremmo dire: Tobia Antonio e gli altri come lui meritano non solo una famiglia che li ami, ma anche una società che non li guardi strano, che li accetti, che li consideri come tutti quanti gli altri, che non si ponga neanche il problema della loro diversità , perché non c'è niente di veramente diverso in loro e, anche se ci fosse, la diversità deve arricchire, non impaurire? Se è vero che ci riempiamo sempre la bocca con la retorica dell'infanzia e che dobbiamo sempre essere dalla parte dei bambini, perché in questo caso non siamo dalla loro parte? E questo dovrebbe essere un dovere morale di tutti i cittadini, sia di quelli che sono d'accordo, sia di quelli che non lo sono. Perché quelli come Tobia Antonio esisteranno sempre e non c'è modo di evitarlo, per quante leggi, paletti o sbarramenti giurisprudenziali potranno essere messi. Ed è troppo comodo pensare di eliminare il problema, eliminando queste creature, solo perché ad alcuni (molti?) piace restare omofobi, o perché cercare di non esserlo costa troppa, troppa fatica.
Questo, come dicevo, riprende la questione sollevata dagli psicologi, i quali affermano che l'unico vero problema dei figli di omosessuali non proviene dalla famiglia con due madri o due padri, bensì dalle discriminazioni che la società metterà loro di fronte come bastoni tra le ruote psicologici ed esistenziali. E tutto questo è molto logico e condivisibile. Ma perché allora deve farne le spese Tobia Antonio? Voglio dire: Tobia Antonio viene discriminato? Bene, allora sapete cosa facciamo? Eliminiamo Tobia Antonio ed eliminiamo il problema. Cioè, insomma, il triste paradosso è che invece di pensare all'educazione all'uguaglianza dei più giovani (ma anche dei più vecchi), e a eliminare così le piccole e grandi discriminazioni che potenzialmente potrebbero rendere la vita di Tobia Antonio un inferno, preferiamo eliminare Tobia, ovvero togliere a Tobia – e a quelli come lui – la possibilità di esistere ovvero di avere una famiglia (di qualsiasi genere, purché lo ami) in cui crescere.
Non potremmo invece prendere Tobia Antonio e le altre piccole creature che sono già nella sua situazione o che saranno nella sua situazione, come stimolo per impegnarci, tutti quanti (io, tu che leggi, il tuo fruttivendolo, Giovanardi, l'autista del bus che hai preso stamane, Alfano ecc. ecc.), per garantire loro un futuro senza nessun tipo discriminazione? Non potremmo dire: Tobia Antonio e gli altri come lui meritano non solo una famiglia che li ami, ma anche una società che non li guardi strano, che li accetti, che li consideri come tutti quanti gli altri, che non si ponga neanche il problema della loro diversità , perché non c'è niente di veramente diverso in loro e, anche se ci fosse, la diversità deve arricchire, non impaurire? Se è vero che ci riempiamo sempre la bocca con la retorica dell'infanzia e che dobbiamo sempre essere dalla parte dei bambini, perché in questo caso non siamo dalla loro parte? E questo dovrebbe essere un dovere morale di tutti i cittadini, sia di quelli che sono d'accordo, sia di quelli che non lo sono. Perché quelli come Tobia Antonio esisteranno sempre e non c'è modo di evitarlo, per quante leggi, paletti o sbarramenti giurisprudenziali potranno essere messi. Ed è troppo comodo pensare di eliminare il problema, eliminando queste creature, solo perché ad alcuni (molti?) piace restare omofobi, o perché cercare di non esserlo costa troppa, troppa fatica.
giovedì 25 febbraio 2016
The X-Files, la serie-zombie
Dopo aver visto l'ultima imbarazzante puntata della miniserie di X-Files, quello che viene spontaneo chiedersi è: come accidenti è possibile che uno come Chris Carter non si accorga di quanto è brutto quello che sta facendo? E comunque una serie TV non è il frutto della mente di una sola persona, per quanto la persona in questione possa avere carta bianca. Intorno ci sono fior fiore di sceneggiatori, di produttori esecutivi, c’è un network che ci mette i soldi, gente che lo fa di mestiere da anni, squadre (che dovrebbero essere, o almeno noi così ci immaginiamo) al top delle capacità e delle professionalità del settore, e nessuno si accorge che stanno mettendo in scena una vaccata?
