Punti di vista da un altro pianeta

mercoledì 28 novembre 2012

La pasticceria delle Primarie

Ancor più della faccenda (prevedibile) del ballottaggio, c'è una considerazione che emerge dalle Primarie di domenica scorsa su cui voglio soffermarmi. Perché se quasi quattro milioni di persone - ovvero quasi il 10% degli aventi diritto al voto della popolazione italiana (e dunque quasi il 20% dei votanti a sinistra, se si considerano i due schieramenti più o meno divisi in parti uguali) - decidono di partecipare a una simile consultazione popolare, per certi aspetti del tutto inutile, per altri non proprio del tutto trascurabile, sborsando pure 2€, significa che il popolo della sinistra ha ancora (nonostante tutto) voglia di partecipare, pensa che si possa ancora fare qualcosa, ovvero di sentirsi parte di un corpo unico, come la condivisione di un orizzonte, l'appartenenza popolare a un medesimo ideale, la coltivazione di un progetto comune.

Tutto ciò fa parte della capacità di avere ancora (nonostante tutto) la visione di un futuro migliore del presente e questo è davvero bellissimo, perché dà in qualche modo la misura della vitalità di un paese, o almeno di una parte di esso, ovvero delle singole persone che, tutte insieme, lo animano. Persone che, dentro un mondo che ha una percezione del domani proporzionata ai dividendi del prossimo trimestre, hanno voglia di pensare al futuro loro e delle generazioni che verranno e dunque vogliono una politica lungimirante e interessata (anche) ai loro problemi. Ma il punto è: saprà la politica fare suo questo messaggio (davvero) forte che viene dal basso, abdicando agli orgogli dei personalismi e agli scambismi clientelari di soffici poltrone imbottite di bigliettoni? Finora, a dispetto di molte Primarie, quasi sempre sfociate in altrettante manifestazioni di (notevole) successo popolare, la Politica non ha mai dimostrato di poterci riuscire, per lo meno quella a livello nazionale, al punto che viene il sospetto che non sia nella sua Natura avere le capacità di farlo.

Forse, dunque, alle persone è sufficiente somministrare l'Illusione di tutte queste (belle) cose. Servirgli un solo, ottimo, ma piccolissimo pasticcino di democrazia, per promettergli (ma senza farlo veramente) che poi avrà tutta la pasticceria. Fargli credere di poter scegliere qualcosa che, in seguito, alla prova dei fatti, si rivelerà del tutto irrilevante, come un segno della croce all'uscita della chiesa, o la bustina di dolcificante nel caffè di un obeso. Sono (solo) queste le Primarie? Più una sorta di rito collettivo autocelebrativo, di rosario politico per le coscienze, di training autogeno di massa, di riunione globale di Comunisti Anonimi («Mi chiamo Enrico e ho un problema». «Ciao Enrico!».) per gratificare e consolidare così il Pensiero-a-Sinistra, piuttosto che esprimere qualcosa di veramente utile nell'ambito di una prospettiva politica di Governo? Forse è per tutti questi motivi che, in realtà, la gente invoca le Primarie. Perché sa che in fondo l'Illusione è tutto ciò che ha e vuole che qualcuno (nonostante tutto) continui a soffiare col mantice per evitare che quella piccola brace si spenga sotto questa pioggia battente. Perché la gente sa che una volta spenta quella brace, tutto ciò che resterà sarà solo buio pesto, umidità e freddo cane.

lunedì 26 novembre 2012

Quattro soli a motore, un solo Pezzoli a tutta birra

Trovo molto affascinante quell'immaginario letterario nell'ambito del quale le iniziazioni, i riti di passaggio, le maturazioni, le esperienze di formazione che spingono tipicamente i ragazzini verso l'età adulta, avvengono d'estate. Immerse nel sole. Tra le spighe che frusciano nel vento. Condite dagli odori di ginestre e salsedine. Quando la scuola è chiusa. Quando si è liberi dalle catene dei banchi, dalle camicie di forza dei grembiuli, dalle dittature dei maestri. Come se in qualche modo la scuola, con le sue sbarre di compiti e interrogazioni, rigore e imposizioni, costituisse un freno, una barriera, un peso nelle tasche della maturazione dei ragazzini, i quali hanno bisogno di libertà e leggerezza per prendere (finalmente) coraggio e volare oltre gli steccati di lecca-lecca dell'infanzia.

