Punti di vista da un altro pianeta

mercoledì 9 ottobre 2013

Il piacere di un bambino morto

Prendete una strage. Una qualunque, purché con un bel numero di vittime innocenti. Più sono i corpi, nel fango, sul mare, o sotto le macerie, meglio è. Come la sciagura di Lampedusa di qualche giorno fa, o come l'ecatombe del Vajont, di cui proprio oggi, 9 ottobre 2013, ricorre il cinquantesimo anniversario. Dopodiché prestate bene orecchio a come i media, telegiornali su tutti, riportano la notizia delle vittime. Sempre e comunque verrà evidenziato il numero di donne e, soprattutto, bambini. Nel caso del disastro del Vajont, per dire, il numero di morti stimati fu 1918, di cui 487 bambini. E vedrete che i telegiornali non mancheranno mai di rimarcarlo. Perché?

Forse il valore della vita di un essere umano viene contabilizzato in base a quanti anni ha potenzialmente ancora davanti a sé? O non è invece vero che tutte le vite, di fronte a una tragedia di simili proporzioni, sono uguali? Se nel Vajont i bambini fossero stati solo 3, o se anche non ce ne fosse stato nessuno, la tragedia sarebbe stata meno tragica?

Invece i media non mancano mai di porre l'accento sul fatto che tra le vittime c'erano "donne e bambini", snocciolando i numeri, possibilmente, se impressionanti. Altrimenti restano sul vago, ma non rinunciano mai all'occasione di solleticare l'emozione dello spettatore, l'empatia, la compassione. Anche senza la necessità di spingerlo alla lacrima, beninteso. Anche perché spesso lo spettatore è comunque troppo distante per commuoversi.

Ma quel piccolo tic interiore causato dall'essere costretti (inutilmente) a porre l'attenzione al numero di bambini morti, crea nello spettatore una reazione emotiva che, in quanto tale, e per quanto piccola (non importa se collegata a un evento negativo), viene istintivamente percepita dallo spettatore come una cosa buona (illude lo spettatore alla partecipazione e alla non-indifferenza, quando in realtà allo spettatore non frega un accidente di quelle vittime) e crea così una connessione di solidarietà e fiducia con chi l'ha catalizzata, rinsaldando il legame dello spettatore con il media stesso, che è proprio lo scopo (ultimo) che il media vuole.

7 commenti:

  1. Tutto vero e condivisibile. Però c'è anche un altro aspetto di cui tener conto: la presunta innocenza delle creature. Dopotutto un adulto può anche meritarsela la fine che ha fatto, un bimbo invece, mai.
    Altrimenti perché emozionarsi di più per la morte di un bimbo, rispetto a quella di un adulto?

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    1. Capisco quello che intendi. Però il ragionamento sembra un po' troppo imperniato sulle possibilità. Da un lato parli di "presunta" innocenza. Dall'altro dici un adulto "può" anche meritarsela. Ma una tragedia dobbiamo vederla per forza come il corollario di un giudizio?

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    2. Un tragedia di queste dimensioni risulta incomprensibile nelle sue proporzioni, e credo sia inevitabile - quasi necessario - una riduzione dei fatti ad una narrazione accettabile di quanto successo. I media in 'ste cose ci sguazzano scegliendo quasi unanimemente il grado zero della complessità e puntando sugli aspetti più universalmente e facilmente comunicabili ed emozionanti, che ormai l'informazione è un aspetto accessorio, e faticoso, del loro lavoro.
      Molto meglio puntare sulle emozioni primarie e far schierare il proprio pubblico (perché un pubblico schierato è un pubblico addomesticato) in favore della lacrima piuttosto che indurre il dubbio che ci siano responsabilità che riguardano tutti noi.

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  2. Dietro un media ci sono persone, nelle persone coscienze, per quanto ottenebrate. E se lo snocciolare dati in partenza empatici fosse il tentativo ultimo della coscienza che si smuove (magari a propria insaputa), considerato che dietro queste tragedie c'è quasi sempre un fattore umano a scatenarle? Voglio vederla in maniera positiva, per una volta.

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    1. Volerla vedere positivamente è un nobile intento. Ma non riesco a condividerla. Soprattutto quando si parla di media, non credo che chi vi lavora trasferisca le sue emozioni nel lavoro. Il giornalista è come il medico, avvezzo al dolore altrui e impermeabile a esso. L'unica empatia che riesce a evocare è quella a servizio dell'audience. Mi viene in mente quel film... "Dentro la notizia".

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  3. Già, curiosamente questa discriminazione sessista secondo cui se crepano maschi adulti si tratta di male minore davanti a cui provare quasi sollievo, è una delle poche discriminazioni che non fanno mai strepitare i tacchini del politically correct... (per non parlare del sollievo ancora più grande e unanime quando si scopre che il poveretto massacrato "non aveva moglie e figli... "meglio a lui che non..." ecc ecc)

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    1. Figuriamoci poi se il poveretto massacrato non era neppure italiano...

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