Non dico Duchovny e la Anderson perché, come professionisti (stra)pagati per impersonare dei ruoli, nel momento in cui firmano un contratto devono arrivare in fondo a prescindere dalla bontà del copione che è stato messo loro in mano. Al massimo potevano rifiutare di imbarcarsi nell'avventura fin dal principio e, fossi in loro, visti i risultati, lascerei perdere l'idea di prendere in considerazione eventuali ulteriori immersioni nella melma di questo franchise ormai in decomposizione. Dunque a loro non si può attribuire alcuna colpa. Per tutti gli altri invece i casi sono due: o erano consapevoli che partivano già dal fondo dell'abisso e stavano iniziando a scavare (ma se ne fregavano, confidenti che l'Effetto Nostalgia sarebbe stato capace di sanare qualunque magagna), oppure si erano tutti bevuti il cervello.
Perché della nuova serie di X-Files non si salva (quasi) niente.
Il quasi, doveroso, si riferisce per lo più alla puntata 10x03, Mulder and Scully Meet the Were-Monster (La lucertola mannara nella versione italiana), un episodio farsesco in cui la serie e i suoi protagonisti prendono in giro se stessi e i tic propri e quelli dell'uomo medio moderno, in una spassosa girandola di trovate e gag piuttosto riuscite. Non a caso è quella che anche su Rotten Tomatoes ha un rating di apprezzamento altissimo. Tutto il resto, invece, viaggia purtroppo tra una pochezza disarmante e una vera e propria indecorosità . In particolare, le puntate legate alla mitologia della serie (ma non solo) sono qualcosa di inguardabile, un insulso patchwork di triste e becero cospirazionismo da social network - su tutto svettano scie chimiche e vaccini -, infarcite di discorsi farraginosi e inutili, con trame spesso inconsistenti e inconcludenti, sottotrame scollegate, credibilità delle azioni e dei pensieri dei protagonisti ridicola e mancanza di qualunque mordente, passione e – soprattutto – scintilla creativa in grado di illuminarle (nella figura qui sotto, il rating di apprezzamento degli utenti di Rotten Tomatoes sui vari episodi della serie, a mio avviso complessivamente piuttosto generoso).
L'impressione che se ne ricava è che X-Files sia rimasto ancorato ai suoi stilemi ormai decisamente logori sia in termini di idee, che di struttura narrativa e, se quando debuttò nel 1993 si gridò al miracolo per la ventata di novità che portava, quattordici anni dopo la fine della serie (quattordici anni durante i quali abbiamo visto l'eccellente evolversi del mezzo televisivo con prodotti eccelsi tipo I Soprano, The Wire, Breaking Bad, True Detective, Fargo, Game of Thrones e tante altre serie notevolissime) ritroviamo non solo una serie drammaticamente obsoleta, tenuta in scacco dalle stesse ossessioni che ne hanno decretato il successo, che non ha saputo – forse per incapacità , forse per mancanza di coraggio – affrancarsi da se stessa e trovare qualcosa di nuovo che valesse la pena di raccontare, ma anche, pur nella sua vetustà , incapace perfino di rispolverare dignitosamente, anche solo con coerenza e un po' di mestiere, quelle stesse sue idee che, va ammesso, costituiscono la cifra fondante senza la quale la serie perderebbe la sua indiscutibile identità .
Così, quello che almeno si è capito una volta per tutte alla fine delle (per fortuna solo) sei puntate, è che la serie è morta, morta da tempo, morta da almeno quattordici anni (forse qualcuno in più), e che questa miniserie è stata frutto di una macumba di Chris Carter per portarla fuori dalla tomba. Quella che abbiamo visto, dunque, è stata una serie-zombie, insensata, gorgogliante, barcollante, putrefatta, il cui unico, sensato destino è quello di un bel colpo secco in testa. Ci sarà qualcuno nella produzione che avrà la pietà di premere il grilletto?