Sono (sempre) estati di misteri da svelare, quelle, estati di cadaveri da ritrovare, dove si impara a dare del tu al dolore e a scherzare con i vermi della morte, dove pur nella nebbia della paura si cerca il coraggio di mandare in porto un primo bacio d'amore, dove ci si stupisce di scoprire che, nella realtà, il bene e il male non corrispondono mai agli assoluti di Tex Willer e Mefisto. Stagioni dove scopriamo cose su noi stessi e su chi ci sta vicino, che non avremmo mai immaginato e che - forse - non avremmo mai voluto. Penso per esempio al celebre Stand by me di Stephen King, come pure a Io non ho paura di Niccolò Ammaniti. Ma anche Quattro soli a motore di Nicola Pezzoli (Neo Edizioni) rientra alla perfezione dentro questa categoria.

In questo caso l'estate è quella del '78. L'Argentina ha appena rubato il titolo mondiale all'Olanda e lo sfondo è l'immaginario paese (Cuviago) di una Lombardia rurale che vede all'orizzonte l'approssimarsi di una industrializzazione pronta a stravolgerlo per sempre. Per Corradino, undicenne al confine tra elementari e medie, è l'estate cruciale, quella che contribuirà più d'ogni altra a farlo diventare quello che è oggi. Perché la maturazione nasce sempre dal confronto con la paura, dalla difficoltà del suo superamento e dalla consapevolezza di avercela fatta, nonostante tutto.

Così Corradino vive la sua estate assediato dalle solite vessazioni (familiari, scolastiche e sociali) che cerca di esorcizzare affidandosi a un taccuino che, come una bambolina voo-doo, sembra possedere poteri magici, parole come spilli, o addirittura come proiettili, nell'illusione (reale?) che la scrittura possa far girare il mondo a suo favore, in bilico tra religiosità e blasfemia, e dall'altro nell'attraente investigazione sul ruolo del vecchio Kestenholz che sta nella casa dell'orrore al di là del campo di granturco e che si dice abbia ucciso (e forse pure mangiato!) i suoi tre figli.

La quarta di copertina definisce Quattro soli a motore "l'archetipo del romanzo di formazione a tinte noir", ma i registri con cui Nicola Pezzoli colora il suo libro sono assai più numerosi, perché Pezzoli usa con la personalità stilistica che lo contraddistingue (e chi segue il suo blog sa bene di cosa parlo) tutti i registri letterari disponibili: il noir, l'horror, la fantascienza, il surreale, la satira, il comico e il tragico, al fine di comporre un personalissimo affresco vivido e sferzante, ma anche tenero e delicato, di una gioventù perduta che potrebbe essere quella dell'autore o di tutti voi, la gioventù del riso e del pianto, dei sogni e dell'immaginazione, dell'amicizia e dell'amore, della paura e del sesso, del tradimento e della scoperta, il tutto sorretto da una scrittura che conferma il talento e la solidità di un autore che in Quattro soli a motore ha davvero messo tutto se stesso, che merita tutta l'attenzione possibile e che - potete scommetterci - farà ancora (molto) parlare di sé.

Quattro soli a motore, di Nicola Pezzoli (Neo Edizioni)

[Le immagini sono momenti della bellissima presentazione genovese di venerdì scorso presso la Libreria BooksIn di Vico del Fieno 40R, dove - se siete di Genova - potete trovare il libro a botta sicura].

Quattro estratti:

"Un carro decrepito, col pianale smangiucchiato dai tarli, sostava sul retro della fattoria, a ridosso del noce e dei meli, subito prima del prato che dolcemente inclinava a diventar montagnetta. Poco più in là della porta posteriore della stalla e prima del noce e dei meli c'era una specie di piscina rialzata però piena di merda. Era una vasca in muratura che gli Stevanato riempivano di stronzini di pollame (detti sghitti, anzi: "i sghiti") e boasse di mucca impastate con fili di paglia, che poi stando lì diventavano letame e ci si concimavano i campi. Tutto questo non dava colore alla scena, in compenso gli conferiva odore. La signora Beatrice decantava le magnificenze della sua piscina: "Tuta bèa merda! No come quei che vende el letame, che xe tuto pieno de smergasse! Vardi che merda! Tuta bèa merda!"

"Da tanto che rideva la Cristina le uscivano le lacrime dagli occhi. Erano belle quelle lacrime, mi piacevano, m'ingolosivano, avrei voluto berle, e avrei voluto fossimo più grandi e già sposati per abbracciarla e metterglielo dentro lì per strada e fare un altro figlio dei magari quindici moribondi di fame che avevamo già."

"La religione non è l'oppio dei popoli" aveva sentenziato una delle prime volte, come seguendo il filo di un ragionamento tutto suo. "Magari, lo fosse! La religione è l'odio, fra i popoli. Poiché non c'è un solo Dio che non sia stato creato cacciabombardiere, criminale genocida, portafortuna dei carnefici nella mattanza".

