Punti di vista da un altro pianeta

mercoledì 1 settembre 2010

Il cimitero dei senza corpo (1 di 2)

Dachau non è un luogo. Dachau è un tempo. Dachau è una memoria con i denti di lupo. Non ci vuole molto a seguirne le tracce, l'odore, la scia. Da Innsbruck saranno poco più di 200 km. Due ore e mezza di strada rispettando i limiti. Si segue la direzione München, si supera l'ostacolo della tangenziale e, nella periferia a nord-ovest della capitale bavarese, ci si ritrova in questa cittadina fondata nell'805 d.C. a seguito del dono da parte della nobile Erchana della stirpe degli Ariboni di tutte le sue terre site in Dachauua all'arcidiocesi di Monaco e Frisinga. In realtà dalla cittadina non ci si passa, se non si desidera. Usciti dall'autostrada si seguono le indicazioni per [KZ-Gedenkstätte], che ci sono, ma sono scritte al microscopio elettronico e rigorosamente in tedesco (non è che ci tengono a fare molta pubblicità internazionale a Dachau, i tedeschi, e c'è da capirli) - quindi, o sai esattamente che cosa devi cercare, o sei fregato - finché dopo una manciata di minuti si arriva al parcheggio nascosto da alte siepi. Si pagano 3€ per mettere l'automobile nel piazzale, dopodiché non ti verrà chiesto nient'altro, se non leggere, riflettere e ricordare. I brividi nella schiena ce li metterai tu.


Per giungere all'ingresso della struttura c'è un breve tratto da fare a piedi, la ghiaia che scricchiola sotto i piedi sono frammenti di ossa polverose. È metà mattinata e non c'è ancora molta gente. Da qui ancora non si vede niente, ma c'è già qualcosa che mi prende nel mezzo del petto. Suggestione o altro? Non so. Però so che quando sento delle voci (NB italiane) che parlano ad alta voce, mi fanno l'effetto delle unghie su una lavagna. Vorrei dirgli qualcosa. Qualcosa che ha a che fare col rispetto del dolore e l'omaggio alla memoria. E se fossero stati dei ragazzini forse l'avrei fatto. Ma costoro ragazzini non sono. Sono signore e signori, maturi e attempati, che parlano di frivolezze come se si stessero aggirando alla fiera patronale, tra banchi di mutande e pentole antiaderenti. Meglio superarli e lasciarseli indietro. Eppure il loro atteggiamento lascia un residuo dentro di me, come un retrogusto che devo ancora identificare e che solo verso la fine della visita riuscirà a mettere a fuoco.

Il tempo per orientarmi e mi trovo al cospetto della cosiddetta Jorhaus Tor, il cancello situato nell'edificio dove si trovava il comando delle SS, attraverso cui tutti i prigionieri dovevano passare per entrare nel campo. Anche qui, come nel caso di Auschwitz e di molti altri lager, nella trama del ferro battuto fa bella mostra di sé il grottesco e crudele messaggio di benvenuto ai prigionieri Arbeit Macht Frei, ovvero Il lavoro rende liberi, come un cioccolatino sopra il cuscino nella stanza dell'hotel. E proprio lì davanti non posso fare a meno di notare la calca disordinata di gente (NB non solo italiani) che fa a gara per farsi immortalare con la scritta sulla sfondo. «Chiudi la porta..., dài chiudi la porta che non si vede bene la scritta, ok, così va bene, ora vai un po' più indietro, a destra, aspetta..., abbassati un po', okay, sì ma sorridi, fico!... clic, oh, no aspetta è venuta una schifezza, troppo scura, rimettiti lì. E richiudi quella cazzo di porta! Vabbè, aspetteranno un attimo per passare, 'sti stronzi...», e via in tempo reale su Facebook/Twitter/Flickr/Splinder/Blogger...

La visita prosegue nel grande edificio principale, dove erano situati guardaroba, cucine, officine e bagni, nonché un certo numero di spazi dedicati a tortura e vessazioni assortite. L'esposizione ripercorre cronologicamente la storia del campo, partendo dall'antefatto, ovvero dalla situazione politica e sociale venutasi a creare in seguito alla disfatta della Germania nella I Guerra Mondiale, la Repubblica di Weimar, la grave crisi economica e sociale degli anni '20, la conseguente progressiva ascesa del NSDAP (Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei), e la sua affermazione nelle elezioni del 1932. Dachau fu il primo "campo" istituito da Hitler solo poche settimane dopo la sua "presa di potere" avvenuta il 30 gennaio 1933, per togliersi di mezzo soprattutto gli avversari politici, comunisti innanzitutto, ma anche socialdemocratici, sindacalisti e in seguito pure conservatori e monarchici. Il suo triste primato lo rese anche una sorta di campo di "esempio" e di "prova" per tutte le sistematiche e disumane applicazioni di abuso, violenza, tortura e sterminio che sarebbero venute da lì in avanti, sempre più efferate, fino alla fine della II Guerra Mondiale. Ma di questo ne parliamo domani.