Non dico Duchovny e la Anderson perché, come professionisti (stra)pagati per impersonare dei ruoli, nel momento in cui firmano un contratto devono arrivare in fondo a prescindere dalla bontà del copione che è stato messo loro in mano. Al massimo potevano rifiutare di imbarcarsi nell'avventura fin dal principio e, fossi in loro, visti i risultati, lascerei perdere l'idea di prendere in considerazione eventuali ulteriori immersioni nella melma di questo franchise ormai in decomposizione. Dunque a loro non si può attribuire alcuna colpa. Per tutti gli altri invece i casi sono due: o erano consapevoli che partivano già dal fondo dell'abisso e stavano iniziando a scavare (ma se ne fregavano, confidenti che l'Effetto Nostalgia sarebbe stato capace di sanare qualunque magagna), oppure si erano tutti bevuti il cervello.
Perché della nuova serie di X-Files non si salva (quasi) niente.
Il quasi, doveroso, si riferisce per lo più alla puntata 10x03, Mulder and Scully Meet the Were-Monster (La lucertola mannara nella versione italiana), un episodio farsesco in cui la serie e i suoi protagonisti prendono in giro se stessi e i tic propri e quelli dell'uomo medio moderno, in una spassosa girandola di trovate e gag piuttosto riuscite. Non a caso è quella che anche su Rotten Tomatoes ha un rating di apprezzamento altissimo. Tutto il resto, invece, viaggia purtroppo tra una pochezza disarmante e una vera e propria indecorosità . In particolare, le puntate legate alla mitologia della serie (ma non solo) sono qualcosa di inguardabile, un insulso patchwork di triste e becero cospirazionismo da social network - su tutto svettano scie chimiche e vaccini -, infarcite di discorsi farraginosi e inutili, con trame spesso inconsistenti e inconcludenti, sottotrame scollegate, credibilità delle azioni e dei pensieri dei protagonisti ridicola e mancanza di qualunque mordente, passione e – soprattutto – scintilla creativa in grado di illuminarle (nella figura qui sotto, il rating di apprezzamento degli utenti di Rotten Tomatoes sui vari episodi della serie, a mio avviso complessivamente piuttosto generoso).
L'impressione che se ne ricava è che X-Files sia rimasto ancorato ai suoi stilemi ormai decisamente logori sia in termini di idee, che di struttura narrativa e, se quando debuttò nel 1993 si gridò al miracolo per la ventata di novità che portava, quattordici anni dopo la fine della serie (quattordici anni durante i quali abbiamo visto l'eccellente evolversi del mezzo televisivo con prodotti eccelsi tipo I Soprano, The Wire, Breaking Bad, True Detective, Fargo, Game of Thrones e tante altre serie notevolissime) ritroviamo non solo una serie drammaticamente obsoleta, tenuta in scacco dalle stesse ossessioni che ne hanno decretato il successo, che non ha saputo – forse per incapacità , forse per mancanza di coraggio – affrancarsi da se stessa e trovare qualcosa di nuovo che valesse la pena di raccontare, ma anche, pur nella sua vetustà , incapace perfino di rispolverare dignitosamente, anche solo con coerenza e un po' di mestiere, quelle stesse sue idee che, va ammesso, costituiscono la cifra fondante senza la quale la serie perderebbe la sua indiscutibile identità .
Così, quello che almeno si è capito una volta per tutte alla fine delle (per fortuna solo) sei puntate, è che la serie è morta, morta da tempo, morta da almeno quattordici anni (forse qualcuno in più), e che questa miniserie è stata frutto di una macumba di Chris Carter per portarla fuori dalla tomba. Quella che abbiamo visto, dunque, è stata una serie-zombie, insensata, gorgogliante, barcollante, putrefatta, il cui unico, sensato destino è quello di un bel colpo secco in testa. Ci sarà qualcuno nella produzione che avrà la pietà di premere il grilletto?