"Ma non era solo la quantità, non era solo la sorpresa per aver trovato la Biblioteca di Babele al posto di un salotto. C'era qualcos'altro, Quancosa di sconcertante. Di strano e spaventoso. Una diabolica follia presiedeva alla composizione di quegli scaffali! Non lo capii subito, per via della semioscurità che lasciava solo intuire le forme e i colori. Mi avviccinai alla parete alla mia destra, e infine vidi. Vidi cos'avevo davanti, e trattenni a stento un grido di terrore. Di fronte a me c'era qualcosa di mostruoso. La mia curiosità mi ci aveva fatto cozzare contro, e adesso mi guardavo attorno smartrito, senza saper più cosa fare, che cosa pensare... Tutti uguali! Quelle migliaia di libri avevano tutti lo stesso colore. Le stesse dimensioni."

mercoledì 21 novembre 2012

Chi è choosy alzi la mano

Basta col dare addosso alla Fornero! Avrà anche la lacrima (rettilea) facile e i modi presuntuosi e indisponenti da Signorina Rottermaier, ma stavolta aveva ragione. Almeno in parte, s'intende. C'è pieno, in giro, di giovani choosy. Come c'è pieno di fannulloni. Come c'è pieno di evasori fiscali. Come c'è pieno di elettori di Berlusconi. E ce ne fosse uno che ammette (mai) di esserlo! Quando invece sentono il fischio, tutti allargano le braccia e guardano l'arbitro con l'espressione scandalizzata: «Stai dicendo a me? Ma come ti permetti, io non ho fatto niente!» Mentre l'altro è a terra che si contorce, la gamba spaccata e le ossa di fuori, scomposte come i resti di una partita a shanghai. Del resto è facile (e psicologicamente gratificante) scagliarsi contro il rappresentante del potere di turno, tutti insieme come una testuggine di categoria, di duri e di puri, colombe bianche, irriducibili stakanovisti, col cipiglio di quelli feriti nell'orgoglio e nell'amor proprio. «Stai dicendo a me? Ma come ti permetti? Tu non sai niente di me, del culo che mi faccio o di quello che sarei disposto a farmi, pur di trovare uno straccio di lavoro!».

Invece la realtà è assai più policroma, distante dalle regole digitali dei media e della comunicazione (e della politica), diversificata dalle monografie cinguettanti a 140 caratteri o dagli stati adulativi a caccia di clic, diversa dalla retorica da microfono e podio-odio-odio, discorde dagli slogan scanditi e dalle voci gridate al cielo sulle ali della rabbia e dell'identità di gruppo, difforme dai pugni alzati e dalle bandiere e gli striscioni, tutti figli - a modo loro - della retorica (di potere o di opposizione che sia) e, soprattutto, dell'ipocrisia che tutto glassa, come un'abbondante nevicata acida sempre fuori stagione. Così, se la Fornero parla per assiomi generalizzanti da un lato, chi si sente in qualche modo chiamato in causa risponde per assiomi generalizzanti dall'altro, in un ping-pong surreale e inutile, se non a titolo di psico-punching-ball per le persone e di farcitura grassa e ricca per i media. Insomma, non illudetevi, non vi basterà fare gli struzzi, dire di non essere choosy per non esserlo: c'è pieno di choosy in giro, nascosti, chiusi nelle loro stanzette a tenersi in forma con la Wii-Fit, a dondolarsi nelle Poäng, a sgranocchiare barrette energetiche davanti al blog preferito, io lo so che ci sono e lo sapete anche voi, e mica solo tra i giovani, individui troppo choosy, discendenti diretti di un mondo troppo easy.

lunedì 19 novembre 2012

Incontri Ravvicinati di un Certo Tipo

Tutti conoscono quelli del Terzo (Tipo). In realtà la classificazione degli incontri con extraterrestri si spinge fino al Settimo. In questo caso, però, direi che potremmo fermarci al Quinto, ovvero "incontri bilaterali posti in essere tramite iniziative umane coscienti, volontarie ed attive, o tramite la comunicazione cooperativa con intelligenze extraterrestri".

Mi riferisco infatti all'incontro-presentazione del libro Quattro Soli a Motore, nuovo bellissimo romanzo di Nicola "Zio Scriba" Pezzoli (Neo Edizioni), in programma per il prossimo venerdì 23 novembre alle ore 18:00 a Genova, presso la Libreria BooksIn, Vico del Fieno 40R (a pochi passi da Piazza De Ferrari, piazza principale della città), durante il quale io stesso calerò per fare da moderatore e parlare con lui, del romanzo, di scrittura, di letteratura e di tutto quello che ci passerà per la testa. In un colpo solo vi beccherete così l'impareggiabile Nicola "Zio Scriba" Pezzoli e l'umile sottoscritto in carne-e-ossa (e antenne).