[Nota: "Unsere letzte Hoffnung" significa: "La nostra ultima speranza"]

/continua

15 commenti:

  1. Oddio...tocchi un tasto talmente dolente che a stento trovo le parole per commentare ciò che hai scritto. L'Olocausto è uno dei mie peggiori incubi pur avendo 35 anni, fin da piccola non ho mai chiuso gli occhi davanti a questa enorme tragedia, merito dei miei genitori che ne hanno sempre parlato partendo dal principio che è giusto SAPERE fin da piccoli per evitare di diventare cretini, ignoranti e insensibili come quelle persone che sgomitavano per fare la foto sotto la scritta...che schifo!
    Non ho parole, attendo il post di domani.
    Heidi

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  2. Dopo una testimonianza simile non posso né voglio mettermi in mostra con commenti brillanti, anche per non confondermi con la stupida fecciolina chiassosa che hai incontrato, persino lì!
    Ti affido con discrezione il mio silenzio e i miei brividi. E ti ringrazio.

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  3. @Heidi: grazie della sensibilità e dell'empatia.

    @Zio Scriba: sono io a ringraziare te (un commento proverò a strappartelo col post di domani).

    @Inneres Auge: la seconda parte sarà peggio.

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  4. Non ho mai preso in considerazione l'orientamento di pensiero generalizato ma, avendone la possibilità, chiedo agli studiosi Marziani se questo sia sempre giusto. Il dubbio alberga nella mia mente in seguito ad un episodio doloroso, gioioso e reattivo (gia, reattivo, mai visto un paraplegico elevarsi un una danza tribale?). Io, ed altri appena conosciuti, eravamo deportati su un treno diretto al campo di concentramento di Auschwitz, quando una guardia tedesca con consorte si avvicinò puntandoci il fucile e urlando "Sie habe meine Brieftasche".
    Non capivo, ma a gesti invitai alla calma ed umilmente citai "we are friends" ma, agitando il fucile, mi fu risposto "No friends, Italiani merda, merda, merda!"
    Rimasi fra il sorpreso e divertito, mentre gli altri conoscenti continuavano a rimanere immobili (immobili! arretrando, come soldati pronti a disertare per salvare la loro fedita carcassa). La guardia tedesca incalzò il passo con toni sempre più minacciosi, la consorte osò infastidire "Lei", ed a quel punto persi completamente la ragione. Gli strappai il fucile di mano e glielo puntai, i ruoli si erano ribaltati ed ero io a fissarlo nelle palle degli occhi mentre lui chinava il capo imprecando.
    Non che, memore della guerra fredda nell'Etiopia che abito, sia nuovo a questi episodi di violenza ma (tralasciando la reazione istintiva ad opera dei rapporti interpersonali), rimasi sopreso della convinzione, odio e superiosirà con cui puntava il dito contro gli Italiani.
    Mi domando, In "tedeschia" è veramente diffusa questa mentalità?
    Per sua sfortuna però, non sapeva che io seppur vi abito, non sono ne Italiano, ne dell'etiopia, ne umano, ma neanche marziano.

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  5. @Sig. Deportato: gli orientamenti generalizzati hanno un senso se considerati statisticamente perché solo in questo modo danno un'indicazione (scientifica) su tendenze diffuse di opinione. La visione "del mondo" che possiamo avere come singoli individui è sempre troppo limitata per poterne dedurre delle situazioni generali, anche se questo purtroppo lo si fa ugualmente troppo spesso (a sproposito).

    Detto questo non credo di essere in grado di rispondere alla tua domanda. Posso però esprimerti la mia *sensazione*, che forse corrisponde al vero, come pure potrebbe essere una cantonata pregiudizievole di proporzioni planetarie. Diciamo che viaggiando per la Germania ho avvertito un senso generalizzato di superiorità che la società tedesca sembra avere l'urgenza di dimostrare al mondo. Non so se è presunzione, complesso di inferiorità o senso di colpa. Potrebbe essere tutto, come pure niente o altro ancora.

    Penso che ci vorrebbe qualcuno che ha convissuto (o convive) intimamente con la società e la cultura tedesca per poter rispondere con maggior cognizione di causa alla tua domanda. Un paio di settimane di "contatto" non possono bastare. Forse nemmeno una vita intera.

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  6. Uno dei ricordi più nitidi del mio viaggio in Germania... Conserverò per sempre dentro di me quello che ho visto, ascoltato e respirato lì... E ti ringrazio per questo post che non vedo l'ora di finire di leggere.

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  7. @Il rospo dalla bocca larga: una visita in un luogo come questo dovrebbe essere *obbligatoria* per tutti i cittadini del mondo. Eventi di questo genere devono entrare a far parte della memoria di ciascuno (e leggere un libro non vale la condivisione fisica di quel medesimo spazio), se si vuole anche solo provare a continuare a praticare esercizi di umanità, solidarietà e speranza per il futuro.