martedì 23 febbraio 2016
Il problema della genitorialità omosessuale (come un corto circuito)
La cosa più intelligente e razionale (e condivisibile) che ho sentito dire in questi giorni sulla questione della stepchild adoption e, più in generale, sulla questione dei figli cresciuti in famiglie omosessuali, proviene dall'Ordine degli Psicologi del Piemonte che la scorsa settimana ha emesso un comunicato nel quale, attraverso il suo presidente Alessandro Lombardo, ha espresso la propria posizione ufficiale sull'argomento, peraltro in linea con il dossier consegnato il 9 febbraio scorso dagli psicologi italiani ai senatori che si apprestano a votare il ddl Cirinnà (e che, raccogliendo oltre 70 lavori sparsi su oltre quarant'anni, dimostra come non sussista alcuna evidente "connessione tra genere sessuale dei genitori e specifici disagi del minore"). E se da una parte quello che esprime è, a ben vedere, quasi ovvio, dall'altra configura una situazione tristemente paradossale.
In breve il concetto è il seguente. Secondo gli psicologi l'unico vero problema peculiare cui possono andare incontro i figli di coppie omosessuali, un problema dunque cui possono essere esposti questi individui proprio a causa della loro condizione di figli di coppie omosessuali (perché tutti gli altri tipi di problemi ce li possono avere tutte quante le tipologie di famiglie esistenti), è semplicemente quello di essere potenzialmente esposti a contesti omofobici. Il problema dunque non è insito nel tipo di famiglia in cui si vive, il problema è la discriminazione cui questa famiglia potrà andare incontro nelle sue relazioni all'interno della comunità .
In buona sostanza questo significa che, tutti coloro che si scagliano (almeno) contro questa parte del ddl Cirinnà – esprimendo in questo modo una riserva di matrice omofobica – sono di fatto essi stessi la causa di quei problemi da cui dicono di voler proteggere i figli di coppie omosessuali, ragione per cui si scagliano (almeno) contro questa parte del ddl Cirinnà . In altre parole, un problema effettivamente esiste, ma sono loro stessi a crearlo proprio nel momento in cui pretenderebbero di trovare la sua soluzione. Insomma, casomai ce ne fosse stato ancora bisogno, questa è l'ennesima conferma che il vero (e unico) grave problema è l'omofobia. E su questo non dovrebbe esserci bisogno di dire altro.
In breve il concetto è il seguente. Secondo gli psicologi l'unico vero problema peculiare cui possono andare incontro i figli di coppie omosessuali, un problema dunque cui possono essere esposti questi individui proprio a causa della loro condizione di figli di coppie omosessuali (perché tutti gli altri tipi di problemi ce li possono avere tutte quante le tipologie di famiglie esistenti), è semplicemente quello di essere potenzialmente esposti a contesti omofobici. Il problema dunque non è insito nel tipo di famiglia in cui si vive, il problema è la discriminazione cui questa famiglia potrà andare incontro nelle sue relazioni all'interno della comunità .
In buona sostanza questo significa che, tutti coloro che si scagliano (almeno) contro questa parte del ddl Cirinnà – esprimendo in questo modo una riserva di matrice omofobica – sono di fatto essi stessi la causa di quei problemi da cui dicono di voler proteggere i figli di coppie omosessuali, ragione per cui si scagliano (almeno) contro questa parte del ddl Cirinnà . In altre parole, un problema effettivamente esiste, ma sono loro stessi a crearlo proprio nel momento in cui pretenderebbero di trovare la sua soluzione. Insomma, casomai ce ne fosse stato ancora bisogno, questa è l'ennesima conferma che il vero (e unico) grave problema è l'omofobia. E su questo non dovrebbe esserci bisogno di dire altro.
lunedì 22 febbraio 2016
Una magnifica serie TV (che pochi conoscono): River
Intasati come ormai siamo da decenni di polizieschi di ogni tipo, non è facile trovare lampi di originalità in grado di farti fare i balzi sulla sedia. È accaduto di recente con True Detective (Stagione 1) e The Fall (Stagioni 1 e 2), e pure con Fargo (Stagioni 1 e 2), sebbene quest'ultimo non abbia proprio i connotati del poliziesco classico, ma nella messe di serie tv ormai disponibili è sempre comunque difficile ritrovarsi a bocca aperta a gridare al miracolo. Insomma, bisogna cercare con cura e dedizione, perché delle cose davvero toste ogni tanto emergono ed è ancora più bello quando si scoprono piccole produzioni, quasi di nicchia, al di fuori dei fenomeni acclamati globalmente. Se poi ti emozionano tremendamente, cosa puoi volere di più? È questo il caso di River.