In aggiunta, volendo, potrete partecipare alla cena a seguire (massimo una ventina di partecipanti, ma c'è ancora posto). Basta che vi prenotiate mandandomi una mail all'indirizzo:

ilgrandemarziano(at)gmail.com.

Se siete in zona non potete mancare!

giovedì 15 novembre 2012

Se Ben Affleck è più bello dietro (la macchina da presa)

Argo è un gran bel film. Potrebbe bastare questo. E dovreste fidarvi. Ma voglio dirvi qualcosa di più, senza però svelarvi niente e consentirvi così di gustare al massimo questo ottimo film. Allora la storia è quella della crisi degli ostaggi americani che accadde a Teheran a cavallo tra il 1979 e il 1980 in seguito alla reazione all'appoggio degli Stati Uniti allo Scià Rezha Pahlavi. Dunque il 4 novembre del 1979 un gruppo di iraniani fedeli alla Rivoluzione fece irruzione nell'ambasciata degli USA e prese 52 ostaggi che tenne prigionieri per ben 444 giorni. In quell'occasione, però, 6 addetti dell'ambasciata riuscirono a fuggire prima dell'invasione dei rivoluzionari e trovarono rifugio presso l'Ambasciata del Canada. Il problema, per questi 6 americani, era così di riuscire a uscire dal paese sani e salvi. Quello che successe è ormai storia (ed è facile da trovare su Internet), ancorché sulle prime secondo una "versione pubblica ufficiale" decisamente addomesticata, la quale ruotava intorno al ruolo cruciale dell'ambasciatore canadese. Ciò che invece accadde veramente, e che venne rivelato solo molti anni dopo, sotto la Presidenza Clinton, il quale tolse il segreto alla vicenda, è quello che viene raccontato in questo film.

Insomma, le cose andarono assai diversamente rispetto alla versione ufficiale. L'ambasciatore canadese infatti non fece molto più che ospitare i sei nell'ambasciata, ma non ebbe alcun ruolo determinante, se non quello di metterci la faccia, con tutto ciò che questo comportava. La realtà vide invece l'azione occulta di un "esfiltratore" della CIA, ovvero di un esperto in fughe (Ben Affleck nel film), il quale ideò e mise in pratica un escamotage pazzesco, davvero ai confini dell'assurdo, ma che forse proprio grazie a questa sua intrinseca follia, finì in qualche modo per assumere paradossalmente i contorni della credibilità. Dunque per cercare di uscire dall'impasse, gli americani approvarono la costruzione di una duplice finzione, ovvero di una finzione in una finzione, dimostrando così per certi aspetti la loro supremazia nel settore, perché solo loro - con la loro mentalità e il loro background culturale, ma anche grazie a tutto l'immaginario di cui hanno saputo circondarsi - avrebbero potuto anche solo pensare di escogitare una pazzia del genere, per non dire trovare il coraggio di metterla addirittura in pratica, ponendo a rischio in una simile missione sette vite umane.

Del film (e del suo finale) non vi dico di più, se non che la realizzazione è davvero pregevole. Le ricostruzioni, le scenografie e i costumi, suggestivi e accurati, distintivi di un'epoca la cui atmosfera peculiare viene accentuata dalle luci e dall'azzeccata patina retrò delle immagini. C'è pure il pulmino Volkswagen. Quanto al buon Affleck, visto altrove come poco più di una maschera di pesce lesso, va detto che qui regge benissimo il passo della propria creatura davanti alla macchina da presa, ma soprattutto dietro tiene saldamente le briglie della narrazione in un'efficace gestione della trama e, soprattutto, della tensione, fino al (geniale) scioglimento finale.

Insomma, andatelo a vedere e fatemi sapere.

[NB: Non potete capire lo sforzo che ho fatto per evitare di darvi indizi su cosa succede o su come va a finire il film. Apprezzatemi!]

martedì 13 novembre 2012

L'antipolitica allo specchio

C'è un cattivo gusto denigratorio nell'attribuire al Movimento 5 Stelle la qualità dell'"antipolitica". Comunque li si voglia considerare, piacciano o non piacciano i modi, si condividano o non si condividano le proposte e le strategie, Grillo e i suoi fanno politica, a tutti gli effetti, come la fanno i cittadini che prendono in mano una bandiera e vanno in piazza, come la fanno i cittadini che si arrampicano in cima a una gru per rivendicare i loro diritti, come la fanno i cittadini che scivolano in una cabina elettorale ed esprimono il loro voto su una scheda. Tutto è politica (democratica) nel momento in cui si lotta - nell'ambito della legalità e di quanto sancito dalla Costituzione, naturalmente - per rivendicare il proprio diritto ad avere voce in capitolo nell'amministrazione dello Stato, ovvero di noi stessi, cittadini che ne facciamo parte e nel nostro esserne parte lo rendiamo possibile.