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  8. Il percorso che porta dal parcheggio al campo di Dachau è un viale alberato fiancheggiato da un canale o un piccolo torrente (ricordo il rumore dell'acqua che scorreva). Ho provato una sensazione strana, di tranquillità, ma anche di angoscia. Forse è suggestione, ma mi sembrava che il dolore provato lì fosse ancora presente e ho provato il primo brivido. I turisti abelinati invece mi hanno fatto passare dai brividi al disgusto per la specie a cui appartengo, sentimento che è aumentato durante la visita al museo.

    Sul senso di superiorità dei tedeschi posso dire che l'ho provato. Non è generalizzato, ma esiste. Non sono particolarmente bionda, il che non aiuta a confondersi con loro, ma mi sono sentita spesso osservata (e non con interesse o curiosità), ho subito un paio di sguardi accondiscendenti, nonostante io parli un discreto inglese e un tedesco da sopravvivenza, mentre ordinavo al ristorante. Ho trovato anche persone molto disponibili e gentili, perciò penso che i tedeschi siano come tutti gli altri popoli: genericamente un po' razzisti con chi viene da un posto un po' più a sud (come siamo noi con gli immigrati). Loro però hanno il problema di aver perso due guerre mondiali e di essere stati considerati responsabili di uno dei genocidi più famigerati della storia e forse hanno bisogno di sentirsi superiori per compensare questa condanna. Discorso interessante, che meriterebbe ben altri approfondimenti.

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  9. @knitting bear: i turisti "abelinati" esistono ovunque, solo che un conto è quando "abelinano" sulla spiaggia di Riccione, altro quando lo fanno in un cimitero...

    Circa la questione della superiorità, capisco il tuo punto di vista, però quella cui accennavo io qui sopra non sono del tutto sicuro che equivalga a un atteggiamento razzista, anche se mi rendo conto che è una questione di sfumature. Nel senso che era una superiorità non indirizzata verso qualcuno (individuo, razza, gruppo etnico/geografico ecc.), bensì espressa genericamente. Non so se rendo l'idea.

    Del resto la mia sensazione avrebbe potuto essere anche stata frutto di un inconsapevole complesso di inferiorità mio.

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  10. Ciao Marziano,
    io ci sono stato quando avevo 16 anni e mi ricordo il senso di stretta allo stomaco che ho provato ascoltando i racconti della guida e passando attraverso quelle distese di morte, le camere a gas e gli ambienti in cui i deportati passavano parte delle loro giornate. Ricordo che trattenevo le lacrime perché era come se tutto il peso del campo mi fosse finito addosso, empaticamente un campo di concentramento è straziante e pensare che c'era gente che lo visitava per farsi "figo" fa pensare al grado di empatia che queste persone possono aver raggiunto...
    un saluto

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  11. @Sleeper: ben ritrovato e grazie della tua testimonianza. Pensare che c'era gente che lo visitava per farsi "figo" fa pensare al grado di empatia che queste persone possono avere nei confronti dei loro simili, *in tutte le circostanze della loro vita*.

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  12. Sentirsi superiori agli altri implica il credere che gli altri siano inferiori. Per me questo è uno degli aspetti fondamentali del razzismo. Se poi uno parte dal presupposto che un altro sia poco dotato o poco educato perchè il suo aspetto fisico tradisce una certa provenienza geografica allora non ci sono dubbi. Questo è quello che ho provato io in alcune occasioni in Germania. Poi c'è tutta una casistica che non mi riguarda direttamente, ma che parla abbastanza chiaro: basta cercare "italofobia" su google.

    Con questo, non ho detto che é un problema esclusivo dei tedeschi.

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  13. "signore e signori, maturi e attempati, che parlano di frivolezze": può essere un modo per esorcizzare la paura (diverso dal vociare vacanziero); forse per chi l'ha vissuto, magari accompagnando nipoti, distrarsi è non voler ricordare, mentre invece i più giovani stupidamente non si rendono conto che può succedere ancora!

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  14. @knitting bear: la ricerca che hai suggerito fornisce risultati molto interessanti. Comunque personalmente, pur marziano e con quattro braccia, io non mi sono sentito "discriminato". Magari guardato un po' strano. Magari quando ho provato a farmi capire, non è che dall'altra parte ho sempre trovato molta disponibilità a cercare di comunicare, come invece mi è capitato di trovare in abbondanza altrove. Però da qui a chiamarlo "razzismo" ce ne passa. Insomma, non posso dire di averlo sperimentato sulle mie antenne, ecco.

    Che poi sia esistito ed eventualmente esista ancora qua e là una "italianofobia" dovuta ai più disparati motivi (soprattutto luoghi comuni di natura culturale), questo è altro argomento. Ma penso che se ci addentriamo qui, potremmo non uscirne più. Ti prometto però che ci saranno presto altri spunti di discussione a riguardo, sempre legati a questo viaggio.

    @Angie: può anche essere come dici tu, ma quelli che ho visto io non erano abbastanza giovani per essere degli stupidotti, né abbastanza vecchi per averlo vissuto. E ti assicuro che se hai vissuto una cosa del genere, non ti viene voglia di essere frivolo.

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