Miniserie di soli 6 episodi di produzione BBC mandata in onda nell'autunno 2015 (da non confondere con The River, serie americana soprannaturale di scarsa fortuna), River trae il suo nome dal protagonista impersonato da Stellan Skarsgård, attore svedese dalla filmografia impressionante, spesso presente nelle produzioni di Lars Von Trier, che qui si cala magistralmente nei panni di un poliziotto molto capace (ha l'80% dei casi risolti), ma con problemi psichici piuttosto seri che tenta di nascondere sotto il tappeto almeno con i colleghi, in quanto minerebbero la sua credibilità e, dunque, la possibilità di conservare il suo posto di lavoro. Attenzione però, non siamo dalle parti di Monk. I problemi di River non sono ossessivo-compulsivi, di autismo o altro. River non è un fenomeno. Tutt'altro. River è un personaggio grigio, silenzioso, dimesso, triste, un individuo qualunque che si è costruito una corazza e un modo tutto suo per difendersi da un mondo col quale ha difficoltà a rapportarsi.
Non vi voglio dire nello specifico di che cosa si tratta, perché vi toglierei l'incredibile sorpresa dei primi cinque minuti della prima puntata, ma vi posso dire, senza svelarvi nulla, che è qualcosa legato alla solitudine. Dunque è qualcosa di terribilmente umano, anche se trova il suo lampo di genialità nel suo risvolto solo in apparenza non-umano... (non chiedetemi di più). Perché in ultima analisi il vero problema di River è la sua difficoltà a comunicare le sue emozioni, a fare i conti con i suoi fantasmi, a riuscire a mettersi in contatto con chi, nel profondo di se stesso, sa di amare più di ogni altra cosa al mondo. River è uno dei personaggi più dolorosi e tormentati, ma nel contempo più emozionanti e veri e umani che mi sia mai capitato di incontrare in un poliziesco televisivo. Fin dalla prima puntata River ti si appiccica addosso e non lo riesci a scrollare più via (né vuoi farlo), fino all'apoteosi dell'ultima puntata dove - vi avverto - è meglio tenere a portata di mano un bel pacco di fazzoletti. Alla fine, mentre ancora tirerete su col naso e scorreranno i titoli di coda, vi ritroverete in piedi ad applaudire, applaudire il personaggio, gli attori (Skarsgård in testa, magistrale, ma anche gli altri sono all'altezza), gli sceneggiatori, i registi, il creatore della serie e tutti quanti hanno contribuito a realizzare quello che è - di fatto - un piccolo gioiellino che non dovete perdervi. Poi spegnerete la TV e vi accorgerete che River sarà ancora lì con voi.
Miniserie di soli 6 episodi di produzione BBC mandata in onda nell'autunno 2015 (da non confondere con The River, serie americana soprannaturale di scarsa fortuna), River trae il suo nome dal protagonista impersonato da Stellan Skarsgård, attore svedese dalla filmografia impressionante, spesso presente nelle produzioni di Lars Von Trier, che qui si cala magistralmente nei panni di un poliziotto molto capace (ha l'80% dei casi risolti), ma con problemi psichici piuttosto seri che tenta di nascondere sotto il tappeto almeno con i colleghi, in quanto minerebbero la sua credibilità e, dunque, la possibilità di conservare il suo posto di lavoro. Attenzione però, non siamo dalle parti di Monk. I problemi di River non sono ossessivo-compulsivi, di autismo o altro. River non è un fenomeno. Tutt'altro. River è un personaggio grigio, silenzioso, dimesso, triste, un individuo qualunque che si è costruito una corazza e un modo tutto suo per difendersi da un mondo col quale ha difficoltà a rapportarsi.