Dunque c'è anche un pessimo retrogusto sottilmente (e astutamente) manipolatorio nell'ostinarsi ad attribuire al Movimento 5 Stelle la qualità dell'"antipolitica" (e di convincere così la popolazione di questo). Come a voler sottolineare implicitamente (e l'implicità è fondamentale nella manipolazione) una contrapposizione negativa e battezzarla così di fronte all'opinione pubblica con qualcosa di maligno, come un verme pronto ad avvelenare dall'interno la mela del sistema-paese. Ma se dunque esiste davvero un'"antipolitica", quale dovrebbe essere la parte sana della mela, quella chiamata "politica", quella che si arroga il diritto di giudicare l'altra? Forse quella dei soldi pubblici intascati? Quella dei nepotismi? Quella delle mazzette? Quella degli evasori? Quella dei festini priapici e delle speculazioni sismiche?

Grillo e i suoi possono piacere o meno (e chi mi segue, sa che non godono di particolare simpatia da queste parti). Ma non credete alla balla dell'"antipolitica". Tutto è politica. Tutto. Anche questo post.

sabato 3 novembre 2012

Appuntamento con un alieno, anzi con due

Tra poco meno di tre settimane, Il grande marziano farà la sua prima apparizione pubblica (annunciata) sulla Terra in occasione di un evento del tutto eccezionale. Non si tratterà di un workshop di cerchi nel grano, né di un seminario di rapimenti notturni, né di un flash mob ufologico. Sarà invece molto più interessante come un Incontro Ravvicinato del Quarto Tipo.

Venerdì 23 novembre 2012, alle ore 18, presso la Libreria BooksIn di Vico del Fieno 40R a Genova, avrò infatti l'onore di presentare Quattro soli a motore, il nuovo romanzo di Nicola "Zio Scriba" Pezzoli, il quale sarà - ovviamente - presente, insieme con l'editore (Neo Edizioni), per parlare del romanzo, di scrittura, di letteratura, di blog e di tutto quello che ci passerà per la mente.

La serata poi continuerà al ristorante. Chi vuole partecipare è pregato però di avvertirmi della sua presenza per la prenotazione entro il 20 novembre prossimo, mandandomi una mail a: ilgrandemarziano(at)gmail.com.

Insomma, quando li trovate Zio Scriba e Il grande marziano di nuovo insieme in un colpo solo? Se avete la fortuna di essere nei paraggi, non potete mancare a una serata così.

Vi aspettiamo.

mercoledì 24 ottobre 2012

Una puzza tremenda di capro espiatorio

Confesso che non ho avuto il tempo di approfondire molto la questione, quindi l'opinione che mi sono fatto a proposito della condanna degli esperti scienziati della Commissione Grandi Rischi in merito al preteso insufficiente allarme sul sisma dell'Aquila è quella del più classico marziano-della-strada. Ma il brivido peggiore, per me, in questo caso è dato dal ritrovarmi consapevolmente sulla stessa lunghezza d'onda di Schifani e Casini, mentre il frittatone-Bersani non perde l'occasione per esercitare lo sport che gli riesce meglio, quello di camminare su una nidiata di pulcini appena nati (e prendi una cazzo di posizione, una volta!), e gli abruzzesi Pezzopane e Cialente applaudono la sentenza a scena aperta, come manichini dal cervello vuoto, senza rendersi conto davvero di quello che fanno, o - forse meglio - rendendosene conto, ma dovendo (volendo) pagare il triste dazio politico nei confronti del desiderio popolare dell'attribuzione di colpa.

Del resto non c'è niente come trovare qualcuno da linciare. È analgesia. È esorcismo. È marketing. Ed è una bella faccia sulla quale far sputare la pubblica piazza. E se la faccia è la tua (e dunque non la mia), tanto meglio.

venerdì 12 ottobre 2012

Infinite Jest, ovvero sulla dipendenza (da David Foster Wallace) (2 di 2)

Appare dunque chiaro che l'approccio stilistico di IJ con cui vi ho lasciato ieri, ovvero non-lineare, così per certi versi estremo e radicale, è un po' un'arma a doppio taglio: ci si sorprende sempre per situazioni che non ci si può (quasi mai) neanche lontanamente aspettare, ma per lo stesso motivo non si è mai colti (per lo meno a me è successo così) dalla voglia di sapere come va a finire (perché in genere il desiderio di sapere come va a finire è, di fatto, nutrito dalla conferma - o smentita - di un'aspettativa che deriva da ipotesi che il lettore fa sullo svolgimento della storia stessa e con DFW è impossibile farlo). Sotto questo punto di vista DFW è letteratura allo stato puro, perché sono i passaggi che fai - e che magari ti costano fatica fisica e psichica - e i paesaggi che vedi - e che ti lasciano a bocca aperta - di quel lungo trekking che contano, non la meta cui arriverai alla fine, contano le singole tessere (alcune devastantemente belle, divertentissime o tristissime o, spesso, entrambe le cose insieme, come nell'allucinante storia ipersurreale di Eric Clipperton - parliamo della vicenda di un tennista che, non sopportando l'idea di perdere, gioca sempre con una pistola alla tempia, minacciando così di farsi saltare la testa nel caso di sconfitta... - o nel racconto che Hal fa allo psicologo circa la scoperta della morte di suo padre - questa non ve la dico -, ma ce ne sono moltissime sparse lungo tutta la narrazione) e molto, molto meno il mosaico finale.

Forse perché il mosaico finale è davvero molto, molto complesso da risolvere nella sua interezza e probabilmente una lettura non basta e forse nemmeno due, anche perché soprattutto tutta la prima parte serve per familiarizzare con nomi, soprannomi (certi personaggi ne hanno addirittura più d'uno, come per esempio il padre di Hal), luoghi, situazioni e costruirsi le coordinate base della vicenda non è cosa di poche pagine. E questo, devo dire alla fine nel mio caso ha portato un po' di delusione (ma i finali di DFW non sono mai scoppiettanti perché non si assiste mai un vero e proprio climax nella narrazione), come pure, a tratti, ho trovato difficilmente sopportabili alcuni lunghi passaggi scritti in flusso-di-coscienza (quello, molto lungo, sul finale, a tratti è davvero pesante e lo penalizza ancora di più il fatto di trovarsi in prossimità della coda del romanzo, quando per forza di cose in qualche modo ti aspetti eventi/rivelazioni che però non arrivano, o almeno non come penseresti tu - ma questo succede con ogni cosa di DFW). D'altro canto, se si pensa che nella stesura che DFW presentò inizialmente all'editore il romanzo era lungo circa il doppio, obiettivamente aver auspicato ulteriori tagli - sebbene forse avrebbero potuto giovare alla lettura - è di difficile ragionevolezza.

Per i medesimi motivi risulta anche molto arduo parlare dei temi del romanzo, senza semplificarli troppo o senza dimenticarsene qualcuno. D'altro canto c'è in giro una smisurata saggistica sul romanzo, e non ho certo la presunzione di poter aggiungervi qualcosa di notevole qui, in poche righe e avendo letto il romanzo una sola volta, qualcosa insomma che non sia già stato detto. Mi mantengo dunque a livello pseudoinformativo, dicendo - a beneficio di chi non ne sa un accidente - che i poli tematici forti del libro sono due: la dipendenza, realizzata attraverso differenti agenti, come la droga, l'alcool, le medicine, ma anche attraverso l'intrattenimento, di cui Infinite Jest rappresenta la punta suprema (chi si imbatte nella visione di questo film, ne trae talmente piacere da non potersene staccare più in alcun modo, fatto increscioso che ne causa la morte e la trama - peraltro non molto marcata - ruota proprio attorno al recupero del master della cartuccia di questo film realizzato dal padre di uno dei protagonisti) e la competizione estrema che la società occidentale richiede agli individui che la popolano per emergere e realizzarsi, metaforizzata attraverso le vicende dei giovani tennisti della Enfield Tennis Academy (lo stesso DFW praticò il tennis ad alto livello per tutta l'adolescenza, dunque non è un caso che sia uno dei suoi argomenti feticcio).

Ma la cosa davvero notevole del romanzo è la miriade di storie, aneddoti, memorie, testi teatrali, interviste, saggi, persino un gioco di ruolo - l'Eschaton - che coniuga tennis e guerra termonucleare (DFW usa ogni tecnica letteraria disponibile), in cui ci si imbatte di volta in volta, come un cielo stellato per uno che è appena uscito per la prima volta da una caverna, e lo stile di DFW sempre in bilico tra tragedia e commedia, tra il riso (a volte a crepapelle, sul serio) e il dolore più disperato, in un surrealismo che possiede un'originalità di ordine superiore e, nel contempo, una lucidità e una profondità di analisi degli individui e della società davvero fuori del comune. E se, ammetto, alla fine - come opera nel suo complesso - ho apprezzato un filo di più La scopa del sistema (nel senso che alla fine della Scopa ero entusiasta, mentre alla fine di IJ mi sono ritrovato annichilito), ma forse anche perché ho chiuso IJ davvero provato, anche per colpa dell'ultima parte non sempre agevole, non posso non rendermi conto che IJ è qualcosa di unico e (forse) irripetibile nel panorama letterario (post?)moderno e che la sua complessità ha bisogno di essere decantata per essere apprezzata, come un bellissimo viaggio che nella consapevolezza distillante della memoria acquisisce maggiore bellezza nel riconoscimento via via maggiore dell'esperienza fatta.