Non vi voglio dire nello specifico di che cosa si tratta, perché vi toglierei l'incredibile sorpresa dei primi cinque minuti della prima puntata, ma vi posso dire, senza svelarvi nulla, che è qualcosa legato alla solitudine. Dunque è qualcosa di terribilmente umano, anche se trova il suo lampo di genialità nel suo risvolto solo in apparenza non-umano... (non chiedetemi di più). Perché in ultima analisi il vero problema di River è la sua difficoltà a comunicare le sue emozioni, a fare i conti con i suoi fantasmi, a riuscire a mettersi in contatto con chi, nel profondo di se stesso, sa di amare più di ogni altra cosa al mondo. River è uno dei personaggi più dolorosi e tormentati, ma nel contempo più emozionanti e veri e umani che mi sia mai capitato di incontrare in un poliziesco televisivo. Fin dalla prima puntata River ti si appiccica addosso e non lo riesci a scrollare più via (né vuoi farlo), fino all'apoteosi dell'ultima puntata dove - vi avverto - è meglio tenere a portata di mano un bel pacco di fazzoletti. Alla fine, mentre ancora tirerete su col naso e scorreranno i titoli di coda, vi ritroverete in piedi ad applaudire, applaudire il personaggio, gli attori (Skarsgård in testa, magistrale, ma anche gli altri sono all'altezza), gli sceneggiatori, i registi, il creatore della serie e tutti quanti hanno contribuito a realizzare quello che è - di fatto - un piccolo gioiellino che non dovete perdervi. Poi spegnerete la TV e vi accorgerete che River sarà ancora lì con voi.
venerdì 19 febbraio 2016
Quel che sarà delle unioni (in)civili
Quando ho letto del rinvio del ddl Cirinnà sono stato a un passo dal correre in bagno a vomitare. Nauseato di come questa classe politica ipocrita e opportunista stia facendo il minuetto dei veti incrociati e della propaganda politica sulla pelle dei diritti fondamentali di una parte di nazione (tutti quanti, compresi i duri e puri del M5S, che proprio per la loro ostentata durezza e purezza in questo frangente hanno fatto la figura più meschina, ormai perfettamente integrati e lubrificati nell'ingranaggio che dicevano di voler scardinare come una scatoletta di tonno).
Quanto ancora l'Italia dovrà farsi riconoscere nel mondo per la sua ipocrisia religiosa (o la sua sudditanza vaticana), per la sua mentalità retrograda, per la sua drammatica mancanza di senso di civiltà , per la sua triste incapacità di entrare nella modernità ? Per quanto ancora dovremo vergognarci con il resto dell'Europa per quanto un popolo di stronzi (altro che poeti, santi e navigatori) noi siamo?
Perché a parte i diretti interessati, sono davvero pochi coloro cui importa di questo ddl. Eppure la politica e i media si comportano come se fregasse a tutti, fanno credere che freghi davvero a tutti e finisce che adesso tutti credono che importi davvero loro qualcosa. Invece non è così. Come è già successo per altri scontri epocali combattuti per altre conquiste di civiltà come il divorzio o l'aborto, in cui come sempre succede in questi casi la gente si straccia le vesti, lancia anatemi, sentinella in piedi, ulula e giovanarda, quando questo ddl - o uno molto simile a esso - entrerà in vigore, improvvisamente la gente che si stracciava le vesti, che lanciava anatemi, che sentinellava in piedi, che ululava e che giovanardava, tutta questa gente - puf - sparirà . Succederà che tutta questa gente improvvisamente si renderà conto che a loro il ddl Cirinnà non avrà cambiato nulla, ma proprio nulla di nulla, che nulla sarà loro tolto e che potranno fare la loro vita esattamente come facevano prima. Dunque tempo una puntata di C'è posta per te e se ne saranno dimenticati. Certo, magari nel frattempo i loro vicini (o le loro vicine) di casa - che loro continueranno a guardare un po' di traverso - saranno più felici. Ma non è detto che dovranno esserne per forza invidiosi.