Così, chi ha voglia e riesce ad arrivare in fondo a IJ, non può non rendersi conto di trovarsi di fronte, ancora prima che a un'opera letteraria unica, a un autore straordinariamente unico, uno che ti ipnotizza con l'obliquità del pensiero, uno capace di sovrapporre il paradosso supremo della vita, la tragedia e la commedia, nella medesima narrativa, come non mi è mai capitato di sperimentare prima in letteratura, uno in grado di evidenziare la filigrana della realtà e delle sue conseguenze (non dimentichiamo che IJ è del 1996) e prendersi gioco di essa con una lucidità impressionante (cosa dire di uno che, per esempio, si inventa l'abbandono del Calendario Gregoriano - e ti spiega anche per filo e per segno come e perché - a beneficio dell'introduzione dell'Anno Sponsorizzato, cosicché - per dire - invece del 2012, tu ti trovi nell'Anno del Pannolone per Adulti Depend?) uno - l'unico? - che ha tirato fuori forse qualcosa davvero di nuovo dalla narrativa negli ultimi quindici anni, uno che, come dice Zadie Smith in una introduzione a uno dei suoi libri, ha un cervello che viene voglia di frequentare.


Alcune citazioni sparse:

Le mattine peggiori, coi pavimenti freddi e le finestre calde e la luce senza pietà - la certezza dell'anima che il giorno non dovrà essere traversato ma scalato verticalmente, e andare a dormire alla fine della giornata sarà come cadere da un punto molto in alto, a strapiombo.

Se una donna appena attraente fa tanto di sorridere a Don Gately quando gli passa accanto in una strada affollata, Don Gately, come quasi tutti i tossicodipendenti eterosessuali, nello spazio di un paio di isolati le ha già confessato eterno amore nella sua mente, l'ha scopata, si è sposato e ha avuto figli da quella donna, tutto nel futuro, tutto nella sua testa, e sta coccolando un piccolo Gately sulle ginocchia mentre questa Sig.ra G. mentale spolvera in giro con un grembiule addosso che certe notti indossa senza niente sotto. Quando arriva dove doveva andare, il tossicodipendente ha già divorziato dalla donna e si sta battendo come un leone per la custodia dei figlio oppure è ancora mentalmente felice insieme a lei negli anni del tramonto, seduti insieme in mezzo ai nipotini con le teste grosse sotto il portico su un dondolo speciale modificato per sostenere la mole di Gately, lei con le calze elastiche e le scarpe ortopediche, ancora maledettamente bellissima, e non hanno bisogno di parlare per capirsi, e si chiamano 'Mamma' e 'Papà', sapendo che tireranno il calzino a poche settimane l'uno dall'altra perché nessuno dei due può assolutamente vivere senza l'altro, e questo è il legame che li unisce dopo tutti questi anni.

Ogni palla che atterra nella vostra parte di campo ma non siete sicuri se è dentro o fuori: datela buona. Ecco come rendervi invulnerabili da chi usa mezzucci. Come non perdere mai la concentrazione. Ecco come ripetersi, quando l'avversario ruba punti, che una volta corre il cane e una volta la lepre. Che la punizione di un gioco poco sportivo è sempre autoinflitta. Provate a imparare dalle ingiustizie.

La vita è come il tennis. Vince chi serve meglio.

Infinite Jest, di David Foster Wallace (Einaudi Stile Libero)

[Credit: il ritratto in alto è di Tommaso Pincio, preso qui]

giovedì 11 ottobre 2012

Infinite Jest, ovvero sulla dipendenza (da David Foster Wallace) (1 di 2)

La lettura di David Foster Wallace è (sempre) un'esperienza la cui unicità, trova la misura in quella dello scrittore, ma a maggior ragione vale forse più il viceversa. Coloro che non l'hanno mai letto a questo punto potrebbero storcere il naso e pensare che un'affermazione del genere potrebbe essere frutto dell'adeguamento ingenuo a una moda imperante, della conversione ovina a un culto letterario, della volontà supina di adesione a una nicchia di appassionati come autorealizzazione identitaria. Mi spiace, ma con DFW non funziona così.

E se ne hai subito sentore leggendo i suoi saggi, che parlano di temi in qualche modo familiari e in qualche modo popolari (crociere, tennis, bovini, cinema, media ecc.), figurati che cosa può succedere nella narrativa quando DFW non è vincolato da steccati o da binari di alcun genere, ma può lasciare sciolte le briglie della sua creatività. E, rincarando la dose, se te ne accorgi subito leggendo i suoi racconti brevi, e non puoi fare a meno di notarlo nel suo (a mio avviso splendido) La scopa del sistema, figurati che cosa può succedere a valle di una lettura spaziosa, articolata e complessa come quella di Infinite Jest, che ho da poco terminato dopo oltre due mesi di lettura, un po' come un trekking lungo un percorso pieno di sorprese, non privo di difficoltà, ma anche gratificante di paesaggi unici e indimenticabili.

È sbagliato pensare, infatti, che IJ sia un classico page-turner. Chi cerca romanzi di questo genere, di quelli tutti in discesa, è meglio che lasci perdere. IJ è (anche) una fatica, in primis fisica. Il libro infatti, nell'edizione Einaudi (io ho la IV del 2008), pesa 1005 gr (per 1179 pagine di romanzo + 100 pagine di note che, malgrado il corpicino del loro carattere, non potete pensare di evitare: non sono accessorie e non di rado sono cruciali per la comprensione e aggiungono dettagli a volte fondamentali, spesso rilevanti, alla storia) e questo di certo non è una goduria per le spalle, quando te lo devi scorrazzare in giro in una borsa. È come portarsi dietro uno di quei piccoli ferri da stiro da viaggio. Per non parlare di quando devi tenerlo in mano per leggerlo, mettendo alla prova i tuoi polsi, benché questo possa anche farti bene come esercizio fisico (i tennisti, almeno loro, ringrazieranno e, va detto, non soltanto per questo). Una buona alternativa è dotarsi della versione e-book, benché ammetta che non sia legale (infatti non mi risulta che esista a oggi una versione elettronica "ufficiale" in commercio in lingua italiana, e va inoltre aggiunto che quella che ho trovato io, e che si trova in giro, ha pure qualche problema nella gestione delle note da un certo punto in avanti), ma a mia discolpa posso dire che ho anche la versione cartacea (v. foto in alto) e ho letto entrambi a seconda della convenienza delle situazioni. Quindi nei confronti dell'editore (e dei miei avambracci) la mia coscienza è a posto.

Ma la fatica che IJ richiede, è anche (soprattutto) intellettuale. Perché IJ è romanzo complesso e multiforme, fitto di personaggi, di storie, di intrecci, di situazioni che si sfiorano o si traguardano da lontano, di cose che scoprirai centinaia di pagine più avanti, di cose che capirai centinaia di pagina più avanti, è romanzo dove DFW non risparmia divagazioni, aneddoti, storie nelle storie, avanti-e-indietro temporali, ma dove DFW non ti spiega mai niente in maniera gratuita. Basti pensare che per illustrare una delle parti più complesse del libro, ovvero la surreale situazione geopolitica dell'ONAN (!) che fa da sfondo al romanzo, DFW escogita uno spettacolo di marionette. Così, se per cominciare a capirci qualcosa devi stringere i denti e arrivare più o meno a pagina duecento (praticamente un intero romanzo solo di introduzione), mi rendo conto che qualcuno possa alzare bandiera bianca ben prima.

Ed è forse proprio qui che escono allo scoperto gli Wallaciani, perché IJ funge da filtro, da setaccio: se decidi di andare avanti, significa che sei animato da motivazioni che possono sorgere soltanto dalla (pazzesca) autorevolezza dell'autore (e, va detto, tutta meritata), del suo pensiero e del suo stile, e dalla fiducia che il lettore vi deve per forza riporre. Per questo credo che prima di affrontare IJ sia necessario intavolare (e coagulare) un "rapporto" con lui, con il suo modo di ragionare e il suo modo di scrivere, partendo senza dubbio da qualche saggio e passando per la narrativa più breve. Se vi garba, vi prende, entrate in sintonia, proseguite, altrimenti significa che non fa per voi. Perché, se in qualche modo proviamo a distillare (banalizzare?) la complessità della narrativa di DFW, un dato a mio avviso spicca su tutti gli altri, ed è una notazione a ben vedere tutt'altro che banale perché finisce per influenzare l'intero impianto stilistico di DFW e l'aspetto primordiale in cui il suo lettore si imbatte. La estrema, assoluta, sorprendente, spietata non-linearità.

/continua (domani)

License

Creative Commons License
I testi di questo sito sono pubblicati sotto Licenza Creative Commons.

Statistiche

Blogsphere

Copyright © Il grande marziano Published By Gooyaabi Templates | Powered By Blogger

Design by Anders Noren | Blogger Theme by NewBloggerThemes.com