Quanto ancora l'Italia dovrà farsi riconoscere nel mondo per la sua ipocrisia religiosa (o la sua sudditanza vaticana), per la sua mentalità retrograda, per la sua drammatica mancanza di senso di civiltà , per la sua triste incapacità di entrare nella modernità ? Per quanto ancora dovremo vergognarci con il resto dell'Europa per quanto un popolo di stronzi (altro che poeti, santi e navigatori) noi siamo?
Perché a parte i diretti interessati, sono davvero pochi coloro cui importa di questo ddl. Eppure la politica e i media si comportano come se fregasse a tutti, fanno credere che freghi davvero a tutti e finisce che adesso tutti credono che importi davvero loro qualcosa. Invece non è così. Come è già successo per altri scontri epocali combattuti per altre conquiste di civiltà come il divorzio o l'aborto, in cui come sempre succede in questi casi la gente si straccia le vesti, lancia anatemi, sentinella in piedi, ulula e giovanarda, quando questo ddl - o uno molto simile a esso - entrerà in vigore, improvvisamente la gente che si stracciava le vesti, che lanciava anatemi, che sentinellava in piedi, che ululava e che giovanardava, tutta questa gente - puf - sparirà . Succederà che tutta questa gente improvvisamente si renderà conto che a loro il ddl Cirinnà non avrà cambiato nulla, ma proprio nulla di nulla, che nulla sarà loro tolto e che potranno fare la loro vita esattamente come facevano prima. Dunque tempo una puntata di C'è posta per te e se ne saranno dimenticati. Certo, magari nel frattempo i loro vicini (o le loro vicine) di casa - che loro continueranno a guardare un po' di traverso - saranno più felici. Ma non è detto che dovranno esserne per forza invidiosi.
giovedì 28 gennaio 2016
Raccontare Universi (marziani in tour)
Mi è capitato di parlarne (molto bene) qui. A un anno esatto di distanza dalla sua uscita, domenica prossima 31 gennaio avrò il privilegio di fare gli onori di casa per festeggiarlo. Parlo di Dimenticami Trovami Sognami di Andrea Viscusi, uno dei più bei libri del 2015, edito da Zona 42, che celebreremo qui a Genova, insieme con l'autore e l'editore, Giorgio Raffaelli. Sarà un'occasione ghiotta per parlare del romanzo e dei suoi temi, ma anche di letteratura fantastica, editoria e tutto quello che verrà in mente a noi e a chi avrà voglia di venire a incontrarci. L'appuntamento è dunque domenica 31 gennaio alle ore 17, presso la Libreria Bookowski - Vico Valoria 40 - Genova (in pieno centro, a un minuto a piedi dalla cattedrale di San Lorenzo). Fatevi riconoscere!
giovedì 24 dicembre 2015
Tanti auguri, a modo mio
Cinica, irriverente, divertente, ma anche - per molti versi - autentica, perché capace di lasciarci nudi di fronte a molte delle ipocrisie che girano intorno alle festività di questi giorni. Vi lascio dunque con la hit del momento di Spazio Bianco, augurandovi che le cose vi vadano come voi volete. Dunque cercate innanzitutto di volere bene.
martedì 10 novembre 2015
Incontro ravvicinato col marziano
Venerdì 13 novembre prossimo, a partire dalle ore 21:00 a Genova, presso la sede dell'Associazione Ligure Astrofili Polaris, farò una chiacchierata parlando di letteratura fantascientifica, della sua storia, dei suoi mondi, dei suoi protagonisti. E anche per giocare con i suoi film (ci saranno dei premi)! L'ingresso è libero. Se siete in zona, venite e fatevi riconoscere!
Tutti i mondi della fantascienza: dalla A di Asimov alla... V di Vietti!
presso Associazione Ligure Astrofili Polaris, Salita Superiore della Noce 27 (cancello, parcheggio disponibile), 16131 Genova (vicino all'ingresso principale dell'Ospedale San Martino).
Tutti i mondi della fantascienza: dalla A di Asimov alla... V di Vietti!
presso Associazione Ligure Astrofili Polaris, Salita Superiore della Noce 27 (cancello, parcheggio disponibile), 16131 Genova (vicino all'ingresso principale dell'Ospedale San Martino).
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